Il processo di Vienna per la Siria: quali prospettive?

L’intervento militare della Federazione Russa in Siria, lanciato il 30 settembre scorso, ha fatto molto discutere circa le sue ragioni. Ma una strategia, specialmente una buona strategia, raramente ha uno scopo unico.
Non c’è dubbio che la dirigenza russa, sotto la guida del presidente Putin, sia ansiosa di recuperare un ruolo mondiale analogo a quello dell’Unione Sovietica. D’altra parte, è anche vero che l’intervento in Siria mira a rafforzare la sicurezza interna della Russia (a fronte della presenza di un forte stuolo ceceno nei gruppi jihadisti che combattono fra Siria e Iraq); a onorare la vecchia alleanza con la Siria (un alleato chiave nella costellazione dei rapporti russi nella regione); a sostenere le vendite di armi e impianti nucleari ad alleati, amici e clienti (vendite di grande rilevanza per il bilancio dello stato russo); più in generale, a rafforzare il ruolo della Russia in Medio Oriente.
A fronte di questa molteplicità di fini generali, l’intervento militare russo in Siria è stato però effettuato – come ha sottolineato Vitalij Naumkin – per perseguire un obbiettivo politico immediato: imporre una nuova realtà sul terreno militare così da costringere le varie parti in presenza a riconsiderare le condizioni di una soluzione politica alla crisi. Infatti, già un mese dopo l’inizio dell’intervento militare, Mosca ha promosso una nuova iniziativa diplomatica di pace, che ha preso il nome di Processo di Vienna, affiancando alle iniziative militari un’iniziativa diplomatica di pace[1].
Commentare questa iniziativa e valutarne le prospettive è lo scopo di questa nota.

