Ambiente e futuro

Innanzitutto voglio fare i migliori auguri a masteristi e docenti del corso Master che oggi prende avvio.
Nello stesso tempo, fare i miei complimenti a chi ha concepito e reso possibile questo corso: la sua ambizione – l’integrazione disciplinare ad iniziare dalle stesse discipline del diritto, oramai così articolato. che sembra possibile parlare di una disciplina a sé per ogni sua articolazione -, merita grande interesse ed attenzione.
E, appunto, i migliori auguri. La integrazione dei saperi è, come noto, tanto difficile quanto sempre più necessaria. Misurarsi con questo obiettivo rappresenta per tutti una difficile sfida.
In questo mio intervento inaugurale voglio essere coerente con l’obiettivo del master, trattando di due problemi di natura interdisciplinare: la progettazione di opere complesse, ricostruendo un «caso» paradigmatico della complessità e della conseguente necessità di integrazione dei saperi; gli effetti sull’economia della normazione ambientale.
Ovviamente affronterò entrambi i problemi in forma «leggera», come si conviene alla inaugurazione di un corso di formazione post universitaria. Gli approfondimenti saranno sviluppati nel corso.
Il «caso» di cui vi voglio parlare è quello della realizzazione di «casse di colmata». Cosa sono e perché sono interessanti queste opere, in quanto paradigmatiche della complessità intrinseca della progettazione di opere che per di più si misurano con le mille sfaccettature dell’ambiente e quindi della molto articolata normazione ambientale.
Le casse di colmata sono previste dalla speciale legislazione portuale italiana – servono infatti a contenere i fanghi provenienti dai dragaggi dei fondali dei porti -, ma sono poco apprezzate dalla legislazione europea; il confine tra cassa di colmata e discarica a mare – tipologia di opera non ammessa -, è infatti molto sottile.
I fanghi che possono essere «confinati» nella cassa debbono avere caratteristiche ben precise nella composizione fisico – chimica, nella tossicità dei diversi componenti, etc.
La loro estrazione deve essere molto accurata, in quanto non si deve correre il rischio che il materiale in sospensione si propaghi e quindi eventuali contaminati possono migrare in zone anche lontane da quelle di estrazione.
Nel passaggio dal fondo del mare alla cassa di colmata, dopo aver effettuato la caratterizzazione del fondo del mare, può accadere che si debbano fare ulteriori indagini o che, per varie motivazioni, non sia possibile mantenere la sequenza virtuosa, che vuole la cassa già realizzata quando si dà avvio al dragaggio e che quindi si debba stoccare in banchina il materiale proveniente dall’escavo per un certo tempo.
Sulla base della normativa vigente, superato un predeterminato tempo, il materiale scavato «diviene» rifiuto, rientrando nella specifica normativa. E, come tale, deve essere adeguatamente trattato anche con la posa in discarica adeguata, ovviamente con elevati costi: spesso le discariche abilitate sono molto lontane dai luoghi di estrazione.
E’ facile immaginare come questa situazione possa divenire ancora più complessa allorché si opera in un ambiente assoggettato alla disciplina dei siti di interesse nazionale (SIN) – e sono numerosi i porti italiani che rientrano in queste confinazioni sia nella parte marina che terrestre –, dal momento che la normativa ambientale applicabile è, ovviamente, più restrittiva.
Pensate come questo quadro già tanto complesso possa ulteriormente complicarsi se la realizzazione di una cassa di colmata non nasce per esigenza autonoma di un porto: per realizzare banchine, piattaforme, etc., non è obbligato il ricorso a questa tipologia di opera. Ma per esigenze altre, ad esempio quelle della risoluzione di una criticità esterna al porto.
Tanta complessità, compresa la rimodulazione dell’obiettivo alla base della cassa di colmata, è rilevabile nel caso della cassa  di colmata in corso di costruzione nella parte di levante del porto di Napoli: sito di interesse  nazionale e rimodulazione della motivazione dell’opera dapprima pensata per stoccare i materiali provenienti dalla colmata di Bagnoli e successivamente, a seguito di diverso orientamento programmatico, contenere i fanghi provenienti dal dragaggio del porto; mancanza nella regione Campania di discariche abilitate a ricevere il materiale nel frattempo divenuto rifiuto.
Complessità che si aggiungono a quelle specifiche della tipologia dell’opera che deve mantenere un certo grado di permeabilità fortemente dipendente dalla natura geologica e litologica del fondo, ovviamente.
Una diversa impostazione normativa (perché i porti non vengono trattati come le zone produttive terrestri?) e scientifica (perché non utilizzare maggiormente la tecnica della ecotossicità nella caratterizzazione dei sedimenti?), potrebbero senz’altro aiutare alla risoluzione del problema del dragaggio dei porti a vantaggio non solo della funzionalità dei porti, ma anche della economicità degli interventi.
La costruzione di casse di colmata, con le difficoltà molto sommariamente trattate, appartiene alla cosiddetta ingegneria «hard». Il dragaggio condotto in continuo, compensando le depressioni e riducendo le asperità che si formano nel fondo del mare sia per via delle correnti che per effetto dei motori e della movimentazione delle navi, potrebbe essere considerata una forma «soft» di gestione dell’ambiente.
Il presupposto per la sua applicabilità sta nella impostazione normativa che dovrebbe «accettare» una fisiologica diversità delle aree portuali in quanto a qualità dell’ambiente. Stabilita la soglia della accettabilità di questa specificità, l’attività di dragaggio dovrebbe essere considerata fisiologica, così come lo sono altre attività ambientali  che interessano le aree per insediamenti produttivi terrestri.

