La corruzione, male sociale, e la sua prevenzione

La prevenzione della corruzione mira a tenere lontano il male, evitarlo, affamarlo in qualunque modo utile[1].

Per affrontare questo tema è necessario porsi una domanda preliminare: che cosa è la corruzione, nelle sue radici profonde? Siamo tutti d’accordo che possa essere ed oggi sia considerata reato. Ma che cosa è nel quadro generale della società? In altri termini, il fatto che, violando elementari doveri di ufficio – lealtà, parità di trattamento e simili – un pubblico dipendente si faccia abitualmente dare danaro o altri “valori” per favorire qualcuno, è solo un reato, o qualche cosa di più? Qualche cosa insomma alla quale non è facile sfuggire, perché quasi trascende la violazione dei doveri di ufficio, collocandosi nella logica di un sistema sociale?
Un tentativo di rispondere a questa domanda pregiudiziale richiede che anzitutto si individuino le componenti originali del fenomeno. In gioco non sono solo il corrotto ed il corruttore, l’uno che presta un servizio extra ordinem e l’altro che lo paga. Se ci fossero questi due soggetti soltanto, in linea di massima non ci sarebbe nulla di improprio: regalo, cortesia ricambiata, e simili. La corruzione insorge quando coloro che concorrono in questo tipo di vicenda sono molti; sono cioè tutti coloro ai quali il fenomeno economico “vendita di un servizio extra ordinem” non sfugge, che la accettano e la cercano – o dicono di subirne la richiesta – per le più varie ragioni. Le più rilevanti delle quali sono da un lato la loro disponibilità ad essere protagonisti di vicende analoghe per trarne di nuovo vantaggio, dall’altro, l’accettazione dei comportamenti legati alla corruzione come componenti fisiologiche della vita. In altri termini: chi è senza peccato getti la prima pietra; partecipare alla corruzione è intrinsecamente un’attività professionale.
In parole più chiare, la corruzione non può essere considerata solo un modello di reato che si cerca di prevenire o reprimere, puntualizzando ed estendendo la fattispecie criminosa. Non basta cercare di meglio individuare e colpire i rei. La corruzione è certamente tutto ciò che ne dice il codice penale, appunto per punire corruttori e corrotti. Ma se la si vuole cogliere nella sua essenza – fenomeno criminoso collettivo – non si può dire altro, se non che essa è una malattia sociale, a carattere epidemico, che viene, se non accettata, certo serenamente subita, nella tacita convinzione che potrà sempre servire. C’è una prova sicura di questo: se i comportamenti che richiede e gli effetti che produce non fossero tacitamente ammessi, fino ad essere altrettanto tacitamente condivisi, corrotti e corruttori sarebbero espulsi dal contesto sociale e trattati per quello che sono ed in effetti meritano. C’è poco da dire: se corruttori e corrotti non si trovassero ovunque – e non trovassero quindi consenso sociale – sarebbero pochi, disprezzati. Appunto, espulsi dal contesto sociale [2].
Non si può dunque non prendere atto del fatto che il fenomeno corruzione è così vasto e condiviso per una ragione molto forte: coloro che partecipano al banchetto sono tanti o, più esattamente, sono tanti coloro che frequentano questo mercato. Alla fine, disturbano poche persone, come dimostra il fatto che la corruzione continua a dominare la scena, pur essendo oggetto di campagne di stampa, di immagini, notizie in cui si parla di corruttori e corrotti arrestati, dopo anni processati e condannati. C’è un solo soggetto, colpito e in qualche modo tradito: la pubblica amministrazione. [3]