Il Processo di Vienna e il suo percorso
Su iniziativa russa, dopo una prima sessione il 30 ottobre, si è riunito il 14 novembre a Vienna sotto l’egida delle Nazioni Unite il neonato “International Syria Support Group”, ISSG, al quale partecipano i comprimari esterni della crisi, Arabia Saudita, Iran, Russia, Turchia e Stati Uniti, affiancati dalla Lega degli Stati Arabi, dall’Unione Europea e da un gruppo di paesi più o meno coinvolti che comprende Cina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, Giordania, Iraq, Italia, Libano, Oman, Qatar e Regno Unito.
Il percorso diplomatico delineato dall’ISSG riprende alcuni aspetti della transizione ad un nuovo assetto politico consensuale a suo tempo indicati nel Comunicato della conferenza di “Ginevra 1” (30 giugno 2012). Riprende anche il tema della lotta al “terrorismo” affrontato nella conferenza di “Ginevra 2”. Non riprende, però, la questione che ha impedito alle “road maps” delle due conferenze precedenti di essere poste concretamente in atto e cioè il ruolo nella transizione di Bashar Assad, della sua cerchia e, quindi, del regime. La questione, anche se non dismessa, è stata accantonata. È questo un punto cruciale. Prima di ritornare sul suo significato e le sue implicazioni, occorre vedere  in dettaglio la “road map” e gli obbiettivi delineati dalla conferenza di Vienna e infine adottati il 18 dicembre 2015 dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nella risoluzione 2254[2].
Il percorso prevede tre fasi. La prima riguarda la costituzione delle parti destinate a negoziare, in particolare l’identificazione – da condividere da parte dell’ISSG e dell’ONU – dei gruppi di opposizione siriani che, considerati come “terroristi”, resteranno esclusi dal Processo. La riunione di Vienna del 14 novembre ha affidato l’istruttoria di tale identificazione alla Giordania con l’obbiettivo di chiuderla alla fine del 2015. In realtà, le riunioni che l’ISSG ha tenuto a New York al Lotte Palace Hotel, a lato e dopo la sessione del Consiglio di Sicurezza del 18 dicembre, non hanno messo capo a nessun accordo, onde l’intera gestione dei contatti, la costituzione delle parti e l’avvio del negoziato sono passati nelle mani dell’ONU – dell’ambasciatore Staffan de Mistura, inviato speciale per la Siria. Questi ha fissato l’inaugurazione del negoziato per il 25 gennaio 2016.
Se questa fase preliminare si concluderà positivamente, la fase successiva riunirà sotto la guida dell’ONU i rappresentanti nominati dal governo siriano e dai gruppi di opposizione (come prescelti in seno all’ISSG), che inizieranno i negoziati con l’obbiettivo di  mettere in moto “un processo a guida siriana che, entro sei mesi, dovrà mettere in piedi un sistema di governo realizzabile, inclusivo e non settario, nonché stabilire un calendario e un processo per la redazione di una nuova costituzione.” L’ISSG ha sottolineato che nel negoziato le opposizioni dovranno agire come un’unica delegazione; inoltre, le delegazioni dovranno impegnarsi affinché sia realizzata una Siria unita, indipendente, territorialmente integra e priva di caratteri settari, non vengano sbandate le strutture dello stato siriano (l’amministrazione, le forze armate, etc.), e siano protetti i diritti di tutti i siriani indipendentemente dalla loro appartenenza etnica e religiosa.
Nella fase finale, entro 18 mesi, si dovrebbero tenere sotto la gestione dell’ONU libere e regolari elezioni secondo quanto stabilito nella costituzione che nel frattempo sarà stata redatta ed approvata.
Occorre aggiungere che le deliberazioni dell’ISSG mettono in rilievo la necessità che il processo politico-costituzionale si sviluppi nel quadro di un “cessate il fuoco” comprensivo (anche se dovesse risultare dalla sommatoria di diversi e non necessariamente simultanei “cessate il fuoco” locali). Per questo prevedono che, sin dal  gennaio 2016, sotto gli auspici dell’ONU, inizierebbero i passi necessari alla sua attuazione. Il “cessate il fuoco” non riguarderà le operazioni verso l’ISIS e i gruppi “terroristi” come definiti dalla lista “giordana”. I membri individuali dell’ISSG si sono impegnati a promuovere il “cessate il fuoco” presso quei gruppi su cui hanno influenza, una disposizione di estrema importanza nell’ambito di un conflitto che si è sviluppato essenzialmente come guerra di “proxies”. Alla fine della seconda fase, perciò, dovrebbe esserci un esecutivo condiviso nonché uno stato di “cessate il fuoco” generalizzato alle parti e al territorio da esse controllato.
Va infine ricordato che i membri dell’ISSG si sono impegnati, sin dall’inizio dell’intero Processo, ad attuare misure di fiducia – in particolare l’accesso umanitario secondo la Risoluzione UNSCR 2165 – a favorire il ritorno dei rifugiati e ad impedire l’impiego di armi di distruzione indiscriminata (come le “barrel bombs” del regime).

Difficoltà nel percorso avviato a Vienna
Potrà l’iniziativa di Mosca avviare effettivamente a soluzione la crisi siriana? La strategia della Russia è stata molto brillante nel superare lo stallo diplomatico e mettersi alla testa del Processo, ma le prospettive di successo appaiono piuttosto incerte. È su queste prospettive che intendiamo ora soffermarci.
Di primo acchito, appaiono fortemente divisive due questioni: (a) la selezione fra i gruppi dell’opposizione siriana in base al criterio del “terrorismo” e (b) il ruolo di Assad e della sua cerchia nell’ambito del Processo. Quest’ultima questione è quella più spinosa ed è la stessa che ha fatto naufragare tutti i tentativi precedenti.

La selezione dei gruppi – I membri dell’ISSG sono concordi nel considerare come organizzazioni a carattere terroristico l’ISIS[3] e Jabhat al-Nusra li-Ahl ash-Sham (Fronte di Supporto del Popolo della Siria; più una sua piccola frazione scissionista, Jund al-Aqsa – i Soldati di al-Aqsa) che com’è noto si collegano ad al-Qaida.

