Quale guerra alla corruzione? – Il problema della trasparenza

Corruption can be prosecuted after the fact, but first and foremost, it requires prevention [0]

1. Descrivere un’ipotesi tipica di corruzione, disegnarne il percorso, non è difficile. Chiunque voglia ottenere da una pubblica amministrazione un permesso, un contratto, una concessione etc. deve presentare una domanda, un’offerta, che l’amministrazione accolga. Ci sono sempre procedure di valutazione e di scelta, più o meno complesse. Tutto ciò richiede il rispetto di regole scritte e non scritte, leggi, regolamenti, bandi, parametri.
In questo percorso di legalità e quindi di imparzialità si inseriscono le figure del corruttore e del corrotto. Su iniziativa dell’uno o dell’altro, si conviene che il funzionario dell’amministrazione si esprimerà comunque a favore di un dato soggetto, candidato o istante che sia. Questi otterrà quel che voleva – vincerà – e pagherà il “premio”.
Il risultato non viene dunque conquistato, ma “comprato”, perché corruttore e corrotto fanno sì che si costruisca una volontà della pubblica amministrazione, che è in realtà la loro, fondata sul tradimento dell’istituzione e delle sue regole[1].
Tutto ciò è chiaro. Singoli fenomeni di questo genere non farebbero storia, come non fanno storia un po’ di furti. Il problema serio è che il numero delle persone che cercano di vincere gare e concorsi, di ottenere insomma “cose” che ritengono di non poter conquistare con le loro forze – e assai spesso anche cui mai potrebbero aspirare -, è vastissimo; come vasto è il numero di coloro che, pur dipendenti di una pubblica amministrazione alla quale hanno giurato fedeltà, per denaro sono disposti a tutto: ad esprimersi ed a far esprimere altri in favore di Tizio o di Caio solo perché sono stati ben foraggiati. Naturalmente sono e pretendono di essere retribuiti dalla loro amministrazione per svolgere una certa funzione e adempiere al loro dovere.

2. La nostra tradizione è univoca nell’interpretare questo fenomeno in chiave penale. Fino a pochissimo tempo fa – fino a quando, cioè, non si è pensato di affrontare il tema della corruzione anche in termini organizzativi e di controllo – le norme di riferimento erano solo gli artt. 318 e segg. cod. pen.: il pubblico ufficiale che per l’esercizio delle sue funzioni accetta denaro o altre utilità è punito con la reclusione da uno a cinque anni (art. 318); se accetta soldi per ritardare od omettere un atto di ufficio subisce una reclusione dai quattro agli otto anni (art. 319); se induce qualcuno a dare o promettere indebitamente denaro o altre utilità, la pena va dai tre agli otto anni; chi induce a dare o promettere a sé o ad un terzo denaro o altra utilità corre il rischio di reclusione fino a tre anni (art. 319 quater); le stesse pene si applicano al corruttore.
Ma, più che legittimo, è doveroso chiedersi se il discorso possa finire qui. Il dato di fatto rilevante per la società non è che ci sia un certo numero di persone nei cui confronti i pubblici ministeri esercitano l’azione penale e che altri ancora siano sotto indagine della Guardia di Finanza. Il dato rilevante – e il problema di prima grandezza – è che n persone possano tenere e tengano costantemente comportamenti ispirati alla “vendita” dell’esercizio delle loro funzioni; e che questo avvenga senza che nessuno se ne accorga, se non dotato di occhi acutissimi o di congrue relazioni.
Come è ben noto, la presenza di una così rilevante prassi di corruzione fa sì che tutte le decisioni possano esserne influenzate, direttamente o indirettamente. È esperienza comune che, anche senza nessuna esplicita richiesta di un “premio”, se esso non viene offerto, la pratica va incontro ad un’istruttoria lenta e difficile; appigli insignificanti la fermano, fino addirittura ad archiviarla; etc. etc. Il corso della funzione amministrativa viene insomma alterato.
Questo è il punto nodale, su cui occorre riflettere. Certo, corruttori e corrotti sono singole persone; per essi si parla e si deve parlare di comportamenti, costituenti reato, posti in essere da individui. Ma ciò che rende la corruzione un fenomeno sociale grave e pesante, dagli effetti incalcolabili, un vero problema istituzionale, insomma, è il suo carattere generale, collettivo, non solo o principalmente individuale. Essa si pone su piano analogo a quello dell’evasione fiscale. Anche per questo vastissimo fenomeno ciò che rileva non è il singolo che non paga le imposte, per grande che sia il suo inadempimento tributario. Il singolo può essere trovato e punito. Gravissimo, drammatico è il fatto che l’evasione sia un fenomeno collettivo, su larga scala. Si stima che, in Italia, essa raggiunga i 180 miliardi di euro all’anno[2].