2. Della corruzione in astratto non si può dunque parlare, trattandola alla stregua di un delitto qualsiasi, commesso da un certo numero di persone. Il non irrilevante, tacito consenso sociale intorno a comportamenti, addirittura sistemi di vita, pur qualificati dall’ordinamento come delitto, è un fenomeno non trascurabile. La reazione sociale alla corruzione è insomma paragonabile a quella che si ha ad es. verso il contrabbando, non verso lo sfruttamento dei bambini. Questo tacito consenso è un problema serissimo, perché la repressione penale non è ben condivisa e quindi ben sostenuta sul piano sociale. Prima di affrontare il problema di come misurarsi con la corruzione e come gestire i corrotti – e quindi prima di pensare ad un sistema di interventi che la ostacolino, minando il terreno di cui si pasce, – ci si deve dunque chiedere da dove nasca e perché, di che cosa si alimenti questa difficilissima specie di malattia sociale, ampiamente accettata e comunque ignorata. È ragionevole pensare che le risposte a questa domanda siano più di una.
Forse la prima spinta verso la corruzione è la frustrazione, l’insoddisfazione del dipendente. Se si tratta di aggiudicare un appalto, al cui procedimento più soggetti partecipano; di autorizzare qualche cosa, opera o iniziativa che sia, per la quale è pesante la mole di documenti, assensi, approvazioni, nulla-osta che occorre acquisire; il dipendente mediocremente retribuito, senza stimoli, senza nulla che gli dia l’orgoglio di lavorare in questa o quella amministrazione, non ha ragione per rifiutare qualche offerta, qualche promessa per un suo intervento. Può accadere anche il contrario: che qualcuno cerchi un sig. N nell’amministrazione, lo trovi e pattuisca un compenso per essere aiutato in una certa pratica del suo ufficio. Il quadro non muta. È l’evoluzione naturale del mercato.
Il punto cruciale su cui occorre fermare l’attenzione è che se questa situazione, schematicamente rappresentata, riguardasse solo il sig. N – se solo lui insomma si fosse venduto – sarebbe stato investito dal rifiuto dei suoi colleghi, compaesani, concittadini per il comportamento tenuto: immorale, falso, addirittura da traditore e simili. Invece si tace. Nulla cambia. Il silenzio dimostra che, sul piano sociale, la corruzione fa parte del mercato – e che come tale deve essere riconosciuta e studiata.
In effetti, di fronte a denaro fresco e abbondante, il passo verso la degenerazione è breve. N e i suoi simili pian piano evolvono la loro attività. Presto si manifesta la disponibilità a trovare e dare informazioni riservate, a coinvolgere qualcuno, a far optare per una scelta, un criterio, una valutazione piuttosto che un’altro. Si può ben dire insomma che si procede così verso un’amministrare pilotato e verso una societas publica che vive a due livelli, in due universi. Uno piatto, ricco di ignorato perbenismo e con pochi soldi, rare soddisfazioni e molte frustrazioni. L’altro, un universo più frizzante, in cui della morale si vive una versione elastica, ricca di varianti soggettive e di buone disponibilità economiche.

Si può dunque porre un punto fermo. L’habitat in cui si sviluppa la corruzione è un mondo professionale che non soddisfa chi vi opera. Non soddisfa per ragioni economiche, frustrazione, mancanza di orizzonti, scarso prestigio sociale. Bisogna avere il coraggio di dirlo: la disponibilità alla corruzione è una sorta di fuga dalla mediocrità. Essere incardinati in un ufficio, a qualunque livello, in cui il datore di lavoro non ha saputo rendere i suoi dipendenti orgogliosi di vivere e operare in un dato ambiente, amministrazione o impresa che sia, è semplicemente frustrante. La ricerca di denaro, in un modo o nell’altro, è una ricerca di fuga.

