La banca che ci manca. Le banche centrali, l’Europa, l’instabilità del capitalismo – Discussione sul libro di Pierluigi Ciocca (I parte)

Intervento di Pierluigi Ciocca

Dico solo due parole, dando per scontato che il libro sia stato scorso, non solo da coloro che interverranno a commentarlo. Ho scritto il libro, da un lato, a testimonianza di una sconfitta, dall’altro, per gettare nel mare la bottiglia con un messaggio positivo, non escludendo che si muova verso istituzioni-banca centrale “più utili”.
La storia del pensiero economico, del pensiero giuridico, dei fatti ci ha affidato fondamentalmente due modelli di banca centrale.
Uno è quello che “odio”, l’altro è quello che “amo”. Il primo è un modello nel quale alla Banca Centrale si dice: “Devi occuparti di una finalità esclusiva, quantomeno prevalente, e devi perseguirla tenendo comportamenti canonici, al limite predeterminati, quantomeno prevedibili da parte del mercato, affinché non lo si turbi”. È il modello Bundesbank, un tempo minoritario nel panorama del “central banking” internazionale.
Dall’altro lato – all’opposto, perché i due sono inconciliabili – vi è il modello che preferisco e che ho avuto l’opportunità di vivere nella Banca d’Italia. Alla banca centrale si affidano una pluralità di fini economico-sociali da perseguire, potenzialmente anche in conflitto tra loro, e una panoplia di strumenti, sia di mercato sia amministrativi. Si fa leva, quindi, non soltanto sull’indipendenza della istituzione – come è certamente il caso anche nell’altro modello – ma sulla discrezionalità, quantomeno tecnica, forse anche amministrativa, al limite del politico, che essa è chiamata a esercitare in una materia opinabile come quella monetaria e finanziaria.
Nella bottiglietta lanciata in mare si prende atto che la crisi del 2008 ha indotto a un ripensamento dello stile di “central banking“ che aveva prevalso a partire dagli anni 1970 e che si è imposto anche in Europa con il Sistema Europeo di Banche Centrali (lo stile Bundesbank). La crisi è stata molto grave, per la sua complessa eziologia e per le sue conseguenze. Ha posto le autorità di vigilanza e, segnatamente le banche centrali, di fronte a decisioni drammatiche, da assumere nel volgere di un tempo cronologico misurabile in ore, se non in minuti. Nel libro, registro i ripensamenti nella direzione della banca centrale a tutto tondo a cui soprattutto penso, ripensamenti che la crisi ha suscitato. Ma lo sbocco concreto, istituzionale di tali ripensamenti è stato sinora contraddittorio e parziale (il caso inglese, il caso europeo, il caso della Fed, sono descritti nel libro).
La questione della discrezionalità, dei suoi contenuti e dei suoi limiti, è cruciale. Non deve scadere nell’arbitrio, lungo un crinale sottile, almeno per me difficile da tracciare sotto il profilo giuridico. Faccio appello nel libro alle teorie economiche e alle analisi economiche anche empiriche di cui oggi disponiamo, ben più solide che in passato. Esse tracciano paradigmi di comportamento rispetto ai quali verificare (da parte dell’Esecutivo, del Parlamento, della Magistratura, dell’opinione pubblica) se della discrezionalità la banca centrale ha fatto uso, ovvero ha abusato.
La modesta (!!) proposta è che sul piano macroeconomico le banche centrali si occupino non soltanto di stabilità dei prezzi, ma anche di livello dell’attività produttiva, di occupazione e altre variabili, inestricabilmente connesse fra loro nel capitalismo moderno. Propongo che le Banche Centrali si occupino di supervisione bancaria e – perché no? – finanziaria. Infine – terza proposta, il tema più delicato – esse non possono ignorare il rapporto con la finanza pubblica. Devono avere la facoltà di finanziare lo Stato, purché solo illiquido, non insolvente. Cito una frase famosa del Governatore Carli di quarant’anni fa, quando egli dichiarò, più o meno: “Potevo non finanziare la spesa pubblica in quei difficili giorni? Se fossero mancati i denari, non sarebbero stati onorati gli impegni dello Stato. Non finanziare sarebbe stato atto sedizioso”.
Fu poi promulgata una legge che obbligava la Banca d’Italia a sospendere il finanziamento dello Stato, ricorrendo certe condizioni di difficoltà nelle pubbliche finanze. Ricordo un episodio. Nei primi anni 1980 il Governatore Ciampi dovette far scattare la legge. Sospese i pagamenti come la legge obbligava a fare. Vi fu una telefonata del Presidente della Camera, Leonilde Iotti: “Governatore, sono andata a ritirare lo stipendio allo sportello del Banco di Napoli di Montecitorio, ma non me lo hanno pagato”. Allora Ciampi, con la sua straordinaria forma, le spiegò i motivi. La Presidente Iotti, di rimando: “Ora che facciamo, Governatore?”. Risposta del Governatore: “Il Parlamento, assumendosene la responsabilità politica, obblighi la Banca con legge a finanziare una tantum lo Stato”.
Le tre proposte, insomma, chiamano in causa la discrezionalità, comunque definita, da meglio definire.
Supponiamo di essere stati presenti in una drammatica riunione, a metà settembre del 2008, a Washington. Una riunione a tre: il Ministro del Tesoro Paulson, ex banchiere, il presidente della Fed Bernanke, economista e storico dell’economia, e Timothy Geithner, allora presidente della Fed di New York, quella che tra le banche della Riserva Federale attua gli interventi nei mercati. Salvare Lehman o no? Alla fine si decide di “non salvare” Lehman. Crolla il mondo. Noi non c’eravamo in quella riunione, ma i tre protagonisti fecero riferimento esplicito alla dimensione giuridica del problema. Ho in mente in particolare Geithner, un decisore, un economista non accademico. La conclusione fu che la magistratura avrebbe probabilmente stigmatizzato un intervento di salvataggio per Lehman. La Section 13 (3) dello statuto della Fed non è chiara. Forse offriva gli estremi giuridici per salvarla, forse no. Quei tre signori alla fine decisero di non spingere all’estremo l’esercizio della loro discrezionalità… e fu la crisi.