3. Corrompere deriva da cum rumpere, mandare in pezzi, quindi infrangere, decomporre, sottrarre alla composizione e all’organicità. Si tratta di un’etimologia semplice, che racchiude però in sé un pensiero profondissimo. Esso è che una società corrotta è una società disfatta, incoerente, intrinsecamente anarchica, perché c’è un ordinamento governato non dai suoi organi, ma da chi ne compera l’esercizio a proprio favore: e, quindi, da interessi puramente egoistici e non pubblici, collettivi, generali. Il dilagare di questi interessi egoistici conduce alla “decomposizione” del ruolo e delle funzioni di chi ha il compito di curare gli interessi generali. Decisioni, che formalmente si riferiscono alla collettività, nei fatti – nella sostanza – soddisfano qualche soggetto nascosto. Si può ben dire che la corruzione applicata al sistema lo rende caotico, perché di nessuna norma, di nessuna regola può essere garantito il rispetto e quindi l’applicazione – esattamente come, all’inverso, una norma può essere applicata per fini impropri, come ad es. soffocare economicamente qualcuno con l’uso di ordinari strumenti burocratici.
Per cercare di razionalizzare questo fenomeno si può ricorrere a due analogie. La prima appartiene al mondo biologico. È il cancro. Tutti sanno che nella complessissima struttura del corpo umano (e non solo umano) una cellula neoplastica – corruttore o corrotto, non rileva – riesce ad eludere la sorveglianza del sistema immunitario (la legalità), camuffandosi, in modo da non essere riconosciuta come estranea dall’ospite (la società). La risposta immunitaria è troppo debole per arginare il fenomeno. Corruttori e corrotti si sviluppano in rapidissima crescita. Il cancro così inizia a diffondersi nel tessuto sano con meccanismo metastatico, ignorando i percorsi biologici del corpo di cui fa parte – ignorando le sue regole[3].

Ne nascono complessi cellulari che funzionano in modo incontrollabile – caotici, appunto, – capaci di crescere in tempi rapidi, a volte rapidissimi, letteralmente avvelenando e soffocando il corpo che le ospita. L’ordine è per loro ignoto; spesso, molto spesso, il bisturi del chirurgo, le radiazioni, la chemioterapia hanno effetti limitati, solo temporanei. L’ordine non si ricostituisce.
La seconda analogia è omologa alla corruzione. È l’evasione fiscale, cui sopra già si è accennato. La sola idea che si possa non adempiere ai propri obblighi tributari significa che ci sono persone e imprese le quali ritengono di aver il diritto di fruire di tutto ciò che offrono le comunità, locali e statale, senza dover contribuire; ritengono che i problemi finanziari della società non le tocchino. Come sopra si è visto, secondo una recente, accuratissima indagine[4], l’evasione fiscale in Italia si aggira intorno ai 180 miliardi di euro all’anno. La gravità del fenomeno – che non si vuole stroncare per motivi elettorali[5] – è tale che tutti i governi, prima o poi, nel corso dell’anno sono costretti a “manovre” per trovare qualche miliardo di euro: qualche miliardo contro i 180, sistematicamente sottratti. Ora è certo che la fuga dalla contribuzione fiscale mini gravemente la struttura economica e sociale del Paese. Anche qui non rileva il singolo evasore. Rileva l’esistenza di un fenomeno di evasione comune, condivisa, spesso associata anche alla corruzione. Il corpo sociale è minacciato da un altro tumore.

