Il carteggio Betti – La Pira. Giuristi che si scrivono

Abbiamo il piacere di pubblicare due contributi: il primo è un’introduzione della Prof. Campolunghi al volume Il carteggio Betti-La Pira, a cura di G. Crifò, Firenze 2014; il secondo è un intervento del Prof. Alberto Romano stimolato dalla lettura della bozza di relazione che la Prof. Campolunghi ha presentato al convegno Omaggio a Giuliano Crifò (1934-2001) A proposito del Carteggio Betti – La Pira, tenutosi il 13 novembre 2015 nell’aula Magna dell’Università degli studi di Messina.  Giuristi che si scrivono a proposito di giuristi che si scrivono.

Il carteggio Betti-La Pira

Il carteggio Betti-La Pira, a cura di G. Crifò, Firenze 2014
Fondazione «Giorgio La Pira», I Libri della Badia-20
Edizioni Polistampa

Emilio Betti, il nome quantomeno, dovrebbe essere ancora noto ai giuristi italiani di oggi, anche se lavorano in un secolo successivo al suo e dalla sua morte sono passati quasi cinquant’anni.
Per aver insegnato e scritto di varie discipline – diritto civile e processuale civile, agrario, teoria della interpretazione, oltre ovviamente al diritto romano – più noto ai giuristi accademici. Ma anche ai giuristi forensi, che si trovano a dover maneggiare e fare i conti con la causa del contratto in contrapposizione ai motivi, su cui tuttora si dibatte: la «funzione economico-sociale» è lessicalmente sua.
Come cittadini, poi, in questi giuristi, se non altro gli ultrasessantenni, dovrebbe ancora suscitare una eco il nome di Giorgio La Pira, singolare personalità di politico nel Novecento: per le battaglie contro tutte le guerre (così l’impresa insieme assurda e coraggiosa in Vietnam nel pieno svolgimento del terribile conflitto); quale più famoso sindaco di Firenze dal secondo dopoguerra (Renzi a parte, penseranno ovviamente i renziani).
In via generale, tanti condizionali, così dubbiosi, sono di prudenza. La cosiddetta storia ormai ha vita breve, forse per velocissime trasformazioni che portano a mettere insieme in un indistinto “passato”, e lì dimenticare o trascurare, tutto ciò che non è l’oggi. Di fronte a un diffuso disinteresse, a sorprendenti ignoranze (nel mero senso di non sapere) in giovani o in adulti maturi, viene da pensare ai bambini per cui è difficoltosa la cognizione del tempo: una dimensione, si sa, non innata ma frutto di conquista (e infatti l’insegnamento della storia comincia solo in terza elementare) per cominciare a distinguere tra giovinezza del nonno e assirobabilonesi.
Nel caso specifico, tanti condizionali prendono atto di un dato concreto: la scarsa attenzione che la pubblicazione di un epistolario tra i due personaggi ha suscitato in un parterre di lettori abituali quali sono, o debbono essere per professione, i giuristi, e nonostante due presentazioni, a Firenze, a Messina.
Vite assai diverse, personalità opposte. Perché abbiano intrattenuto una corrispondenza, e tale da riempire un volume a stampa, può meravigliare chiunque sappia qualcosa di entrambi senza però conoscere il legame fra loro.
In senso stretto, potrebbe ridursi a legame accademico, ratione materiae: giurista è stato anche La Pira, ordinario di diritto romano. In sostanza, però, è un rapporto ben più coinvolgente, di maestro e allievo. Il giovane La Pira, ventenne, e il poco meno giovane professor Betti, trentaquattro anni, si incontrano nell’Università di Messina, ove Betti insegna per due anni e La Pira, trasferitosi in città, studia. Con Betti, La Pira si laurea e, sotto la sua guida costante tra apprezzamenti e reprimende, viene da questi avviato, quasi forzato, alla carriera universitaria, fino a ottenere la cattedra. In questo ultimo torno di tempo, o poco dopo, il rapporto si spezza. Dalle lettere, che lasciano trapelare una sofferta separazione, non se ne evince la ragione. Non è ingratitudine di un allievo che, una volta arrivato, si liberi del maestro; sembra piuttosto il maestro a non condividerne più le posizioni, a sentire persa la iniziale consonanza.