Nel caso, ripeto, sommariamente trattato, costituiscono le «sfondo» i due storici approcci della gestione dell’ambiente che hanno ispirato tutta la normazione ambientale: quello dell’ «environmental control» e quello dell’«environmental design». Il primo è quello delle «soglie» di cui si misura l’eventuale superamento con le conseguenze amministrative, economiche e perfino penali, ben note.
Il secondo, è quello della progettazione ambientale, che risolve i problemi di compatibilità e sostenibilità – nella loro profonda diversità di significati –, nell’ambito del progetto e di uno specifico progetto. Ovviamente «complesso» e «completo», nel senso cioè della considerazione anche della vita dell’opera/attività e dello stesso post opera, allorché cioè l’opera/attività viene dismessa e quindi ci si deve occupare della «restituzione» dell’ambiente ed a quali condizioni.
Integrare i due «approcci» è il compito della valutazione ambientale, dei piani e programmi (la cosiddetta valutazione ambientale strategica, VAS) e dei progetti (il giudizio di compatibilità ambientale e/o VIA). Procedure purtroppo non utilizzate pienamente per rispondere a questo obiettivo, oltre a quelli specifici: la compatibilità ambientale nel caso della VIA e la sostenibilità ambientale in quello della VAS, ma quasi esclusivamente per riaffermare il primato del «control» sul «design».
La complessità che ho cercato di illustrare con il caso delle casse di colmata – ma non sarebbe difficile rilevarla anche in altre tipologie di opere (e di attività), ritenute  di solito di minore complessità -, per essere governata richiede una maggiore capacità progettuale in senso pieno: dalla domanda alla base dell’opera alla gestione dei post opera, più che ulteriori e magari ancora più restrittive norme attinenti al controllo ambientale.
Nel caso trattato, la questione economica si materializza nei maggiori costi. Dell’opera principale, del trattamento del materiale divenuto rifiuto, nelle opere di estrazione, nelle indagini sui materiali di scavo, sulla permeabilità del fondo della cassa, sulla lunghezza delle procedure autorizzatorie e quindi della durata dei lavori, del ritardo nello sfruttamento dell’opera, dei maggiori costi finanziari, etc.
Ovviamente la virtuosità ambientale ha anche altre dimensioni: il risparmio di risorse, la riduzione dei rifiuti, l’indotto sulla occupazione, l’innovazione tecnologica, etc. Fra tutte, il collegamento virtuoso tra qualità dell’ambiente e salute umana.
Come gioca in questa dimensione la normazione ambientale? Ed ecco il secondo problema che avevo annunciato che avrei trattato. Lo faccio ponendo degli interrogativi: è vero che la severità delle norme sia ostacolo alla crescita dell’economia? Al contrario, che una minore severità favorirebbe la crescita dell’economia?
E senza considerare il problema dei costi esterni che comportano problemi di “èthique sans visage” (S. Chauvier, 2013), di chi li paga, quanto incidono su platee di conosciuti e appunto di «senza volto», etc.
Il tema è enorme (ovviamente). Due ricerche recenti però ci aiutano a poterlo considerare in forma sintetica, utile per una conclusione del mio intervento. Si tratta delle ricerche, alle quali rinvio; la prima pubblicata, sul blog di P. Gleick, direttore del Pacific Institute che studia le curve di evoluzione del PIL negli Stati Uniti a seguito della introduzione di norme ambientali emanate in risposta ad emergenze ambientali nessuna influenza significativa sarebbe riscontrabile, malgrado che è stato preso in esame un periodo abbastanza lungo.
La seconda ricerca, di S. Albrizio, T. Kózluk e V. Zippar, tre economisti dell’OCDE, conferma questo risultato, mettendo in evidenza come all’apparire di nuove norme si determini un certo allentamento della crescita per via delle incertezza che si determinano, subito compensato dalla ripresa non appena le novità normative sono state assorbite.
Entrambi le ricerche sono commentate sul «Monde» del 17 febbraio u.s.
Si tratta di due contributi molto utili per ragionare sugli effetti economici della normazione ambientale a livello macro e su specifici profili.
Grazie e buon lavoro.

Intervento alla Tavola rotonda sul tema “Ambiente e futuro”, organizzata nell’ambito del Master di II livello in Diritto dell’Ambiente – La Sapienza (19 febbraio 2015). Si è scelto di mantenere il tono colloquiale della lezione.