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Intervento Prof. Massimo Luciani

Questo libro ha molti meriti. Colpiscono il giurista soprattutto alcuni passaggi, dai quali emerge l’attenzione continua alla dimensione istituzionale, alla dimensione del diritto, nella migliore tradizione della scienza economica. E’ significativo che questa dimensione istituzionale emerga anche quando si dà conto del pensiero di un grande economista classico come Ricardo, del quale si ricorda l’intervento sull’istituzione della Banca Centrale.

Trascrizione degli interventi al seminario sul libro di Pierluigi Ciocca “La Banca che ci manca. Le banche centrali, l’Europa, l’instabilità del capitalismo”, ApertaContrada 31 marzo 2015.

Significativo, ripeto, perché noi giuristi siamo abituati a considerare, tra gli economisti classici, soprattutto Adam Smith, che – in effetti – è colui che ha costruito i ponti più saldi tra il pensiero giuridico ed il pensiero economico.
Le questioni affrontate nel libro, poi, dovrebbero (dico “dovrebbero” perché, purtroppo, in questi anni, la mia disciplina ha sovente mostrato di tendere a ridursi all’esegesi della giurisprudenza costituzionale) interessare molto i costituzionalisti. Quando essi pensano alla sovranità, infatti, non possono farlo senza riandare ai Six livres de la République di Jean Bodin, ma se lo fanno non possono non ricordare che per Bodin fra i tratti caratteristici della sovranità era il potere di battere moneta. La rinuncia a questo potere, pertanto, ci mette in sospetto, perché d’improvviso svanisce quella che era stata una caratteristica tipica della sovranità dal Cinquecento ai nostri giorni ed è fatale pensare che se si tocca questo snodo senza adeguati aggiustamenti istituzionali di sistema, probabilmente, le cose sono destinate a non funzionare del tutto bene.
Questo dubbio, che alcuni di noi nutrivano già – ormai – più di vent’anni fa, credo si sia confermato: di aggiustamenti istituzionali ce ne sono stati, indubbiamente, ma ben altri se ne sarebbero dovuti concepire per far fronte ad una trasformazione di questa portata.
In particolare, per quanto mi riguarda, la cosa che colpisce di più è questa (la metto in forma di domanda): “come possono convivere moneta unica e debiti plurimi?”. Ecco, questo è un nodo a sciogliere il quale, francamente, non basta tutto il (come dire) faticoso affannarsi delle istituzioni eurounitarie (uso questo termine che ai colleghi internazionalisti non piace molto, ma ormai tra i costituzionalisti prevale): se abbiamo un quadro di riferimento generale nel quale il cuore stesso della sovranità è stato colpito, occorrono passi all’altezza della sfida che è stata lanciata. Ritengo, infatti, che se si tocca la sovranità, ma non si incide in modo significativo sulla forma di governo, i problemi siano inevitabili. Né basta imporre torsioni anche radicali ad istituti che non erano stati concepiti per gli scopi cui oggi li si destina.
Quel che manca nell’architettura istituzionale europea è certamente una banca centrale che sia prestatore di ultima istanza. Come mostra mirabilmente questo volume (che anzi chiamerei volumetto, e non per sminuirne l’importanza, bensì per indicare che in poche pagine si possono concentrare tante cose interessanti), però, dire che occorre un prestatore di ultima istanza non basta, perché si tratta di capire quale dei vari modelli (quale, soprattutto, dei due antitetici che Ciocca disegna) riteniamo preferibile.
A questo proposito, il punto di fondo, quello che nel quale vengono in discussione proprio le categorie giuridiche, sta nella problematica della discrezionalità del banchiere centrale.