4. Una cosa è dunque la coppia corruttore e corrotto, riferita a casi singoli o comunque isolati, e tutt’altra la corruzione elevata a sistema sociale. Scoperto un episodio di questo genere, il fatto può essere ricostruito nei dettagli; corruttore e corrotto possono essere inquisiti, sottoposti a giudizio, condannati, espropriati. È una vicenda che riguarda singole persone – e anche se ne impiega decine, a volte centinaia, per condurre indagini, perquisizioni, sequestri, processi. Ed è un episodio che riempie le pagine dei giornali.
Di fronte alla corruzione elevata a sistema, non si può pensare di gestirla muovendo dalla premessa che si tratti di accertare una serie di reati per condannare i colpevoli. Ci si trova infatti di fronte ad una parte di società, numericamente consistente, malata incurabile con gli strumenti del diritto penale e delle relative procedure. Non c’è tempo, né spazio, né personale sufficiente per indagare e processare decine di migliaia di casi di corruzione. Di fronte a processi che durano anni ed anni, la sentenze di condanna non hanno alcuna efficacia dissuasiva sul piano sociale. Nessuno discute che in questo sistema qualcuno possa cadere nella rete della Guardia di Finanza. Ma nel momento stesso in cui viene colto in fallo o in cui si trovano prove della sua corruzione, costui diventa il sig. A o la sig.ra B, con tutti i diritti di ogni indagato e poi di ogni imputato. Arrestati questi, entro poco tempo altre figure li sostituiscono, forti dell’esperienza dei primi.
Il tema è drammatico e riguarda il mondo intero. È certo che gli strumenti penali tradizionali non sono sufficienti per contrastare, combattere e sconfiggere la corruzione. La realtà è durissima: perseguire e punire in maniera socialmente efficace le decine, forse centinaia di migliaia di corruttori e corrotti, è impossibile. Per combattere la corruzione occorre trovare il modo di prevenirla, ovvero di impedire agli “interessati” di praticarla. Questo naturalmente non significa che i reati di corruzione non debbano essere puniti. Il vero problema è un altro. Bisogna impedire, rendere materialmente difficile, difficilissima la corruzione.

5. Il punto di riferimento obbligato per qualunque discorso su questi temi è la Convenzione ONU contro la corruzione, firmata a New York il 31 ottobre 2003, ratificata in Italia con la l. 3 agosto 2009, n. 116[6].
È necessario entrare brevemente nel dettaglio. La premessa è che la corruzione sia un problema molto grave, per “la minaccia che essa costituisce per la stabilità e la sicurezza delle società, minando le istituzioni ed i valori democratici, i valori etici e la giustizia”[7] e che sia necessario fare ogni sforzo per prevenirla e stroncarla, nell’ambito di una cooperazione internazionale.
In quest’ottica, lo scopo principale, perseguito dalla convenzione ONU, è quello della prevenzione, nella piena consapevolezza che la punizione di corruttore e corrotto non cancella le conseguenze negative della corruzione, né efficacemente la previene. Indica così una serie di interventi preventivi che gli Stati avrebbero dovuto realizzare, al fine di sviluppare coordinate politiche anticorruzione.
Che le misure di prevenzione della corruzione possano essere molte è pacifico. La grande originalità della convenzione ONU sta nell’aver enfatizzato il ruolo del controllo sociale, non tanto sulla corruzione come tale, ma quale strumento di prevenzione, perché investe a monte l’operare delle amministrazioni, il loro agire e la formazione delle loro decisioni. Questo controllo sociale viene configurato in diversi modi. Il primo è certamente la selezione del personale, la sua formazione, la previsione di frequenti avvicendamenti in incarichi e funzioni pericolosamente esposti alla corruzione. Nel coacervo di misure proposte, però, una è quella più innovativa e di decisiva portata: la trasparenza dei processi di funzionamento delle amministrazioni e di formazione delle loro decisioni.
Nell’art. 5, intitolato “Politiche e pratiche di prevenzione” si dispone, al co. 1, che ogni Stato dovrà adottare “politiche di prevenzione della corruzione, efficaci e coordinate che favoriscano la partecipazione della società e rispecchino i principi della rule of law[8], di buona gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici, di integrità, di trasparenza e di responsabilità”[9]. I commi successivi specificano la portata del primo, disponendo che ogni Stato membro attui e promuova pratiche efficaci per prevenire la corruzione (co. 2) e valuti periodicamente gli strumenti giuridici e le misure amministrative adottate per verificare se essi siano adeguati per prevenire e combattere la corruzione (co. 3).
Seguono altre norme, adottate anche nel nostro ordinamento, volte a formare il personale più esposto alla corruzione. Si deve infine richiamare l’art. 10. Gli Stati, aderenti alla Convenzione, devono “prendere le misure necessarie per accrescere la trasparenza della propria pubblica amministrazione anche per quanto concerne, se del caso, la propria organizzazione, il proprio funzionamento, e i propri processi decisionali”[10].

