Imposta come home page     Aggiungi ai preferiti

 

Il processo di Vienna per la Siria: quali prospettive?

di - 19 Gennaio 2016
      Stampa Stampa      

Questa contrapposizione ha fatto fallire tutti i precedenti tentativi diplomatici di soluzione della crisi. Se il Processo di Vienna è potuto partire, è stato solo grazie all’accettazione da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati arabi ed europei di accantonare, temporaneamente, la questione del ruolo di Assad e del regime. USA e alleati hanno acconsentito a questo per permettere al negoziato di essere avviato con successo e di creare in tal modo le condizioni perché la questione possa essere riconsiderata con maggiori possibilità di essere risolta. A ben vedere, però, non è affatto detto che il meccanismo messo in atto dalla Dichiarazione di Vienna e poi sancito dalla Risoluzione 2254 sia destinato a funzionare in questo senso. Inoltre, una neppur troppo analitica considerazione della volontà delle parti e dei loro obbiettivi, porta a concludere che sia da una parte che dall’altra l’accantonamento è strumentale: una parte continua ad aspettarsi come risultato finale il cambiamento o almeno la rettifica del regime, l’altra la sua sussistenza e il suo rafforzamento.
Il comunicato di “Ginevra 1” menzionava una transizione guidata da “un’autorità esecutiva” dotata di “pieni poteri” dalla quale già in partenza il regime e Assad fossero esclusi. Accantonata la questione Assad, la Dichiarazione di Vienna ha invece instaurato un “processo” che, nella sua seconda fase, ha il compito di trovare un accordo a governare e quindi procedere alla designazione di un qualche esecutivo, il quale infine, nella terza fase, ha l’obbiettivo di organizzare la redazione di una nuova costituzione e poi delle elezioni.
Nella visione degli USA questo processo ha due possibili sbocchi: (a) un accantonamento definitivo di Assad e del regime; (b) un accantonamento graduale di Assad nel quadro di un accordo nazionale nel cui ambito potrebbero essere recuperati alcuni segmenti del regime. Occorre aggiungere, che arabi e Turchia condividono il primo sbocco e non il secondo, mentre gli europei sono in linea con Washington anche sul secondo.
Nella visione di Damasco e dei suoi alleati invece il processo è destinato a preservare un ruolo più o meno pieno di Assad in modo che il regime di fatto guidi la transizione, proceda al alcune riforme per rafforzarsi, e porti il paese a rieleggere Assad in persona o un adeguato sostituto proveniente dalla sua cerchia o dal regime.
Alla luce del meccanismo di Vienna – le sue dichiarazioni e risoluzioni – la strada è più aperta a realizzare gli obbiettivi di Damasco che non quelli degli avversari. Infatti nel meccanismo l’accento cade sulle elezioni,  mentre l’autorità esecutiva non è menzionata né delineata: è ovvio che la fase due dovrà mettere capo a un esecutivo, ma i documenti non indicano l’essenzialità di un cambiamento di regime a questo scopo. Dicono in sostanza che il compito centrale dell’esecutivo in essere sarà quello di preparare le elezioni e non escludono che l’esecutivo resti più o meno quello attuale. Le dichiarazioni dei governi di Mosca e Teheran sono sempre molto ferme nel sostenere che per risolvere la crisi occorre che il nuovo governo sia  eletto dai siriani nelle urne e non dalle potenze esterne a Vienna. Se il processo si orienta alla preparazione delle elezioni con un governo Assad o fortemente influenzato da Assad, è evidente che la sua rielezione o quella di un suo emissario è assicurata.
