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Il carteggio Betti – La Pira. Giuristi che si scrivono

di e - 4 Febbraio 2016
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Abbiamo il piacere di pubblicare due contributi: il primo è un’introduzione della Prof. Campolunghi al volume Il carteggio Betti-La Pira, a cura di G. Crifò, Firenze 2014; il secondo è un intervento del Prof. Alberto Romano stimolato dalla lettura della bozza di relazione che la Prof. Campolunghi ha presentato al convegno Omaggio a Giuliano Crifò (1934-2001) A proposito del Carteggio Betti – La Pira, tenutosi il 13 novembre 2015 nell’aula Magna dell’Università degli studi di Messina.  Giuristi che si scrivono a proposito di giuristi che si scrivono.

Il carteggio Betti-La Pira

Il carteggio Betti-La Pira, a cura di G. Crifò, Firenze 2014
Fondazione «Giorgio La Pira», I Libri della Badia-20
Edizioni Polistampa

Emilio Betti, il nome quantomeno, dovrebbe essere ancora noto ai giuristi italiani di oggi, anche se lavorano in un secolo successivo al suo e dalla sua morte sono passati quasi cinquant’anni.
Per aver insegnato e scritto di varie discipline – diritto civile e processuale civile, agrario, teoria della interpretazione, oltre ovviamente al diritto romano – più noto ai giuristi accademici. Ma anche ai giuristi forensi, che si trovano a dover maneggiare e fare i conti con la causa del contratto in contrapposizione ai motivi, su cui tuttora si dibatte: la «funzione economico-sociale» è lessicalmente sua.
Come cittadini, poi, in questi giuristi, se non altro gli ultrasessantenni, dovrebbe ancora suscitare una eco il nome di Giorgio La Pira, singolare personalità di politico nel Novecento: per le battaglie contro tutte le guerre (così l’impresa insieme assurda e coraggiosa in Vietnam nel pieno svolgimento del terribile conflitto); quale più famoso sindaco di Firenze dal secondo dopoguerra (Renzi a parte, penseranno ovviamente i renziani).
In via generale, tanti condizionali, così dubbiosi, sono di prudenza. La cosiddetta storia ormai ha vita breve, forse per velocissime trasformazioni che portano a mettere insieme in un indistinto “passato”, e lì dimenticare o trascurare, tutto ciò che non è l’oggi. Di fronte a un diffuso disinteresse, a sorprendenti ignoranze (nel mero senso di non sapere) in giovani o in adulti maturi, viene da pensare ai bambini per cui è difficoltosa la cognizione del tempo: una dimensione, si sa, non innata ma frutto di conquista (e infatti l’insegnamento della storia comincia solo in terza elementare) per cominciare a distinguere tra giovinezza del nonno e assirobabilonesi.
Nel caso specifico, tanti condizionali prendono atto di un dato concreto: la scarsa attenzione che la pubblicazione di un epistolario tra i due personaggi ha suscitato in un parterre di lettori abituali quali sono, o debbono essere per professione, i giuristi, e nonostante due presentazioni, a Firenze, a Messina.
Vite assai diverse, personalità opposte. Perché abbiano intrattenuto una corrispondenza, e tale da riempire un volume a stampa, può meravigliare chiunque sappia qualcosa di entrambi senza però conoscere il legame fra loro.
In senso stretto, potrebbe ridursi a legame accademico, ratione materiae: giurista è stato anche La Pira, ordinario di diritto romano. In sostanza, però, è un rapporto ben più coinvolgente, di maestro e allievo. Il giovane La Pira, ventenne, e il poco meno giovane professor Betti, trentaquattro anni, si incontrano nell’Università di Messina, ove Betti insegna per due anni e La Pira, trasferitosi in città, studia. Con Betti, La Pira si laurea e, sotto la sua guida costante tra apprezzamenti e reprimende, viene da questi avviato, quasi forzato, alla carriera universitaria, fino a ottenere la cattedra. In questo ultimo torno di tempo, o poco dopo, il rapporto si spezza. Dalle lettere, che lasciano trapelare una sofferta separazione, non se ne evince la ragione. Non è ingratitudine di un allievo che, una volta arrivato, si liberi del maestro; sembra piuttosto il maestro a non condividerne più le posizioni, a sentire persa la iniziale consonanza.
Betti ha cercato sino allora di tutelare l’allievo. Lo ha invitato a non indulgere a inclinazioni filosofiche: potrebbero distoglierlo dal diritto. Lo ha messo in guardia dal far circolare proprie idee prima di pubblicarle: nel timore di utilizzazioni altrui. Lo ha ammonito a diffidare di molti: senza esitare a far nomi, profittando della riservatezza epistolare. E quando dal primo concorso l’allievo esce sconfitto, è totalmente dalla sua parte, convinto della iniquità della decisione. Si sdegna altresì che la successiva vittoria non sia così ‘riparatrice’ come sarebbe stato giusto, se ne preoccupa ai fini della sede che lo chiami. Di qui l’incitamento affinché «si muova e metta in opere le sue amicizie»: occorre «neutralizzare gli intrighi altrui», «che certo non mancheranno». Il «mondo accademico italiano», «di farisei e di camorristi spregevoli», fa sì che «a collocarsi prima e meglio» sia non «chi attende silenzioso al compito quotidiano dello studio e dell’insegnamento» bensì «chi ha faccia tosta e gomiti forti». E perciò l’invito a non peccare di ingenuità: «apra tanto d’occhi». Egli è in ogni caso a disposizione: «di me profitti per quanto possa esserle utile». Ma con il traguardo della cattedra il suo compito deve essergli apparso concluso. La Pira è ormai pronto ad andare per la sua strada.
Una strada che si svolgerà secondo tutt’altre direttrici. Una ‘strada’ passata di moda, si direbbe: nonostante ci sia ancor oggi bisogno di sindaci pronti a battagliare per una migliore vita dei concittadini, di intellettuali che non si limitino a vagheggiare nobili idee, come la pace mondiale, ma si impegnino fattivamente al loro servizio. Insomma La Pira sembra quasi scomparso, non pare parlarsene più.

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