Per il resto, il governo di Assad e i paesi della regione che lo sostengono, cioè l’Iran, i suoi alleati sciiti del Libano e dell’Iraq e la Russia, considerano di stampo terrorista non solo queste due organizzazioni ma tutti i gruppi armati che contestano la legittimità del regime, senza distinzioni fra estremisti e moderati, religiosi e secolari. Secondo questo schieramento, perciò, in sostanza è terrorista chi si oppone al regime[4]. In questa prospettiva, l’aviazione russa colpisce tutti senza distinzioni, anzi – coerentemente alla sua strategia di cambiamento degli equilibri militari fra Damasco e le opposizioni – colpisce più queste ultime che l’ISIS.
Al contrario, i paesi arabi sunniti, la Turchia e quelli occidentali, mentre definiscono come organizzazioni terroristiche l’ISIS e Jabhat al-Nusra, non considerano tali la gran parte degli altri e mantengono un atteggiamento pragmatico.
La selezione dei gruppi di opposizione secondo il criterio del terrorismo è apparsa ben presto un vicolo cieco. Difficile oggettivare il terrorismo e, anche se lo fosse, non c’è ponte fra criteri oggettivi e criteri politici.
Nel tentativo di uscire dal prevedibile stallo, l’Arabia Saudita ha preso l’iniziativa di organizzare a Riyadh il 10 dicembre una conferenza dei gruppi di opposizione siriani, sia militari sia politici, con l’obbiettivo di formare la delegazione delle opposizioni prevista dalla Dichiarazione di Vienna sulla base dell’accettazione delle finalità da essa stabilite (una Siria integra, indipendente, non discriminatoria e democratica) piuttosto che della qualificazione in termini di terrorismo. Ha inteso con questo creare un fatto politico compiuto, aggirando l’identificazione dei terroristi.
La conferenza ha avuto risultati diseguali, comunque interessanti. Da un lato, ha messo in evidenza una larga accettazione fra i gruppi delle finalità indicate dall’ISSG e, quindi, un’inedita tendenza favorevole alla moderazione e alla coesione fra le opposizioni, quindi al successo del Processo. Detta coesione si è manifestata con la formazione di una rappresentanza unificata dei gruppi ai negoziati, destinata a parlare con una sola voce,  secondo quanto richiesto dall’ISSG. In effetti, i gruppi presenti a Riyadh hanno nominato una Commissione che ha designato (con qualche difficoltà) i delegati per i colloqui che inizieranno il 25 gennaio prossimo.
D’altro lato, però, la conferenza di Riyadh non ha incluso due importanti attori dell’opposizione: i curdi e Ahrar al-Sham al-Islamiyyah (Movimento Islamico dei Liberi Uomini di Siria) – un gruppo salafita radicale, importante quasi quanto Jabhat al-Nusra, che nel corso del 2015 ha dato segni di moderazione. Ma Ahrar al-Sham alla conclusione della conferenza si è mostrato spaccato: il suo rappresentante a Riyadh ha firmato ma i suoi capi in Siria lo hanno smentito[5]. I curdi, d’altra parte, hanno subìto un veto a partecipare da parte della Turchia (che li considera dei terroristi per ragioni sue proprie, non aventi a che fare con la Siria). I curdi si sono riuniti quindi per conto loro a Rumeilan (nell’area curda del nord-est siriano) e forse non è loro dispiaciuto di mantenere un proprio profilo autonomo rispetto alle opposizioni siriane non curde. Va sottolineato che l’esclusione dei curdi non è accettata dai russi, che insistono per una loro partecipazione al negoziato se non come parte della delegazione solo “sunnita” promossa da Riyadh – che però non vuole una delegazione inclusiva – almeno come una terza delegazione. Va da sé che questa è un’ulteriore complicazione.