6. La logica di questa impostazione è chiara. La corruzione non viene considerata solo come un comportamento che debba essere represso. La Convenzione ne coglie l’essenza: è un comportamento che non può e non deve esistere, perché mira a violare, manomettere, adulterare le regole della società. In questo senso è un tumore sociale. Può essere oggetto di interventi chirurgici che, pur se ne colpiscono alcuni casi, non incidono nell’essenza e nelle dinamiche strutturali della corruzione. Poiché è ubiquitaria, non si può pensare di poterla estirpare, come non si possono estirpare erbe infestanti. La si deve soffocare, come si fa con le erbacce, le si deve impedire di radicarsi e di trovare operatori interessati a questo commercio. La si deve insomma ridurre ai minimi termini.
Non vi possono essere dubbi sul percorso da seguire. È pacifico che il segreto, la riservatezza, siano la condizione ambientale sine qua non perché possano svolgersi gli incontri, volti ad alterare il corso della funzione amministrativa. Nessuno deve sapere, vedere, sentire. La decisione traditrice deve emergere dal nulla, come una scelta qualsiasi. Per impedirla, dunque, bisogna prevenirla. E prevenirla ha un unico significato: privarla del suo ambiente, del suo ossigeno, mettere tutto alla luce del sole.
Questo è la trasparenza, questo è la prevenzione. E questo è il nocciolo del metodo comune per combattere la corruzione, deciso con la sottoscrizione della Convenzione ONU del 2003.

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7. Come si chiarirà nelle pagine che seguono, l’Italia ha vissuto un’esperienza a dir poco singolare. La Convenzione ONU del 2003 venne ratificata con la l. 3 agosto 2009, n. 116. Il regime di controllo sociale della Convenzione fu così diritto interno a partire dall’entrata in vigore della legge n. 116/2009: dal 15 agosto 2009. Sennonché la l. 6 novembre 2012, n. 190, pur dichiarando di voler dare attuazione all’art. 6 della Convenzione ONU sui nuclei anticorruzione, ha letteralmente rovesciato il diritto interno, scaturito dalla ratifica della Convenzione ONU. L’asse portante della Convenzione, secondo cui lo strumento più forte per la lotta contro la corruzione è la prevenzione, che si ottiene attraverso il controllo sociale sull’attività amministrativa, è stato sostanzialmente abbandonato. La trasparenza dell’attività amministrativa, il principale e più innovativo veicolo di questo controllo sociale, è stata interpretata come pubblicità degli atti amministrativi, realizzata mediante varie forme di pubblicazione in albi ad hoc, elaborati secondo i criteri tradizionali: cioè senza trasparenza alcuna[11]. Incredibile a dirsi, l’eliminazione della trasparenza nel senso voluto dalla convenzione è stato fatta in maniera semplicissima: si è dato un altro significato alla parola “trasparenza. Non visibilità di tutto ciò che c’è all’interno, ma pubblicazione di prodotti finali in albi o bacheche.

8. Bastano poche parole per spiegare la vicenda. Conviene fermarsi anzitutto sull’etimologia e sul significato di “trasparenza”. Trasparenza è il sostantivo di trasparire: parere, essere visibile, trans-, attraverso qualche cosa: “trasparean come festuca in vetro”, scrive Dante[12]. Il sostantivo e il suo aggettivo “trasparente” hanno dunque un significato univoco, inequivocabile: trasparenza è consentire di vedere dietro qualsiasi possibile ostacolo; essere trasparente significa essere un diaframma, il quale consente di vedere che cosa c’è dietro, dall’altra parte di chi osserva. Applicata alla pubblica amministrazione, trasparenza significa dunque, necessariamente, che chiunque, senza eccezioni o limiti che non siano debitamente giustificati, può vedere tutto quello che si fa dentro qualsiasi ufficio. Questo era ed è il significato con cui la Convenzione ONU usava la parola “trasparenza”, essenziale strumento per il controllo sociale della pubblica amministrazione.
Il comma 15 dell’art. 1, l. n. 190/2012, lo ha radicalmente mutato:
“Ai fini della presente legge, la trasparenza dell’attività amministrativa, che costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. m) della Costituzione …. è assicurata, mediante la pubblicazione, nei siti web istituzionali delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi, secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d’ufficio e di protezione dei dati personali”.
La configurazione della trasparenza, disegnata dalla legge n. 190/2012, è stata poi ulteriormente modificata dal d. l.vo 14 marzo 2013, n. 33. Significativamente intitolato “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”, all’art. 1 introduce il Principio generale di trasparenza. Questo “Principio generale”:
– anzitutto ridefinisce la trasparenza, riscrivendo il co. 15 dell’’art. 1 l. 190/2012. Essa “è intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”;
– ne qualifica poi il ruolo. Della “accessibilità totale” del primo comma, la legge dice anzitutto, testualmente, che essa “concorre ad attuare” il principio democratico ed i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo delle risorse pubbliche, nonché di integrità e lealtà nel servizio alla nazione;
– dice poi che l’ “accessibilità totale” è (a) “condizione di garanzia” delle libertà individuali e collettive, nonché (b) dei diritti civili, politici e sociali; (c) integra inoltre il diritto ad una buona amministrazione e (d) “concorre” alla realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio del cittadino. Si può pudicamente osservare che la trasparenza non dovrebbe concorrere a realizzare un’amministrazione aperta, ma realizzarla e basta.