Betti ha cercato sino allora di tutelare l’allievo. Lo ha invitato a non indulgere a inclinazioni filosofiche: potrebbero distoglierlo dal diritto. Lo ha messo in guardia dal far circolare proprie idee prima di pubblicarle: nel timore di utilizzazioni altrui. Lo ha ammonito a diffidare di molti: senza esitare a far nomi, profittando della riservatezza epistolare. E quando dal primo concorso l’allievo esce sconfitto, è totalmente dalla sua parte, convinto della iniquità della decisione. Si sdegna altresì che la successiva vittoria non sia così ‘riparatrice’ come sarebbe stato giusto, se ne preoccupa ai fini della sede che lo chiami. Di qui l’incitamento affinché «si muova e metta in opere le sue amicizie»: occorre «neutralizzare gli intrighi altrui», «che certo non mancheranno». Il «mondo accademico italiano», «di farisei e di camorristi spregevoli», fa sì che «a collocarsi prima e meglio» sia non «chi attende silenzioso al compito quotidiano dello studio e dell’insegnamento» bensì «chi ha faccia tosta e gomiti forti». E perciò l’invito a non peccare di ingenuità: «apra tanto d’occhi». Egli è in ogni caso a disposizione: «di me profitti per quanto possa esserle utile». Ma con il traguardo della cattedra il suo compito deve essergli apparso concluso. La Pira è ormai pronto ad andare per la sua strada.
Una strada che si svolgerà secondo tutt’altre direttrici. Una ‘strada’ passata di moda, si direbbe: nonostante ci sia ancor oggi bisogno di sindaci pronti a battagliare per una migliore vita dei concittadini, di intellettuali che non si limitino a vagheggiare nobili idee, come la pace mondiale, ma si impegnino fattivamente al loro servizio. Insomma La Pira sembra quasi scomparso, non pare parlarsene più.
Su Betti, invece, è tornato da ultimo ad accendersi qualche interesse anche se si collega forse a una più generale riflessione su “i giuristi del regime”.
Meglio fermarsi qui. La segnalazione non vuole addentrarsi nel volume. Si propone solo di suscitare qualche curiosità per questo carteggio e per i due personaggi che tramite esso si rivelano nel loro spessore scientifico e umano. Sono le curiosità a indirizzare verso un libro più che un altro, a farlo sfogliare per un saggio veloce, talvolta a farlo acquistare e leggere.
“Cose da romanisti”? Solo in parte è vero. Molte, certo, sono technicalities romanistiche. Possono lasciarsi agli specialisti, anche se rinfrescare conoscenze di anni universitari non arreca danni alla salute (anzi, vaccina contro miopi ‘estraneità’, migliora la vista per problemi di diritto ereditario posti e risolti nel pensiero giuridico antico). I non addetti ai lavori sceglieranno un percorso trasversale nel carteggio, e nelle annotazioni con cui Giuliano Crifò aiuta a muovervisi; avranno uno spaccato dell’accademia italiana anni Venti e Trenta, di modi di pensare il diritto su cui vale la pena riflettere.
I giuristi più pronti a recepirne l’interesse dovrebbero essere proprio quelli adusi all’ampio orizzonte di questa rivista: a essi infatti la segnalazione pensa e si rivolge.
Perciò (forse con troppo ottimismo?), buona lettura.
Maria Campolunghi

