Ambiente e futuro

Sono più economista che giurista, quindi proverò a introdurre la dimensione economica del problema ambientale.
Segnalo tre libri di economia dell’ambiente: Musu, Ciocca-Musu, Nordhaus. Il più completo di questi tre libri, il più ricco di elementi anche quantitativi sulla questione ambientale, è quello di Nordhaus, “Rischio, incertezza ed economia del riscaldamento mondiale”. Nordhaus è un economista di prestigio che si è dedicato nell’ultimo mezzo secolo ad approfondire l’economia dell’ambiente.
Il secondo libro, “Economia dell’ambiente”, è di Ignazio Musu, professore emerito di economia a Ca’ Foscari. Anch’egli ha da sempre studiato la questione. Cosa di cui egli non si gloria a sufficienza, è stato in varia guisa negli ultimi anni docente in Cina sul tema ambientale, che, come sapete, sta esplodendo in Cina e di riflesso nei dintorni della Cina, cioè nel mondo. Questo libro è più asciutto, meno empirico-quantitativo, più forte in punto di teoria economica, un po’ più difficile.
Il terzo libro è “Natura e capitalismo”, che Musu ed io abbiamo curato l’anno scorso, con altri amici. Forse dei tre è il più leggibile. Più degli altri sottolinea le connessioni fra la questione ambientale e gli altri due principali problemi dell’economia di mercato: l’instabilità e l’iniquità distributiva.
Dobbiamo muovere dalla contezza che viviamo in una economia di mercato capitalistica: una economia particolare, diversa dai modi di produzione che, forse nei millenni e certamente nei secoli, si sono avvicendati sulla scena mondiale.
In “Natura e capitalismo” propongo una definizione di capitalismo molto stretta, che data l’affermarsi di questo sistema dallo scorcio del Settecento e ne segue la diffusione nel mondo attraverso l’Ottocento e il secolo passato.
L’invito è a riflettere sul fatto che il problema ambientale si pone diversamente in una economia moderna, alla maniera di Wall Street di quanto non si ponesse nell’economia, diciamo feudale, di 700, o solo 600, anni fa.
Sulla definizione di capitalismo, me la cavo con una battuta della più illustre donna-economista, Joan Robinson, professore all’università di Cambridge, allieva di Keynes. Quando gli studenti le chiedevano di essere rigorosa nelle definizioni, la Robinson se ne usciva dicendo, più o meno, “quando vedo un elefante non lo definisco, semplicemente dico: questo è un elefante!”.
Occorre comunque riflettere sul concetto della moderna economia di mercato capitalistica perché il problema ambientale, come noi lo viviamo, si inscrive in questo tipo di economia e assume connotati speciali, che è importante far emergere.
L’homo faber ha da sempre violato l’ambiente. Non è il capitalismo che ha iniziato a farlo. In questo spirito vi prospetto anche la lettura di un saggio del maggiore storico economico italiano del secolo scorso, Carlo Cipolla. Cipolla era in grado di produrre piccoli libri, come questo interessantissimi, con cui egli riusciva in decine di migliaia di copie a divulgare problemi complessi. Il libro si intitola “Miasmi ed umori. Ecologia e condizioni sanitarie in Toscana nel Seicento”.
Cipolla studia come a Firenze nel ‘600 il funzionario del comune che doveva occuparsi degli escrementi affrontò il problema. Più o meno disse: “Invece di gettarli in Arno, inquinando, diciamo ai contadini: prendetevi questa roba, concimate i terreni in modo efficiente e avrete un vantaggio, in più vi ridurremo le tasse”.
Ma se il problema è antico e l’homo faber ha da sempre inquinato, l’homo capitalisticus ha sia una speciale capacità di incidere sull’ambiente sia un ottimo motivo per farlo e, quindi, una speciale propensione a infliggere all’ambiente ferite sanguinose. Ciò per almeno due ragioni.
a) La prima ragione è che il sistema economico ha sviluppato negli ultimi 200-250 anni le attività produttive come mai era accaduto nella storia dell’umanità. Questo è … il bello del capitalismo, il motivo per il quale tutti lo vogliono e nessuno vi rinuncia. Forse lo stesso sistema economico cinese attuale – non quello della Corea del Nord! – può essere incasellato nella forma generale di economia di mercato capitalistica. Persino Fidel o Raoul Castro, pur fedeli alle loro originarie idee, forse stanno riflettendo se portare Cuba al capitalismo.