La conferenza di Riyadh ha perciò partorito un’opposizione più  moderata e coesa ma meno politicamente significativa di quanto i sauditi si attendevano e soprattutto di quanto fosse necessario a influenzare le regole del gioco. È un risultato, tuttavia, che nel prossimo futuro potrebbe rivelarsi importante e di cui Damasco, i russi e l’Iran potrebbero dover tener conto.
Come abbiamo già sottolineato, è certamente sbagliata – anche sul piano storico – l’idea di definire oggettivamente i terroristi onde escluderli dal negoziato. Fa più senso, il criterio – a parte ISIS e Jabhat al-Nusra – che i gruppi si autoeleggano sulla base di un’accettazione dei principi e delle finalità stabilite dalla Dichiarazione di Vienna e dalla Risoluzione 2254 e diano poi prova di rispettarli accettando il “cessate il fuoco” e negoziando in buona fede nel quadro del Processo. Questo è quello che in fondo ha suggerito Riyadh ed è quanto è stato poi più esplicitamente proposto, nell’ambito dei successivi colloqui dell’ISSG, da alcuni membri come USA e Gran Bretagna. Ma né i risultati di Riyadh né i suggerimenti intervenuti nell’ambito dei colloqui dell’ISSG  sono stati accettati da Damasco e dai suoi alleati.
Perciò, come già detto, la questione è rifluita, irrisolta, nelle mani di de Mistura. In questo quadro, respinta l’iniziativa saudita e falliti i colloqui al Lotte Palace Hotel, al principio del 2016 l’ambasciatore ha accennato all’eventualità che i negoziati debbano iniziare nella forma di “proximity talks”, con lui in mezzo a due delegazioni che non si riconoscono e non parlano direttamente tra di loro, il che non sarebbe certo un inizio confortante. Le notizie più aggiornate all’avvinarsi del 25 gennaio dicono che l’inaugurazione del negoziato è assai probabilmente destinata a slittare.
In conclusione, mentre è chiaro che i negoziati iniziano senza aver sciolto il nodo dei “terroristi”, che cosa pensare della delegazione delle opposizioni che si è formata nella prima fase? Nello schieramento avverso a Damasco si sottolinea con favore la coesione raggiunta dalle opposizioni a Riyadh e la si valuta come la premessa necessaria a coagulare sotto una leadership, anch’essa più coesa, la maggioranza dei combattenti sul terreno. Si deve però notare che il sostegno a una delegazione sunnita invece che nazionale – esclusiva cioè dei curdi – non facilita le cose oggi e presenta un quadro frammentato e instabile per la Siria nuova che si vuole edificare.
Dall’altra parte, l’idea di Damasco, Teheran e Mosca che una delegazione composta da gruppi insignificanti o dalle così dette opposizioni “sane” e “patriottiche” sia un fattore favorevole al regime non ha molto senso, poiché, se così dovesse essere, l’opposizione non sarebbe un interlocutore credibile della trattativa e i problemi insurrezionali nel paese non sarebbero superati. Inoltre, una delegazione debole e non sufficientemente rappresentativa non potrebbe portare a un significativo “cessate il fuoco” sul terreno e, in tal caso, alcun negoziato sarebbe destinato a svolgersi e, tanto meno, ad avere successo.
Nell’insieme, persiste fra le parti un dissenso di fondo in merito alla legittimità del regime e una dura contrapposizione fra gli interessi delle potenze esterne che vogliono mantenerlo in vita e quelle invece che vogliono estrometterlo. Tale dissenso è una mina pronta a saltare e pregiudicare l’intero Processo. Se questa è la natura del dissenso, è allora evidente che il nocciolo duro della crisi è il ruolo di Assad, del quale è ora necessario parlare.