L’art. 1 traccia infine i confini della trasparenza. Essi sono il rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, segreto di ufficio, segreto statistico, e di protezione dei dati personali. Questo è un punto molto delicato, perché i confini stessi di questi segreti, per non parlare dei dati personali e della loro protezione, sono molto elastici;
– infine, è confermato il punto, per cui le disposizioni del decreto individuano il livello essenziale delle prestazioni, ex art. 117, 2° co., lett. m), Cost., già introdotto dalla l. n. 190/2012.

9. Così, la l. 6 novembre 2012, n. 190, che avrebbe dovuto disciplinare la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, attenendosi alla Convenzione ONU ed attuandola in Italia, in realtà ha fatto esattamente il contrario: ha adeguato gli indirizzi della Convenzione all’ordinamento italiano ed alle sue logiche.
È ragionevole ritenere che i più forti contrasti, i più forti contro-adegua-menti siano due. Il primo fa quasi sorridere: si ripete un numero n di volte che dall’applicazione della legge non devono derivare nuove o maggiori spese.
Il secondo è molto più serio e grave. Riguarda la transparency, la trasparenza. Anziché renderla strumento di generale partecipazione ai procedimenti – e quindi al percorso decisionale, come continuamente ripete la Convenzione – la l. n. 190/2012 la limita a strumento di pubblicità di atti già elaborati, dei quali consente la conoscenza, attraverso la pubblicazione in albi o bollettini. Se la trasparenza doveva essere lo strumento di controllo sociale sull’azione amministrativa nel suo farsi, questo “pericolo”è stato sventato. In nessun angolo della legge si trovano le parole che la nostra tradizione di segreto e di riservatezza avrebbe richiesto: che la trasparenza non è un principio astratto, ma una concreta regola di comportamento, che riforma e rende moderno il sistema amministrativo – appunto, in quanto accompagna l’azione amministrativa nel suo farsi.
È giocoforza entrare nei dettagli. Abbandonata l’idea della vera trasparenza quale strumento di controllo sociale, con lo scopo di prevenire la corruzione, rendendola difficile, è stato giocoforza rimettere al Dipartimento della funzione pubblica e poi all’Autorità Nazionale Anticorruzione il compito coordinare e attuare strategie di prevenzione e contrasto della corruzione e dell’illegalità nella p.a. Il co. 4, lett. a), dice che il Dipartimento promuove e definisce “norme e metodologie comuni per la prevenzione della corruzione”, “coerenti con gli indirizzi, i programmi e i progetti internazionali” (lett. b); predispone il piano nazionale anticorruzione (lett. c); definisce “modelli standard delle informazioni e dei dati occorrenti per il perseguimento degli obiettivi previsti dalla presente legge”, secondo modalità informatiche (lett. d). Serissimo è il compito di definire la rotazione dei dirigenti nei settori particolarmente esposti alla corruzione (lett. e).
In sintesi: persone dell’amministrazione vigilano su altre persone dell’amministrazione.
E la trasparenza? E l’illimitata accessibilità non agli atti, ma alle stanze dell’amministrazione? Secondo la Convenzione ONU, essa deve investire tutte l’attività dell’amministrazione. La legge italiana la limita perentoriamente: sono accessibili le informazioni che riguardano l’organizzazione: si può dunque liberamente sapere quale ufficio si occupa di che cosa ed a quale ufficio ci si deve rivolgere per una data questione. Ma il nocciolo della questione, il cuore della trasparenza, entrare in ufficio, salutare e chiedere, informarsi, sapere, di sé e di altri, dove è rimasto? È inutile nascondersi dietro un dito: è rimasto nella Convenzione ONU[13]. Nonostante le alte parole del d. l.vo n. 33/ 2013, in concreto l’amministrazione può menare il can per l’aia, come si dice, tacere invocando il dovere di proteggere dati personali altrui; può lasciar trascorrere un tempo incalcolabile e imprevedibile, perché, ad es., un’altra amministrazione non si è ancora pronunciata.