Questo vantaggio straordinario del capitalismo venne analiticamente colto da Marx, passato alla storia come il principale critico dell’economia di mercato capitalistica. Nondimeno Marx nutriva una stima straordinaria per il sistema che combatteva. Insieme con Engels, dedica le prime pagine del “Manifesto” alla lode della borghesia. La borghesia, il sistema borghese, il modo di produzione capitalistico hanno una capacità straordinaria di sviluppare le “forze produttive”, tanto da dischiudere all’umanità altre scelte, che l’arretratezza economica non consentiva.
Lo sviluppo delle forze produttive, come connotato precipuo e aspetto positivo dell’attuale economia, è stato poi meglio definito e quantificato dagli economisti e degli statistici.
Circa 200 anni fa il PIL – il prodotto interno lordo, o reddito al netto dei costi – prodotto nel mondo, era, ai prezzi di oggi, di 1000 miliardi di dollari all’anno. Oggi è di 70 mila miliardi di dollari all’anno. In 200 anni il PIL ha progredito di 70 volte per una popolazione che 200 anni fa, nel globo, era di 1 miliardo di persone, mentre oggi è di 7 miliardi. Per ciascun essere vivente nel globo, in media, pro capite, il reddito annuo è quindi aumentato di 10 volte. 200 anni fa il reddito pro capite dell’uomo medio nel mondo era di 1000 dollari all’anno, due o tre  euro (un hamburger) al giorno.
Inoltre le attività produttive, di tanto moltiplicatesi, negli ultimi 200 anni sono divenute in notevole misura industriali, mentre erano in larga prevalenza agricole in passato. Il peso dell’agricoltura si è fortemente ridotto: il peso relativo, perché il volume della produzione agricola è anch’esso aumentato, pur essa inquinando anche se meno dell’industria.

La quota di produzione facente capo alle attività in senso lato industriali (si pensi alle ciminiere dell’Inghilterra carbonifera di inizio ‘800, posti orribili …) è arrivata in alcuni paesi fra cui il nostro a punte prossime o addirittura superiori al 40% del PIL. Dopo la seconda guerra mondiale, quando l’Inghilterra aveva espresso il massimo sforzo produttivo contro il nazismo, la produzione industriale era pari al 45% del PIL, quasi metà delle attività produttive, il resto essendo poca agricoltura in termini relativi e molto terziario (la finanza, il commercio, i trasporti, le comunicazioni, le attività professionali e quant’altro). Le attività industriali pesavano molto meno, il 10-15% al massimo, nell’Inghilterra del tardo ‘700. Passare dal 10-15 al 30-40% per una componente dell’attività produttiva particolarmente inquinante ha avuto gran rilievo per la questione ambientale.
Quindi non solo c’è stata enorme moltiplicazione della produzione, ma anche la sua composizione è variata.
b) La seconda ragione è connessa con le cosiddette esternalità, in particolare con le esternalità negative.
L’idea generale si deve a un distinto economista del secolo scorso, A.C. Pigou, professore a Cambridge, ed è questa: una economia capitalistica funziona nella misura in cui il mercato, attraverso i prezzi, segnala in modo efficiente costi e ricavi, in particolare alle imprese.
L’impresa, ad esempio, usa lavoro. Il lavoro ha un prezzo, detto salario. Esiste un mercato del lavoro che esprime il prezzo. Se il prezzo salario varia l’impresa ne terrà conto nella scelta dei metodi di produzione, nel decidere quanto e quale tipo di lavoro utilizzare, rispetto al capitale.
Le imprese, producendo, sopportano costi: oltre al costo del lavoro, il costo del capitale, il costo delle materie prime, il costo della terra. Ma infliggono, anche, costi, tra cui i danni che nel produrre infliggono all’ambiente. Sono questi costi/danni inclusi nel conteggio complessivo dei ricavi e dei costi?
Dallo scarto tra ricavi e costi dipende il profitto dell’impresa capitalistica. Il problema delle esternalità negative (non a caso dette esternalità) è che gli oneri che il produrre fa gravare sull’ambiente, che i produttori scaricano all’esterno dell’impresa, non sono inclusi nel calcolo del conto economico aziendale.