Il ruolo di Assad nel Processo – Gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno sin dall’inizio della crisi sostenuto che Assad e il suo regime dovevano farsi da parte lasciando le opposizioni accordarsi per governare. La Russia e l’Iran, anche se con motivi diversi l’una dall’altro, hanno invece come obbiettivo la permanenza del regime e di Assad al potere e l’eliminazione di ogni opposizione.

Questa contrapposizione ha fatto fallire tutti i precedenti tentativi diplomatici di soluzione della crisi. Se il Processo di Vienna è potuto partire, è stato solo grazie all’accettazione da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati arabi ed europei di accantonare, temporaneamente, la questione del ruolo di Assad e del regime. USA e alleati hanno acconsentito a questo per permettere al negoziato di essere avviato con successo e di creare in tal modo le condizioni perché la questione possa essere riconsiderata con maggiori possibilità di essere risolta. A ben vedere, però, non è affatto detto che il meccanismo messo in atto dalla Dichiarazione di Vienna e poi sancito dalla Risoluzione 2254 sia destinato a funzionare in questo senso. Inoltre, una neppur troppo analitica considerazione della volontà delle parti e dei loro obbiettivi, porta a concludere che sia da una parte che dall’altra l’accantonamento è strumentale: una parte continua ad aspettarsi come risultato finale il cambiamento o almeno la rettifica del regime, l’altra la sua sussistenza e il suo rafforzamento.
Il comunicato di “Ginevra 1” menzionava una transizione guidata da “un’autorità esecutiva” dotata di “pieni poteri” dalla quale già in partenza il regime e Assad fossero esclusi. Accantonata la questione Assad, la Dichiarazione di Vienna ha invece instaurato un “processo” che, nella sua seconda fase, ha il compito di trovare un accordo a governare e quindi procedere alla designazione di un qualche esecutivo, il quale infine, nella terza fase, ha l’obbiettivo di organizzare la redazione di una nuova costituzione e poi delle elezioni.
Nella visione degli USA questo processo ha due possibili sbocchi: (a) un accantonamento definitivo di Assad e del regime; (b) un accantonamento graduale di Assad nel quadro di un accordo nazionale nel cui ambito potrebbero essere recuperati alcuni segmenti del regime. Occorre aggiungere, che arabi e Turchia condividono il primo sbocco e non il secondo, mentre gli europei sono in linea con Washington anche sul secondo.
Nella visione di Damasco e dei suoi alleati invece il processo è destinato a preservare un ruolo più o meno pieno di Assad in modo che il regime di fatto guidi la transizione, proceda al alcune riforme per rafforzarsi, e porti il paese a rieleggere Assad in persona o un adeguato sostituto proveniente dalla sua cerchia o dal regime.
Alla luce del meccanismo di Vienna – le sue dichiarazioni e risoluzioni – la strada è più aperta a realizzare gli obbiettivi di Damasco che non quelli degli avversari. Infatti nel meccanismo l’accento cade sulle elezioni,  mentre l’autorità esecutiva non è menzionata né delineata: è ovvio che la fase due dovrà mettere capo a un esecutivo, ma i documenti non indicano l’essenzialità di un cambiamento di regime a questo scopo. Dicono in sostanza che il compito centrale dell’esecutivo in essere sarà quello di preparare le elezioni e non escludono che l’esecutivo resti più o meno quello attuale. Le dichiarazioni dei governi di Mosca e Teheran sono sempre molto ferme nel sostenere che per risolvere la crisi occorre che il nuovo governo sia  eletto dai siriani nelle urne e non dalle potenze esterne a Vienna. Se il processo si orienta alla preparazione delle elezioni con un governo Assad o fortemente influenzato da Assad, è evidente che la sua rielezione o quella di un suo emissario è assicurata.