3. Se questo è lo scenario nel quale si radica la corruzione, occorre chiedersi con maggior precisione da che cosa nasca la necessità di un cittadino o di un’impresa di cercare aiuto e sostegno nei rapporti con la pubblica amministrazione: aiuto e sostegno ovviamente impropri, perché univocamente extraprocedimentali. La premessa di ordine generale sembra indubbia. Le nostre leggi sono complicatissime. Ormai da anni ed anni si assiste al fenomeno di leggi che limitano drasticamente la competenza delle amministrazioni, pretendendo di definire ex ante ciò che esse dovranno fare, con una crescente limitazione della discrezionalità. Questo certo rende la vita difficile per cittadini e imprese, perché troppo spesso bisogna cercare e trovare (o farsi trovare!) la fessura entro cui riuscire a collocare la propria richiesta; ma lo è altrettanto per le amministrazioni, i cui dipendenti troppo spesso incontrano serie difficoltà nell’applicare la legge alla realtà, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Tutti i governi degli ultimi anni si sono impegnati per attuare una “semplificazione amministrativa”. Ormai ci sono volumi di legge che vorrebbero realizzarla.  Come è ben noto, questo problema è stato visto ed affrontato come problema di procedimenti amministrativi. Le soluzioni ipotizzate sono state molteplici. Per ricordare uno dei primi interventi dei tempi recenti [4], si è pensato di introdurre il principio che tutto ciò che non è esplicitamente soggetto ad autorizzazioni o nulla osta è consentito. Suona molto bene. La legge procede però, facendo salvi “i limiti, i programmi, i controlli necessari ad evitare possibili danni ….” posti dalla normativa ad hoc in ordine a undici  materie [5] di carattere generale. Queste materie si rinvengono ovunque, in qualsiasi attività; sono pressoché ubiquitarie, tali quindi da vanificare in larga, larghissima misura l’enunciazione di principio.

4. Oggi siamo di fronte ad un tentativo diverso per attuare la semplificazione. La legge delega n. 124 dell’agosto 2015 ha introdotto un approccio il cui sistema di riferimento non è più solo burocratico, quindi fondato sull’attività di persone con l’impiego di computer, ma fondamentalmente digitale, e quindi, parrebbe, con la possibilità di ottenere in tempi brevissimi – digitali o quasi – il responso della macchina in base alle “domande” rivoltele, cioè il risultato dell’elaborazione dei dati immessi.
L’idea è notevole, in linea con i tempi. Non ci si può però nascondere un problema. La caratteristica del mondo digitale è l’elevatissima velocità di elaborazione e trasmissione. L’elaborazione avviene, ovviamente, in base a codici digitali ad hoc. Questo va bene per grandi, grandissime quantità di dati.  A prescindere dalla velocità di elaborazione e dalla quantità di dati gestibili nell’unità di tempo, è pacifico che un buon computer può trovare in tempi brevissimi dati conservati in una memoria cui esso abbia accesso (si pensi ai big data e ai cloud). Finché si tratta di trovare o semplicemente usare dati, elaborandoli secondo un dato codice, la digitalizzazione è, oggi, il massimo che si possa pensare per ottenere in tempi estremamente brevi un risultato dall’elaborazione di una pluralità di dati grezzi.
Il problema è però che, trasferendo questo sistema dall’elaborazione di dati secondo codici alla gestione operativa, molto probabilmente si chiede agli strumenti informatici di dare prestazioni e risultati che esulano dalle loro capacità. La digitalizzazione va bene per molti fini: ricostruire la storia di qualcuno o qualche cosa mediante dati registrati in qualsiasi archivio digitale del mondo; procedere a comparazioni o proiezioni; in generale, per eseguire qualunque operazione lato sensu quantitativa, cioè gestibile all’interno di un sistema numerico. Ma quale è il software che possa scegliere tra opportuno e inopportuno? Migliore o peggiore? Più o meno bello? In termini banalissimi: come si possono quantificare (digitalizzare) i mille problemi, le mille esigenze che ogni giorno si presentano in una città, chiedendo l’intervento dell’amministrazione? Questi problemi ricadono certamente in settori – sicurezza, igiene, edilizia di ogni tipo etc. etc. – per  i quali sono possibili forme di digitalizzazione, ma vi ricadono soltanto. Ognuno ha una propria individualità.
Il fatto è che, per fortuna, la realtà umana e sociale  almeno per ora non è solo digitale. Una cosa è trovare nel mondo la persona con le caratteristiche fisiche e biologiche che consentono il trapianto di un rene espiantato a mille chilometri di distanza: qui tutto è digitalizzato, tranne – per ora – il trasporto del malato o del rene; tutt’altra cosa autorizzare un intervento edilizio in un immobile vincolato. E noi abbiamo un delirio di norme, di fatto, se non di diritto, dall’identico valore pratico – sono tutte prescrittive, tutte costringono ad ottenere dall’amministrazione qualche autorizzazione o altro atto simile  – con contenuti disparatissimi: a volte richiedono provvedimenti di ordine primario, per così dire; altre attengono alla tutela di valori genericamente indicati (beni culturali, ambiente, sicurezza, per citarne alcuni), in concreto a volte importantissimi ed a volte irrilevanti. Ad oggi qui non c’è ancora digitalizzazione possibile se non per porre sotto gli occhi la situazione dei luoghi. In sintesi: la tutela generale ed astratta dei beni culturali, dell’ambiente, della sicurezza, come oggi concepita e sancita dalle leggi, è puramente e semplicemente soffocante, per qualunque iniziativa. La digitalizzazione la lambisce appena. Questo esempio vale per molte materie, moltissimi casi, ovviamente per l’attualità. Nulla vieta che, nel volgere di qualche anno di studi e ricerche, il pensiero umano – l’incomprimibile pensiero umano – riesca a scoprire codificare digitalmente le misteriose equazioni che regolano valori intellettuali e morali, ad es. il bello, aprendo la porta ad una gestione digitale dei beni culturali.