   Ho avuto la fortuna di poter leggere in anteprima la relazione che la Professoressa Campolunghi aveva scritto per il convegno messinese di presentazione del volume sul carteggio Emilio Betti-Giorgio La Pira. Relazione molto bella, molto densa, nella quale scandaglia i rapporti che La Pira ebbe con Betti, fa emergere i periodi di maggiore unione che l’allievo ebbe col maestro, e poi il progressivo suo allontanamento. E, tra l’altro, la Relatrice ne ricerca le ragioni, soprattutto nel quadro delle loro opinioni scientifiche, peraltro con una conclusione di segno negativo: non ne sono rilevabili di sufficienti a giustificarlo – forse, perché la causa profonda di questo distacco risaliva ben più lontano nel tempo, fino alla formazione giovanile del La Pira -. La relazione della Professoressa Campolunghi è per me di grande interesse personale, perché ho avuto rapporti con entrambi i due personaggi; anche in modi, su piani e con influenze molto diverse. Ripensandoli, ho rivissuto, oltre che esperienze personali, per me essenziali ma qui irrilevanti, il mondo della vecchia Università che fu; sia pure nello specifico ambito dei giuristi e delle loro Facoltà.

Non mi pare di aver conosciuto personalmente Betti. Ma la sua influenza sulla mia formazione scientifica fu forte: malgrado che questa si sia sviluppata soprattutto in ambiente familiare; ma, per certi aspetti non contraddittoriamente, pure per questa sua matrice.
In senso accademico, il mio Maestro, cui devo comunque molto per l’acquisizione della capacità di ragionare giuridicamente, fu Giovanni Miele: allievo di Guido Zanobini, a sua volta allievo di Santi Romano; ma che con Santi Romano ebbe anche molti contatti diretti. Ma, prima di lui, e più di lui sul piano della teoria generale, mi formai alla scuola di mio Padre, civilista all’Università di Firenze. Che mi fu Maestro decisivo in un doppio senso. Perché mi insegnò Santi Romano, il Maestro di tutti noi: con quella maturazione frutto anche dall’assiduità dei colloqui che la convivenza rese possibile; di qui, nei miei studi, la costanza della  prospettiva istituzionale per la comprensione dell’essenza degli ordinamenti giuridici, e la piena consapevolezza della loro conseguente necessaria pluralità. E perché mi diede l’esempio della fecondità di questa prospettiva. E, di qui, il mio legame, seppur indiretto, con Betti. Salvatore Romano prese da questo l’idea del negozio, del contratto, come precetto, come regola oggettiva del rapporto. Ma lo inquadrò in una visione diversa dalla sua: nella visione di quella teoria istituzionale e pluralistica. Costruì la nozione di autonomia privata, sistematizzando con maggior rigore i contributi di altri giuristi di gran rilievo, da Widar Cesarini Sforza a Giuseppe Capograssi;  delineò con incisività il diritto dei privati come esplicazione di quella loro autonomia negoziale, consistente in una loro naturale capacità, che l’ordinamento statuale rese per sé rilevante, ma limitandosi solo a riconoscere; e la distinse dal diritto privato, parte viceversa di questo ordinamento statuale medesimo.
Più modestamente, decenni dopo, ma in quella medesima prospettiva, a me, ultimo venuto, venne in mente di poter immaginare che anche il provvedimento potesse essere frutto di autonomia, anche se diversa: di quella di determinati soggetti di quel medesimo ordinamento, di suoi soggetti stavolta pubblici, che tale ordinamento  stavolta istituisce, e cui stavolta attribuisce costitutivamente poteri unilaterali. Ed è su queste basi che ho provato a concepire quel diritto amministrativo del quale mi sono occupato. Di cui avevo scelto di occuparmi, anche per non contravvenire alla regola di famiglia, secondo la quale i figli – e neppure i nipoti ex frate -, non insistono nella materia dei genitori e degli zii: dopo il Nonno, pubblicista, i suoi figli, Salvatore e Silvio, scelsero rispettivamente il diritto civile e il diritto romano; ed io dovetti tornare al diritto pubblico, e preferii quello interno.
Betti, allora, naturalmente solo dai discorsi che sentivo in famiglia, mi pareva il modello del professore universitario: nella sua completa dedizione agli studi, con la sua predisposizione agli approfondimenti teorici, e alla varietà dei temi trattati, che pur riconnetteva in una visione sistematica – basterà ricordare le sue ricerche sull’interpretazione, sfociate poi nella relativa Teoria generale -.