La fabbrica che getta i resti delle attività produttive nel fiume provoca danni più o meno gravi a chi vive e lavora nei paraggi. Altro esempio, Taranto. Producendo acciaio, l’ILVA, avrebbe fatto ammalare e persino morire cittadini di Taranto.  Supponiamo vi sia davvero un nesso causale stretto tra il produrre da parte dell’ILVA e i danni alla salute delle persone. I costi meramente economici (prescindendo dai danni meta- economici, i più importanti) di queste attività produttive non sono inclusi dalla società per azioni ILVA nel suo conto economico. Se fossero stati inclusi l’ILVA con la stessa produzione avrebbe spuntato minori profitti e/o  avrebbe ridotto la produzione e/o aumentato i prezzi. Esternalità negativa vuol dire quindi ripercussioni onerose per soggetti terzi, altri rispetto alla impresa che produce e che genera oneri per l’ambiente.
Il punto di fondo, secondo questa analisi, è che il sistema di mercato capitalistico non ha un servofreno, non è dotato di un automatico meccanismo equilibrante che attraverso il calcolo dei costi scoraggi dal gravare sull’ambiente.
Si innesca allora, in questa economia, un perverso meccanismo con il quale lo stesso ordinamento giuridico è chiamato a fare i conti.
In sintesi, si produce molto più che in passato. Lo si fa utilizzando anche fonti di energia fossili particolarmente inquinanti (legna, carbone, petrolio). Non vi sono freni di mercato, anzi. Quindi si generano emissioni di CO2, anidride carbonica pessima per l’ambiente.
Il secondo passaggio in questa perversa catena (siamo, come diceva il professor Satta, fuori dal campo dell’economia, nel campo della fisica, della chimica, dell’ingegneria) è che le emissioni di CO2 tendono a permanere nell’atmosfera, con un fenomeno di concentrazione di sostanze che non si dissolvono.
Secondo Nordhaus quelle che si generano quest’anno permarranno per mezzo secolo. Non le emissioni in quanto tali, ma la loro concentrazione e la loro duratura permanenza determinano il cambiamento climatico. Il cambiamento climatico, e segnatamente il riscaldamento dell’atmosfera, ha ricadute estremamente nocive, di carattere sia ecologico-ambientale, sia economico.
Dall’analisi degli strati di ghiaccio si è accertato che la concentrazione di gas serra c’è sempre stata, ma nel passato anche lontano ha oscillato tra 190 e 290 parti per milione. Solo negli ultimi 50 anni la concentrazione è invece aumentata del 25%, ovvero dello 0,4% l’anno, da 315 a 390 parti per milione.
Per capire cosa vuol dire 0,4% per cento all’anno di una grandezza qualsivoglia che cresce a quel ritmo richiamo la “regola del settanta”, utile a rispondere alla seguente domanda: una “cosa” che cresce dello 0,4% all’anno (siano soldi, inquinamento, grano) in quanti anni raddoppia? La regola è questa: si divide 70 per 0,4. In soli 175 anni, se la concentrazione dei gas serra continuasse costantemente a crescere dello 0,4% l’anno la concentrazione raddoppierebbe, passando da 390 a 800 parti per milione.
L’aumento del 25% della concentrazione ha incrementato la temperatura del globo di un grado (che è moltissimo) in soli 50 anni. Se il fenomeno continuasse linearmente, alla fine di questo secolo, nel 2100, la temperatura del globo salirebbe di altri 2,5 gradi. Quindi dal 1900, nei due secoli, la temperatura salirebbe di 3,5 gradi.
Va rifiutato il catastrofismo. Va respinta la previsione secondo la quale, se questo accade, il mondo finisce (l’ira di Dio). Le previsioni sono nondimeno preoccupanti.
Il livello del mare, da qui a fine secolo, nei prossimi 85 anni, salirebbe da 18 a 60 cm.
Si scioglierebbero i ghiacci, almeno quelli dell’Oceano Artico. Quelli dell’Antartico, pur non scomparendo, si ridurrebbero.
Sarebbe certo l’intensificarsi degli uragani, che diventerebbero anche più variabili, meno prevedibili, in qualunque momento insorgenti.
Oltre all’acidificazione dei mari vi sarebbe meno acqua potabile e minore produzione di cibo su scala mondiale.

Le malattie che con certezza esploderebbero sono la malaria e le febbri intestinali, con centinaia di milioni di morti.
Il 15-20% delle specie animali scomparirebbe.
Si può rimediare? Prospetto due filoni di risposta a questo enorme problema.