Se si approfondisce l’analisi, si vede, come abbiamo già accennato, che i due campi al loro interno non sono omogenei. Sia la Russia sia l’Iran hanno un interesse strategico alla stabilità di Assad e del suo regime (e di questa stabilità sembrano reputare Assad stesso un cardine pressoché insostituibile); tuttavia, mentre la Russia può in principio fare a meno di Assad purché restino le condizioni di continuità del regime e del suo rapporto di speciale alleanza con la Siria, la stabilità del regime di Damasco per Teheran è un costitutivo essenziale dell’asse sciita e del suo progetto di affermazione e influenza nell’intera regione, un interesse strategico dunque meno flessibile di quello russo e certamente ben più risalente. In molte occasioni è risultato chiaro che per l’Iran il punto è Assad, quale estremo garante della loro alleanza e del suo posizionamento regionale, mentre per la Russia potrebbe essere il regime. Infine, occorre anche considerare che Teheran ha motivazioni settarie anti-sunnite e religioso-ideologiche che Mosca è ben lungi dal condividere.
Dall’altra parte, le opposizioni siriane, l’Arabia Saudita, la Turchia e il Qatar fanno dell’allontanamento di Assad e della messa al margine del regime una condizione pregiudiziale al negoziato. Essi, come suggeriscono i risultati della conferenza di Riyadh, non mancheranno di partecipare al negoziato della fase due, ma solo assicurarsi da vicino che la sua conclusione sia un governo al quale Assad e il suo regime siano del tutto estranei (il che annuncia problemi.
Gli Stati Uniti hanno sin dall’inizio della crisi adottato una retorica di brusca estromissione pregiudiziale di Assad e del regime, ma senza perseguire direttamente e concretamente questo obbiettivo. Sin da “Ginevra 1” è stato chiaro che gli Stati Uniti sono disponibili a una qualche flessibilità sull’uscita di Assad dalla scena. Con il Processo di Vienna questa flessibilità appare aumentata. Ma al tempo stesso non sembra che gli USA abbiano definito un obbiettivo preciso: opportunisticamente aspettano che gli eventi procedano, riservandosi di decidere qual compromesso sarà accettabile nelle circostanze che prevarranno.
Se si considera l’insieme di queste posizioni è evidente che c’è fra Russia e USA una possibilità d’intesa che manca invece nei loro alleati regionali e nelle parti siriane. Ammesso che i due paesi trovino un compromesso vicendevolmente conveniente su un’uscita personale di Assad accompagnata dal mantenimento di elementi significativi del regime, avranno la forza di imporlo ai rispettivi alleati? Della guerra fredda è resuscitata negli ultimi anni la competizione fra Russia e Stati Uniti, ma nessuno dei due è abbastanza forte da dettare soluzioni agli alleati come allora. L’abbattimento di un bombardiere russo da parte della contraerea turca e l’esecuzione di un imam sciita, al-Nimri, da parte dell’Arabia Saudita senza troppe preoccupazioni per le ripercussioni sugli alleati e con una forte intenzione, invece, di affermare come che sia i propri interessi nazionali, dinastici e di regime suggeriscono che il contesto è diverso da quello del Terzo Mondo al tempo della guerra fredda.
Perciò, un compromesso sul ruolo di Assad e la legittimità del suo regime potrebbe forse emergere nelle relazioni fra Russia e USA, ma appare difficile che le parti principali, nell’uno e nell’altro schieramento, siano disposte a recepirlo e altrettanto difficile che i due riescano ad imporlo ai rispettivi alleati. Stando così le cose, è anche possibile che le due grandi potenze esterne, messe dinnanzi a un’opposizione intransigente da parte dei loro alleati, preferiscano rinunciare alla loro possibile convergenza e allo stesso Processo di Vienna onde non mettere a rischio le rispettive influenze ed alleanze nella regione.

Conclusioni: contesto e strategie
La risposta alla nostra domanda – riuscirà la Russia a portare al successo il Processo di Vienna? – è dunque assai incerta: ci sono notevoli difficoltà in seno al Processo come tale. Inoltre, si debbono considerare due fattori che non lo favoriscono: il contesto strategico generale, al cui interno di muove il Processo di Vienna, e l’evoluzione dell’equilibrio militare sul terreno.

Pagine: 1 2 3 4


RICERCA

RICERCA AVANZATA


ApertaContrada.it Via Arenula, 29 – 00186 Roma – Tel: + 39 06 6990561 - Fax: +39 06 699191011 – Direttore Responsabile Filippo Satta - informativa privacy