La Pira è stato mio professore alla Facoltà fiorentina di Giurisprudenza. Per questo, ebbi la fortuna di poter parlare con lui tante volte, e ancor più di sentirlo insegnare, anche ben dopo la mia laurea; ma poco di diritto, tutto sommato anche a lezione: soprattutto di altro, di molto altro.
Non riesco a immaginare persone più diverse: Betti, giurista accademico fino al midollo; La Pira, il perfetto contrario. E’ un fatto che la vocazione religiosa si è manifestata in La Pira molto prima del suo interesse per il diritto; e, credo anche quella per il sociale: in applicazione di questa religiosità. E ben presto, sono questi gli interessi che prevalsero assolutamente su ogni suo altro: anche su quelli relativi ala ricerca e all’insegnamento universitario, romanistico in specie. Certo, in alcuni anni il suo rapporto con Betti è stato molto intenso; anche se un po’ particolare: la Professoressa Campolunghi lo ha dipinto con grande incisività. Ma mentre leggevo la sua stimolante relazione, questi grandi personaggi mi venivano in mente come passanti che si sono incontrati in una piazza. Come in uno snodo ineludibile: per l’allievo che voleva intraprendere la carriera universitaria, e che quindi cercava un Maestro che lo facesse maturare scientificamente e, quindi, accademicamente; e se lo era scelto in Betti. Ma poi, da quella stessa piazza, il Maestro ha mantenuto il suo cammino risoluto lungo un Corso principale che quella piazza intersecasse; e l’allievo ha ripreso il cammino, venendo da un’altra strada, e andando per la prosecuzione di questa: anche lui, a suo modo, proseguendo diritto. Mi dispiace tanto non aver le conoscenze romanistiche necessarie per tentare solo di comprendere le ragioni scientifiche del loro distacco; tra l’altro, non so della produzione monografica di La Pira dopo il volume che gli valse la cattedra. Ma forse, La Pira solo di riflesso si è allontanato da Betti: in realtà, quel da cui si è distaccato, era l’Accademia, era il suo mondo, e tutto quello che il suo mondo rappresentava. E il risentimento di Betti verso La Pira, forse solo in parte derivava da divergenze scientifiche: forse, Betti, più o meno consapevolmente, sentiva che l’allievo… scantonava; per ragioni profondamente radicate anche nel tempo della sua formazione anteriore a quella giuridica, e verso pianeti e mondi che, addirittura, gli erano inconoscibili. A Betti interessava soprattutto il diritto; tanto da volerlo portare nella politica e perfino nella guerra: altrimenti non avrebbe scritto quegli articoli sul Corriere, dalle cui conseguenze, come la relatrice puntualmente ricorda, lo salvò solo la decisissima determinazione di Peppino Ferri, nel controllare gli uomini della brigata partigiana marchigiana che comandava. La Pira non li avrebbe mai scritti: perché erano soprattutto la Religione, e conseguentemente l’applicazione della dottrina sociale che ne conseguiva, quel che gli interessavano pressoché esclusivamente: quel che, semmai, voleva portare nel diritto. Nei limiti nei quali, dopo i primi anni quaranta, al diritto attribuisse ancora un valore in sé: come Deputato alla Costituente (dove, peraltro, il diritto lo faceva); come Sindaco di Firenze che requisiva fabbriche occupate dagli operai di imprese decotte, e perfino case ancora abitate da sfrattati per provvedimento giurisdizionale; che salvava il Pignone col l’aiuto finanziario del suo amico Enrico Mattei (a maggior profitto della General Electric, cui poi dopo vari anni fu venduta, o secondo alcuni svenduta).
Alberto Romano