Il primo è da … non seguire, indicato da studiosi come Latouche, bravo economista francese. Latouche dice: “Qual è il problema? Da dove nasce? Dalla crescita economica. Produciamo troppo. Bene, produciamo meno e il problema sarà risolto”. Il succo della proposta è questo. Uno dei suoi libri di successo, anche in Italia, è intitolato “Decrescita serena”.
Quindi, non solo occorre smettere di crescere, in termini di produzione e reddito, ma si deve decrescere, tornare indietro, impoverirsi.
A questa proposta possono muoversi almeno due obiezioni.
Il capitalismo è una macchina da crescita, un cavallo brado nato per correre, a cui non si può dire  di non procedere o addirittura di tornare indietro. Questo sistema economico una proposta del genere non l’accetta, la respinge, la rifiuta.
Inoltre questo stesso sistema, meraviglioso per la crescita, oltre a inquinare ha altri due difetti.
È instabile. Si pensi alla crisi finanziaria degli ultimi anni, post-Lehman Brothers. Il sistema può fare inflazione o deflazione, possono fallire le banche, può prevalere la disoccupazione. Nella crisi più grave, quella del 1929, il PIL del mondo cadde del 17% in quattro anni. Keynes, fra i grandi economisti, ha chiarito le ragioni di fondo della instabilità del capitalismo e ha prospettato le linee per correggere questo primo difetto del sistema.
Il secondo difetto è che chi è ricco è molto ricco e chi è povero è, rispetto al ricco, molto povero. Il povero di oggi è molto meno povero del povero di 200 anni fa (al povero di 200 anni fa mezzo hamburger al giorno, al povero di oggi due hamburger al giorno). In termini di distribuzione del reddito e della ricchezza, il sistema è iniquo. Le Nazioni Unite hanno immaginato una coppa di champagne, con un lungo stelo. La coppa, che contiene lo champagne, fa capo al 20% della popolazione mondiale, che “beve” l’80% del reddito del mondo. Al rimanente 80% dei cittadini del mondo va solo lo stelo, la parte stretta del calice, solo il 20% del reddito mondiale.
Allora la domanda diventa: se facciamo decrescere il capitalismo, ammesso che vi si riesca, i due difetti si correggono, si ridimensionano, o si accentuano? Un capitalismo che non cresce, un capitalismo statico, è più instabile o più stabile, è più iniquo o meno iniquo? Io penso che il sistema diventerebbe più instabile e più iniquo, e che solo crescendo l’economia può configurarsi una minore instabilità e una minore sperequazione.
Il secondo filone, da seguire, è quello di una politica correttiva. Fondamentalmente (il richiamo al profilo giuridico è qui evidente) questa a propria volta può battere tre strade, non in alternativa, ma in modo complementare.
La prima strada è quella del divieto di inquinare e dell’obbligo di disinquinare.
La seconda via è quella della tassa: una carbon tax sull’uso delle risorse più inquinanti, confidando che la tassa, più che dare gettito, dissuada i produttori dall’usare le fonti inquinanti. Nordhaus stima che se il prezzo del carbone salisse da 25 dollari a 160 dollari si eviterebbe il grosso dell’inquinamento.
La terza via è quella dei permessi di inquinare.  Si mettono all’asta diritti d’inquinare e l’impresa che ha più bisogno di inquinare per produrre, competendo con altre imprese nel mercato finanziario, domanderà i diritti. Il loro prezzo salirà e ciò dovrebbe dissuadere dall’inquinare oltre livelli critici.
Nel libro Ciocca-Musu molto si insiste sul convincimento che il problema, se è risolvibile, richiede il concorso di 200 paesi, da San Marino alla Cina, dagli Stati Uniti al Lussemburgo. Dopo Kyoto si sono avuti programmi, riunioni, conferenze con ottime intenzioni, ma difficili da realizzare. La dimensione di politica estera, che ha anche delle ricadute giuridiche (penso al diritto europeo), è molto importante.
Bisogna che l’opinione pubblica si convinca che è in gioco, se non la sua sorte, quella delle generazioni future e quindi sostenga i parlamenti e i governi nelle azioni volte a ridimensionare il problema ambientale.

Intervento alla Tavola rotonda sul tema “Ambiente e futuro”, organizzata nell’ambito del Master di II livello in Diritto dell’Ambiente – La Sapienza (19 febbraio 2015). Si è scelto di mantenere il tono colloquiale della lezione.