5. Nulla si è detto fin qui della trasparenza. Il silenzio non è casuale. La trasparenza è un istituto difficilissimo, perché può avere – ovvero, le si possono attribuire – i significati e quindi gli effetti ed i valori più diversi. Noi abbiamo concepito la trasparenza sostanzialmente come possibilità di accesso a tutti i documenti, con l’obbligo per l’amministrazione di pubblicare gli atti giunti a compimento. In questi termini è quasi innocua: non investe l’azione, ma solo il suo risultato.

La Convenzione ONU del 2003, contro la corruzione, la concepiva come accesso a tutte le operazioni amministrative. Negli Stati Uniti è una rilevante componente politica della Presidenza. Basti dire che mentre Bush aveva fortemente limitato la trasparenza, Obama ne aveva fatto un cavallo di battaglia della sua campagna elettorale: giunto alla Casa Bianca, nel primo giorno di presidenza aveva reintrodotto una trasparenza diffusa e penetrante. Parlare di trasparenza è dunque essenzialmente un ragionare politico. Poiché inerisce strettamene all’agire amministrativo, sembra, e forse realmente è, impossibile trovare per essa un assetto stabile.
Non si deve dimenticare che, nei Paesi più abituati ad essa, esiste un vero problema tecnologico della trasparenza. Esso cammina sull’onda della digitalizzazione e della trasmissione dati. Si legge nella letteratura americana che, senza schermi di primissimo ordine, tutto ciò che è stato elaborato digitalmente può essere raggiunto [6]. È accaduto con il Congresso; addirittura con la Casa Bianca. In questo stato della tecnologia veramente nulla si può dire. Forse bisognerà proteggersi.