Se si approfondisce l’analisi, si vede, come abbiamo già accennato, che i due campi al loro interno non sono omogenei. Sia la Russia sia l’Iran hanno un interesse strategico alla stabilità di Assad e del suo regime (e di questa stabilità sembrano reputare Assad stesso un cardine pressoché insostituibile); tuttavia, mentre la Russia può in principio fare a meno di Assad purché restino le condizioni di continuità del regime e del suo rapporto di speciale alleanza con la Siria, la stabilità del regime di Damasco per Teheran è un costitutivo essenziale dell’asse sciita e del suo progetto di affermazione e influenza nell’intera regione, un interesse strategico dunque meno flessibile di quello russo e certamente ben più risalente. In molte occasioni è risultato chiaro che per l’Iran il punto è Assad, quale estremo garante della loro alleanza e del suo posizionamento regionale, mentre per la Russia potrebbe essere il regime. Infine, occorre anche considerare che Teheran ha motivazioni settarie anti-sunnite e religioso-ideologiche che Mosca è ben lungi dal condividere.
Dall’altra parte, le opposizioni siriane, l’Arabia Saudita, la Turchia e il Qatar fanno dell’allontanamento di Assad e della messa al margine del regime una condizione pregiudiziale al negoziato. Essi, come suggeriscono i risultati della conferenza di Riyadh, non mancheranno di partecipare al negoziato della fase due, ma solo assicurarsi da vicino che la sua conclusione sia un governo al quale Assad e il suo regime siano del tutto estranei (il che annuncia problemi.
Gli Stati Uniti hanno sin dall’inizio della crisi adottato una retorica di brusca estromissione pregiudiziale di Assad e del regime, ma senza perseguire direttamente e concretamente questo obbiettivo. Sin da “Ginevra 1” è stato chiaro che gli Stati Uniti sono disponibili a una qualche flessibilità sull’uscita di Assad dalla scena. Con il Processo di Vienna questa flessibilità appare aumentata. Ma al tempo stesso non sembra che gli USA abbiano definito un obbiettivo preciso: opportunisticamente aspettano che gli eventi procedano, riservandosi di decidere qual compromesso sarà accettabile nelle circostanze che prevarranno.
Se si considera l’insieme di queste posizioni è evidente che c’è fra Russia e USA una possibilità d’intesa che manca invece nei loro alleati regionali e nelle parti siriane. Ammesso che i due paesi trovino un compromesso vicendevolmente conveniente su un’uscita personale di Assad accompagnata dal mantenimento di elementi significativi del regime, avranno la forza di imporlo ai rispettivi alleati? Della guerra fredda è resuscitata negli ultimi anni la competizione fra Russia e Stati Uniti, ma nessuno dei due è abbastanza forte da dettare soluzioni agli alleati come allora. L’abbattimento di un bombardiere russo da parte della contraerea turca e l’esecuzione di un imam sciita, al-Nimri, da parte dell’Arabia Saudita senza troppe preoccupazioni per le ripercussioni sugli alleati e con una forte intenzione, invece, di affermare come che sia i propri interessi nazionali, dinastici e di regime suggeriscono che il contesto è diverso da quello del Terzo Mondo al tempo della guerra fredda.
Perciò, un compromesso sul ruolo di Assad e la legittimità del suo regime potrebbe forse emergere nelle relazioni fra Russia e USA, ma appare difficile che le parti principali, nell’uno e nell’altro schieramento, siano disposte a recepirlo e altrettanto difficile che i due riescano ad imporlo ai rispettivi alleati. Stando così le cose, è anche possibile che le due grandi potenze esterne, messe dinnanzi a un’opposizione intransigente da parte dei loro alleati, preferiscano rinunciare alla loro possibile convergenza e allo stesso Processo di Vienna onde non mettere a rischio le rispettive influenze ed alleanze nella regione.