Qui ci sono due pagine (tra p. 35 e p. 36) che risultano illuminanti. Le regole d’azione del banchiere centrale, intese come criteri fissi, come parametri stabiliti sulla base delle esperienze passate di intervento operativo ovvero di indirizzo, le regole fisse, rigide, “non possono esistere [l’affermazione, come si vede, è molto impegnativa], quantomeno non in una economia di mercato alla maniera di Wall Street, nel capitalismo moderno intriso di finanza”. Questo vuol dire che per Pierluigi Ciocca un sistema fondato su un banchiere centrale funziona soltanto se si segue l’indicazione della parte lungimirante dello stesso mondo degli affari, cioè di quella che ha riconosciuto alle banche centrali (questo si scrive a p. 40) “margini di autonomia e discrezionalità volte all’adempimento di quei compiti”.
Discrezionalità, dunque. Se è così, veniamo ad un problema che interessa direttamente noi giuristi, che ci troviamo nell’imbarazzo di concepire una qualche forma di controllo giurisdizionale della delicatissima discrezionalità del banchiere centrale. In effetti, caso vuole che proprio oggi, a lezione, debba parlare ai miei studenti di Bracton e della differenza tra gubernaculum e iurisdictio: dove ci muoviamo, in questo caso? Sul terreno del gubernaculum o su quello (anche) della iurisdictio? Più chiaramente: potrebbe il giudice, davanti alla discrezionalità del banchiere centrale, esercitare i suoi poteri di controllo?
Pensiamo all’esperienza italiana dopo il divorzio Banca Centrale-Tesoro e pensiamo all’episodio che tu ricordavi (non so se la memoria mi fa difetto), quando Carli, nelle Considerazioni finali del Governatore del 1973, disse che non conformarsi alle indicazioni del Tesoro sarebbe stato addirittura un atto sedizioso: questo, francamente, nessuno se lo potrebbe più nemmeno immaginare [Ciocca: “lui disse esercito una facoltà, non mi conformo alle indicazioni del Tesoro, rivendico l’autonomia”].
Il punto, però, è con quali paradigmi controllare tale discrezionalità. Si tratta – evidentemente – di discrezionalità tecnica e il giudice amministrativo (parlo sotto il controllo di Alessandro Pajno), quando ha avuto a che fare con la discrezionalità tecnica, spesso e volentieri si è comportato da peritus peritorum se non da perito egli stesso, perché i problemi tecnici, tutto sommato, non erano inattingibili e sulla discrezionalità si poteva tranquillamente operare almeno quel controllo esterno che la giurisprudenza amministrativa ha sempre effettuato. Ma, di fronte a questioni così complesse, come potrebbe il giudice amministrativo apprezzare in concreto il corretto esercizio della discrezionalità?
Questione analoga ha riguardato, come sapete bene, anche il giudice costituzionale. Non a caso, con la presidenza Baldassarre si istituì un ufficio destinato proprio alla valutazione degli impatti delle pronunce della Corte costituzionale, e anche se esso non ha poi avuto particolare vitalità rappresentò una vicenda significativa. Sebbene l’ufficio non ci sia più il problema è rimasto, come dimostra la recente sent. n. 10 del 2015 con la quale la Corte ha deciso di far slittare pro futuro la declaratoria di incostituzionalità di alcune previsioni normative in materia di imposte sugli idrocarburi. Quasi a testimoniare una sorta di impotenza del giudice costituzionale, che, di fronte all’impossibilità di valutare, con i suoi strumenti, gli effettivi impatti macroeconomici di una sentenza, alza le braccia e dice: “intanto dichiaro incostituzionale la legge, ma gli effetti si determineranno da domani, per evitare il rischio di una manovra aggiuntiva”. E’ chiaro, comunque, che questa non è una strada che potrebbe essere percorsa nel caso che qui ci interessa.