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La conclusione non è lieta. Bisogna anzitutto dire che la l. 27 maggio 2015, n. 69, “Disposizione in materia di delitti contro la pubblica amministrazione” ed altro, insiste nel considerare soltanto il profilo penale della corruzione. Modifica così una serie di articoli del codice penale, vuoi aggravando le pene, vuoi allungando i tempi per la prescrizione. Nessuno contesta che la corruzione meriti di essere considerata un reato, ed un grave reato, che come tale deve essere punito. Il problema è che la corruzione è un cancro. Operarlo non basta. Bisogna fare tutto il possibile per prevenirlo.
In questa situazione, lo sforzo dell’Autorità Anticorruzione, con i piani anticorruzione che elabora e cercherà di attuare, difficilmente potrà avere successo. Manca a noi un’idea di fondo: quando si parla di pubblico, tutto deve essere pubblico, sotto gli occhi di tutti.
Certo questo non vale per i servizi segreti, per la difesa, per operazioni di polizia e simili. Ma appunto: si tratta di servizi segreti, difesa, operazioni di polizia, non della vita quotidiana della società.

Note

0.  “La corruzione può essere perseguita dopo il fatto, ma anzitutto richiede prevenzione”. Sono le parole con cui inizia la presentazione dei punti principali della Convenzione ONU sulla corruzione del 31 ottobre 2003.

1.  Non si deve dimenticare che a volte il tradimento formale – cioè la violazione delle norme – non c’è e che la corruzione si esaurisce in una riduzione dei tempi amministrativi a favore di qualcuno.

2.  Stefano LIVADIOTTI, Ladri Gli evasori e i politici che li sostengono, 2014.

3.  Questa rappresentazione del cancro è stata suggerita all’A. dalla prof. Carlina V. Albanese, che vivamente ringrazio.

4.  Stefano LIVADIOTTI, Ladri etc. cit. La cifra è fondata su dati ufficiali.

5.  È opinione comune, ampiamente discussa e analizzata da LIVADIOTTI, op. cit., pressoché passim.

6.  Non ci soffermerà invece sulla Convenzione penale sulla corruzione in sede OCSE, del 27 gennaio 1999, ratificata con l. 28 giugno 2012, n. 110, poiché essa riguarda specificamente solo la cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale nella lotta alla corruzione.

7.  Convenzione ONU, Preambolo.

8.  Il testo originale inglese della Convenzione usa l’espressione rule of law, con la quale nel mondo anglosassone si intende un regime nel quale il potere pubblico soggiace a regole di diritto. La traduzione italiana, nel testo ratificato con la l. n. 116/2009, usa l’espressione “stato di diritto”: che è tutt’altra cosa. È di origine tedesca (Rechtsstaat), e identifica lo Stato succeduto agli Stati essenzialmente autoritari: Stato, appunto di diritto.

9.  Nel testo inglese “accountability”.

10.  La Convenzione prevede misure di prevenzione – trasparenza inclusa – anche per il settore privato (art. 12).

11.  Questo è accaduto con la l. 6 dicembre 2012, n. 190, che incredibile dictu, tre anni dopo la ratifica della Convenzione, “obbligatoria” sul piano internazionale, fatta con la l. n. 116 del 2009, ne ha sostanzialmente cancellato il principio fondamentale, secondo cui la corruzione deve essere prevenuta, e lo strumento di elezione è il controllo sociale dell’amministrazione attraverso un regime di piena trasparenza della sua attività. Oltre alle leggi citate nel testo si devono ricordare il d. l.vo 14 marzo 2013, n. 33, e il d.l. 24 giugno 2014, n.90, conv. in l. n. 114 del 2014. Essi confermano lo stravolgimento del principio di trasparenza, avviato con la l. n. 190/2012.

12.  Inferno, XXXIV, 12.

13.  C’è già un precedente. TAR Lombardia, Sez. IV, 30 ottobre 2014, n.2587, che ha respinto il ricorso di un’impresa, qualificatasi sesta in una gara, volto a conoscere gli atti della gara stessa. Ha detto che, ad onta della trasparenza di cui parla il d.l.vo n. 33/2012, il candidato classificatosi sesto non aveva interesse all’accesso.