Conclusioni: contesto e strategie
La risposta alla nostra domanda – riuscirà la Russia a portare al successo il Processo di Vienna? – è dunque assai incerta: ci sono notevoli difficoltà in seno al Processo come tale. Inoltre, si debbono considerare due fattori che non lo favoriscono: il contesto strategico generale, al cui interno di muove il Processo di Vienna, e l’evoluzione dell’equilibrio militare sul terreno.

Per quanto riguarda il contesto strategico generale, si deve osservare che fra i due schieramenti c’è un simmetria negli interessi e nelle minacce che però s’interrompe e si confonde non appena nell’equazione vengano inclusi gli Stati Uniti e gli europei.
Il regime di Damasco ha due alleati, la Russia e l’Iran, che hanno un interesse forte e genuino alla conservazione della Siria e individuano la minaccia innanzitutto nelle opposizioni radicali sunnite interne alla Siria. Queste ultime sono sostenute con un interesse ugualmente consistente da parte dei loro alleati regionali – essenzialmente l’Arabia Saudita, la Turchia e il Qatar. Questi alleati hanno nei confronti della Siria un interesse revisionista, in quanto desiderano rovesciare il regime e dare prominenza nel paese ai sunniti. Essi individuano la minaccia negli obbiettivi conservatori della parte avversa. Fin qui abbiamo perciò due schieramenti simmetrici e chiaramente contrapposti.
Dall’altra parte, gli Stati Uniti e i paesi europei, in quanto alleati degli arabi e della Turchia, sono della partita, ma la loro minaccia viene dall’ISIS piuttosto che dal regime di Damasco, dalla Russia o dall’Iran. Dunque l’alleanza fra occidente, arabi e Turchia non ha un solo nemico ma due nemici diversi. Questo le toglie grandemente efficacia. L’origine dell’ambiguità e della debolezza degli Stati Uniti e degli europei nel Processo di Vienna sta in questa loro asimmetria rispetto al conflitto e alle sue parti in presenza.
La conseguenza di questa asimmetria è che gli USA combattono militarmente l’ISIS con i bombardamenti, ma si fermano non appena si tratta di Damasco. Aiutano quei gruppi dell’opposizione siriana, come i curdi e altre frazioni minori che sono ostili ad Assad ma di fatto combattono l’ISIS. Sono estremamente selettivi e cauti nel sostegno ai gruppi siriani. Li aiutano militarmente solo nella misura in cui dirigono le loro forze contro l’ISIS. Lo stesso fanno i pochi paesi europei che hanno aderito alla coalizione anti-ISIS a guida statunitense, come l’Italia, il Regno Unito, la Francia. A conti fatti, l’interesse degli occidentali risulta molto più vivo verso l’Iraq, dove opera il grosso dell’ISIS, che non verso la Siria.
Ciò non favorisce i siriani nell’evoluzione dell’equilibrio militare nei confronti del regime e dei suoi alleati. Nel primo semestre del 2015, il regime siriano ha subìto gravi rovesci militari. L’intervento russo è stato deciso prima di tutto per evitare il collasso di Damasco. Abbiamo detto che l’obbiettivo immediato era di riequilibrare le forze in campo in modo da rilanciare l’iniziativa diplomatica con il Processo di Vienna. Nei primi tre mesi dell’intervento (l’ultimo trimestre del 2015) è stato infatti avviato il Processo, ma in verità l’appoggio aereo russo alle forze di terra di Damasco non ha cambiato significativamente l’equilibrio militare. Nel corso del gennaio ci sono stati invece successi militari importanti delle forze del regime, che da ultimo si sono posizionate per una eventuale controffensiva destinata alla riconquista della regione dell’Edlib , la regione che nei primi mesi del 2015 era stata  invece conquistata dai ribelli.
Cambierà l’equilibrio militare a favore di Damasco? Il limite di Damasco sta negli effettivi, che sono fortemente diminuiti e non trovano facilmente rimpiazzi (ci sono renitenze e diserzioni persino fra gli alawiti – il nocciolo delle forze di Assad). Tuttavia, se l’appoggio russo resterà costante e si prolungherà nel tempo si innesteranno facilmente dinamiche più favorevoli al regime e meno ai ribelli, sia a livello politico sia militare. La Russia sembra decisa a continuare nel suo appoggio. È stato calcolato negli USA che il costo nel medio termine è sopportabile malgrado le difficoltà economiche del paese.
Tuttavia, è difficile che Assad ottenga una vittoria vera e propria sui suoi numerosi e variegati avversari. È più probabile che non perda e che il conflitto si congeli. Alla base del Processo di Vienna sta un equilibrio militare statico. Se questo equilibrio dovesse restare tale – una situazione in cui nessuno vince e nessuno perde – il Processo non avrà molte speranze di successo. Il Processo di Vienna, quindi, potrebbe andare a infoltire lo scaffale delle occasioni di pace perdute, accanto ai colloqui di “Ginevra “1 e a quelli di “Ginevra 2”.