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6. Che cosa si deve trarre da tutto ciò? Certo, vale l’osservazione empirica che i cittadini non devono essere soffocati dalle amministrazioni, né più né meno come le amministrazioni non devono essere soffocate dai cittadini. Finché questo succederà, corruttori e corrotti si troveranno nel loro pascolo. Il sistema sacrosantamente vuole che corruttori e corrotti vengano esclusi dalla nostra vita, come ne vennero esclusi i fumatori, le case di tolleranza, e, in positivo, venne imposto l’uso delle cinture di sicurezza.
Ma, mi si permetta, il sistema vuole ottenere l’esclusione di corrotti e corruttori con strumenti inidonei: la ricerca del singolo corruttore, del singolo corrotto, con il micidiale onere della prova che grava sulla Guardia di Finanza, la lunghezza e la complessità delle istruttorie, la lentezza dei processi. Tutto ciò non è sufficiente per sradicare la corruzione per il semplice motivo, puramente quantitativo, che il rischio del corrotto e del corruttore per le loro attività è troppo basso. Non vale la pena rinunciare a floride entrate e a rapporti “privilegiati” con l’amministrazione, vista la bassa possibilità di essere intercettati.
È dunque giocoforza tornare alla prevenzione. Essa ha tre protagonisti attivi, due pubblici ed uno privato.
a) Pubblico è anzitutto il Governo. È indispensabile rendersi conto che nel nostro ordinamento ci sono migliaia di leggi che richiedono adempimenti inutili, di ogni genere. Gli 11 settori del d.l. n. 1 del 2012, che, enunciando un nuovo diritto al libero fare, contemporaneamente lo inibiscono, devono essere rivisitati con sciabole, coltelli e rastrelli [7]. Mi si perdoni il linguaggio: devono essere riportati a ragione il codice dei beni culturali, il codice dell’ambiente, il testo unico dell’edilizia, per citare i casi più macroscopici, e nell’idea del legislatore, più sistemici.
In altri termini: dalla massa di adempimenti prescritti dalle norme oggi in vigore bisogna estrarre quei pochi casi in cui il rispetto di certe regole deve essere assoluto e in qualche modo garantito alla collettività. Solo in questi rari casi gli adempimenti, in forma autorizzazioni preventive e di controlli successivi, devono necessariamente fare capo all’Amministrazione.
Intanto, dobbiamo sperare che il recepimento delle direttive del 2014 sugli appalti e le concessioni non segua l’esempio del codice dei contratti, del 2006, con cui vennero recepite le direttive del 2004.
b) Pubbliche sono poi tutte le amministrazioni. Bisogna avere il coraggio di dire che esse non hanno bisogno di “sapere tutto”. Devono ordinare la vita del Paese, delle città grandi e piccole, dei piccoli comuni, non catalogarne tutte le componenti. Possono ordinarne la vita osservando, ricevendo proposte e segnalazioni, formulando quindi poche regole semplici, che, su un piano razionale, quasi mai richiedono l’intervento delle amministrazioni in veste di autorità “armata”, anziché di regolatore, consigliere, guida, garante.

È inutile nascondersi dietro un dito, come si dice: tutto ciò è difficilissimo, perché si scontra con una tradizione secolare di autoritarismo e non di vera, responsabile libertà. Per paradossale che possa suonare, noi abbiamo difficoltà a distinguere la piccola iniziativa dalla grande, sottoponendo l’avvio di entrambe a controlli e autorizzazioni molto simili (basta pensare ai centri storici). Non ci bastano le regole, a garanzia di certi valori, dalla sicurezza alla tutela dei c.d. beni culturali, che cittadini e imprese devono osservare. La nostra storia vuole che una data amministrazione e spesso una pluralità di amministrazioni esprimano il loro giudizio in forma di autorizzazione, concessione, nulla osta su quasi qualsiasi iniziativa si voglia prendere.
Tutto ciò deve cessare. È un impegno burocratico di dimensioni inaudite. Tutto richiede mesi e mesi, se non anni, per ottenere lato sensu permessi. Far cessare questo spreco di energie, pubbliche e private, deve essere l’obiettivo primario di un riequilibrio dei rapporti amministrazione-cittadini, ovvero della semplificazione. A titolo di esempio, le dichiarazioni degli interessati devono essere sufficienti, a qualunque fine. Naturalmente, devono essere vere.
c) Privato, infine, protagonista attivo nella società e nella vita, è ovviamente il cittadino con le sue imprese e anche, non bisogna dimenticare, al servizio delle pubbliche amministrazioni. Qui è in gioco una posta enorme. Agli occhi delle amministrazioni cittadini e imprese sono sempre o quasi sempre sospetti di inadempimenti. Di ciò tutti si dolgono. Nonostante l’entità del problema, c’è pochissimo da dire. La chiave della convivenza civile è la lealtà. Se disonesti si è nella vita lato sensu privata, non c’è ragione perché “disonesta” – cioè diffidente, soffocante nei suoi comportamenti non debba essere la pubblica amministrazione che sembra spesso nutrire un sistematico sospetto nei confronti dei cittadini. Forse si dimentica che è fatta anch’essa di esseri umani, di cittadini italiani.
Lealtà, chiarezza, trasparenza. Questo è il grande sogno per una vera semplificazione.