Il problema di una supervisione tecnica sulle scelte finanziarie e di bilancio, comunque, è molto avvertito dal nostro ordinamento: basta pensare all’istituzione dell’Ufficio parlamentare di bilancio (peraltro non accompagnato – come a me sembrerebbe opportuno – da un equivalente nell’organigramma del Governo). In ogni caso, una volta che questo problema si affaccia al livello della giurisdizione si pone – come accennato – in forme particolari, perché al giudice mancano gli strumenti per risolverlo direttamente, sicché non è azzardato prevedere che in futuro si faranno più frequenti gli apporti consulenziali dei quali la magistratura si avvarrà.
Concludo questo breve intervento con due ultime osservazioni.
La prima: l’insistenza di Pierluigi sulla discrezionalità del banchiere centrale è musica per le mie orecchie, perché evoca un’esigenza di flessibilità. Si tratta di un’esigenza che a mio avviso traspare chiaramente anche nella legge costituzionale n. 1 del 2012 (sta a dire: nella riforma dell’art. 81 Cost., ma non solo, visto che molti altri paradigmi costituzionali, come – in particolare – gli artt. 97 e 119, sono stati incisi), nella quale, per dirla con una formula ad effetto, si nasconde una sorta di rigidità flessibile.
Certo, nel titolo della legge si scrive ch’essa intende introdurre in Costituzione il principio del pareggio di bilancio, ma nel testo della legge non v’è nulla che corrisponda a questa dichiarata intenzione, visto che vi si parla sempre e soltanto di equilibrio e che l’equilibrio di bilancio (specie per come disegnato dalla riforma) è cosa totalmente diversa dal pareggio.
Ebbene: se leggiamo la legge costituzionale n. 1 del 2012 nella prospettiva della flessibilità (una prospettiva, aggiungo, che la legge attuativa ha assunto con minore coerenza), a mio avviso, interpretiamo correttamente il suo testo, senza farci ingannare dal suo titolo. Non solo: la leggiamo conformemente ai principi costituzionali fondamentali. Se, infatti, dovessi dire qual è nel testo originario della Costituzione la cifra essenziale della disciplina del bilancio, direi con sicurezza che si tratta proprio della flessibilità, che non significa legittimazione della finanza allegra, ma neppure significa l’algida e aritmetica rigidità del principio del pareggio.
Infine, un’osservazione su quanto si scrive a p. 123, nelle conclusioni del volume, trattando una questione che ho a cuore in modo particolare: quella del rapporto tra indebitamento netto e spese di investimento; insomma, della golden rule in senso stretto.
Neutralizzare le spese per gli investimenti nel calcolo dell’indebitamento netto? E’, questa, una risposta corretta? Qui – è chiaro – si possono sostenere le tesi più varie, ma richiamerei l’attenzione su un fatto: che questa scelta, della quale – ovviamente – si può discutere sul piano tecnico, deve essere calibrata sulle esigenze delle singole esperienze economico-sociali e sulle esigenze dei singoli ordinamenti. La neutralizzazione delle spese di investimento, infatti, ha un significato diverso in un Paese fortemente infrastrutturato (come può essere la Germania) ed in un Paese che infrastrutturato lo è assai più debolmente (come può essere l’Italia).
Non solo. Se discutiamo della neutralizzazione della spesa per gli investimenti, va ovviamente chiarito cosa per spesa di investimento s’intenda, perché non possiamo fare (come dire) di ogni erba un fascio (senza contare che – davanti a tanti economisti presenti oso solo menzionare il tema – a seguire Keynes  v’è da chiedersi se, sul piano funzionale, abbia davvero senso distinguere tra spese di investimento e spese correnti). Se vale la precisazione fatta prima, sulla diversità delle esigenze dei vari Paesi, la prospettiva da assumere in questa analisi sembra chiara.