Note

1.  L’iniziativa a breve del processo di Vienna resta tuttavia coerente con la molteplicità di fini a più lungo termine. In primo luogo, bilanciando l’intervento militare con una forte iniziativa diplomatica, la Russia evita di marcare il suo profilo di parte e si presenta come una potenza globale pronta ad esercitare nella regione un ruolo egemone simile a quello che hanno tradizionalmente giocato gli Stati Uniti, in particolare a partire da Kissinger (Vitalij V. Naumkin, direttore dell’Istituto di Studi Orientali dell’Accademia Russia delle Scienze, è citato da Marc Champion, “Putin’s Endgame in Syria”, Bloomberg View, 22 ottobre 2015, in http://www.bloombergview.com/articles/2015-10-22/putin-s-endgame-in-syria). In secondo luogo, va osservato che, offrendo una possibilità di soluzione alla crisi, l’iniziativa russa in Siria promuove un avvicinamento con gli stati europei. Questi, sempre più seriamente colpiti in termini di rifugiati e terrorismo – e mentre il loro maggior alleato americano mantiene un atteggiamento di distacco dalla crisi in Siria – hanno particolare interesse e urgenza affinché la crisi sia posta sui binari di una qualche soluzione. Un successo della Russia in Siria potrebbe avvicinare gli europei a Mosca e portare ad un ammorbidimento delle sanzioni ucraine se non alla ripresa di fruttuose relazioni.

2.  Il percorso delineato dalla conferenza di Vienna è descritto in una sorta di verbale che si può leggere in http://eeas.europa.eu/statements-eeas/2015/151114_03_en.htm: “Statement of the International Syria Support Group”. Il documento riprende la “Final Declaration on the results of the Syria Talks in Vienna as agreed by participants” (http://eeas.europa.eu/statements-eeas/2015/151030_06.hym) e il documento , presentato dal governo russo ma non pubblicato, i cui contenuti essenziali sono stati resi noti dalla Reuters (http://www.reuters.com/article/2015/11/10/us-mideast-crisis-syria-draft-idUSKCN0SZ2F720151110#wSKY5bhg55DQs1ZD.99).

3.  L’ISIS (Stato Islamico della Siria – o “Sham”) o ISIL (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) si è successivamente autodenominato tout court “Stato Islamico”. È prevalentemente indicato come ISIS oppure con l’acronimo in arabo “Da’esh”.

4.  Assad – e in buona parte anche Mosca – fanno riferimento ad un’opposizione “sana” o “patriottica”. Di questa opposizione sono senza dubbio parte i piccoli partiti e gruppi riuniti nel Comitato di Coordinamento Nazionale, da sempre critici del regime baathista ma convinti della sua fondamentale legittimità e quindi tollerati dal regime. Potrebbero finire per farne parte anche i curdi siriani che hanno sin qui mantenuto sul piano politico una posizione autonoma dalle opposizioni siriane.

5.  Sull’evoluzione di Ahrar al-Sham si veda Sam Heller, “Ahrar al-Sham’s Revisionist Jihadism”, War on the Rocks, September 30, 2015, http://warontherocks.com/2015/09/ahrar-al-shams-revisionist-jihadism/; alla prova dei fatti però è emerso che c’è una tendenza moderata all’interno dell’organizzazione ma non una sua evoluzione moderata.