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5. Si possono trarre alcune conclusioni. È ragionevole pensare che la lotta alla corruzione sia difficile, ma non impossibile. Due sono i punti su cui si deve operare. Il primo è ricostruire la dignità persa dei pubblici dipendenti. Bisogna ridare loro l’orgoglio di essere parte di un’amministrazione pubblica, non di un’impresa privata. È una questione di impegno del Governo, di buona volontà della dirigenza, di spirito di solidarietà.. Senza fare nomi, tutti sanno bene come questo sia stato fatto in alcune amministrazioni, con grande successo. Non si è mai sentito parlare di corruzione per queste amministrazioni.

Il secondo punto riguarda le regole. Tutto deve essere semplificato. Ma semplificare non significa contrarre, digitalizzare i procedimenti. Significa eliminare la necessità di migliaia di autorizzazioni, che sono nei fatti perfettamente inutili. Tanto per fare un esempio: la sicurezza. Basta che ci siano le regole per la sicurezza. Per farle rispettare non occorre un’autorizzazione o atto equivalente o una attestazione successiva di conformità. È sufficiente che si sappia, che tutti sappiano quali sono e che devono essere rispettate. Ci sono poi tanti modi per costringere alla sicurezza, diversi dall’autorizzazione.

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E, per finire, una parola di speranza. Viene da Umberto Veronesi. Si è letto nel Corriere della Sera del 29 ottobre 2015:
Non esiste solo la corruzione monetaria ma anche quella intellettuale, che è forse la più grave. Esprimere un’idea che non si condivide, solo per piegarsi ad un potere più forte ed ottenere in cambio favori, è una forma di corruzione con effetti socialmente disastrosi. Dobbiamo insegnare alle nuove generazioni l’indipendenza intellettuale. Una persona costruita autonomamente su un sistema di valori morali ed etici è il miglior antidoto contro ogni forma di corruzione”.

Note

1.  Testo dell’intervento distribuito in occasione del seminario Prevenzione della corruzione nella riforma della pubblica amministrazione e nella nuova disciplina dei contratti pubblici, organizzato da italiadecide, che si è svolto presso la Camera dei Deputati il 9 novembre 2015.

2.  C’è una conferma di questo. Il fumo e i fumatori. Per decine di anni tutti hanno fumato; chi non lo faceva era considerato un inferiore. Nel giro di pochi anni, grazie a fortissime campagne di informazione e ad altrettanto forti decisioni di reprimere il fumo in moltissimi Paesi, è maturata la convinzione che il fumo facesse male e si dovesse smettere di respirare tabacco.

3.  Questo naturalmente non significa che non esista la corruzione privata. Essa è tendenzialmente un fenomeno molto più grave, perché non ci sono le “scusanti”, proprie del pubblico, di cui si è fatto cenno. C’è solo l’intento di guadagnare a danno di qualcuno.

4.  D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, del Governo Monti.

5.  Art. 1, co. 2, “Le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all’accesso ed all’esercizio delle attività economiche sono in  ogni caso interpretate ed applicate  in  senso  tassativo,  restrittivo  e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di  interesse pubblico generale, alla stregua dei  principi  costituzionali  per  i quali l’iniziativa economica privata è libera secondo condizioni  di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti,  presenti e futuri, ed ammette  solo  i  limiti,  i  programmi  e  i  controlli necessari ad evitare possibili danni alla  salute,  all’ambiente,  al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza,  alla libertà, alla dignità umana e possibili  contrasti  con  l’utilità sociale, con l’or-dine pubblico, con il sistema tributario e  con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica”.

6.  Cfr. Adam CANDEUB, Transparency in the Administative State, Houston Law Review, 2013, p. 385. Il saggio di Candeub è una autentica miniera di informazioni. V. anche Jenifer SHKABATUR, Transparency with(out) Accountability: open state in the United States, Yale Law & Policy Review, 2012, p. 79 s. La letteratura è naturalmente vastissima.

7.  Un’operazione di questo genere è stata fatta da ultimo nel 2010 con la cancellazione di centinaia e centinaia di leggi ritenute completamente superate. Adesso si tratterebbe di cancellarle per motivi di merito!