Semplificare, semplificazione

1. Il lemma “semplice” – come il verbo che genera, semplificare, con il conseguente sostantivo, semplificazione – ha una curiosa natura. Pur essendo al centro di un sistema di azioni volte a migliorare la società, è un aggettivo, non un sostantivo. Già questo è singolare. Ma soprattutto non ha un concreto valore originario, al contrario di quanto accade per ogni parola. Ad es., alimentazione, alimentare, significa fornire alimento, dunque cibo; implica così una serie di attività necessarie per raggiungere questo risultato: dal seminare al raccogliere ad es. un frutto e portarlo al mercato, fino a metterlo su un piatto e masticarlo, secondo la filiera propria del fenomeno “alimentazione”. Così è per ogni parola, ogni verbo: descrivono un soggetto, un oggetto, un’attività umana volta ad un risultato[1] ovvero ad un mutamento degli assetti che ruotano intorno al verbo o alla parola. Un cardine del sistema linguistico sta probabilmente in “facile” e nel suo contrario, “difficile”: il primo esprime il fare; il secondo il dis fare, il non fare.

Ma l’aggettivo “semplice”, il verbo “semplificare”, il sostantivo “semplificazione” che cosa esprimono? Quale fenomeno viene colto con queste parole?
L’etimologia in qualche modo illumina. “Semplice” nasce da “sem” (uno, come in “semel”) e dalla radice sanscrita “plek-” (presente ad es. in “piegare”). “Semplice” è quindi un’entità – qualsiasi entità – , che risponda alla regola di poter essere piegata una volta sola. In questo aggettivo si racchiude così un pensiero profondissimo: non esistono entità predefinite alle quali soltanto possa essere applicato l’aggettivo “semplice”, il rifiuto di piegature. Ha una valenza universale. “Semplice” non è solo una realtà matematica (una retta, una circonferenza), o una realtà fisica, come un tavolo o una lancia. “Semplice” può essere qualsiasi entità, di qualsiasi consistenza, qualsiasi assetto di pensiero che non si pieghi, non si attorcigli o contorca. Nel momento in cui viene piegata, fisicamente o idealmente, questa entità cessa di essere “semplice”. Diviene una componente qualsiasi del mondo. Come cessa di essere “semplice” il caffè quando gli si aggiunga latte o zucchero, così non è “semplice” qualsiasi tipo di fare che, in un dato momento del tempo, venga assoggettato a condizioni o repressioni. È superfluo osservare che “semplice” non ha nulla in comune con “facile”: “facile” è un agire agevolmente percorribile; “semplice” è la caratteristica essenziale di un fenomeno qualsiasi, l’essere lineare, senza pieghe: ciò che in linea di massima è difficilissimo.
È di piana evidenza che questo forte significato di “semplice” non è immediatamente trasferibile nella società sotto forma di un rigido sistema di regole: la sua complessità impone continui adattamenti, continue “pieghe” di originarie linee rette. Altrettanto certo è però che, riferito alla società ed agli individui che la compongono e vi operano, il lemma “semplice” esprima un’incomprimibile esigenza di linearità, di non compressione, di non soggezione a “pieghe”: in altri termini, un’incomprimibile esigenza di libertà. Si comprende così l’impegno, talvolta addirittura lo spasimo, purtroppo spesso inconcludente, che spinge semplici cittadini, uomini e donne di pensiero, politici, a cercare percorsi per “semplificare” il mondo che ci circonda. È una ricerca di libertà che istintivamente trova il suo punto di riferimento nell’aspirazione ad una struttura “semplice” del mondo e della società – lineare, non contorta, non potenzialmente contraddittoria.
È una ricerca correttissima, come è ovvio. Ma come va tentata?

2. Il tema è stato affrontato molte volte, da tutti i governi succedutisi almeno negli ultimi trent’anni, con interventi legislativi mirati ad accorciare, qua e là, il percorso dei procedimenti amministrativi. Qualche miglioramento c’è certamente stato, ma nessun forte risultato è mai stato raggiunto. È paradigmatica la vicenda della l. 8 agosto 1990, n. 241, la prima legge sul procedimento che aspirava ad essere organica. Nella sua versione originaria, apriva il procedimento amministrativo al contraddittorio, senza per altro disciplinarlo se non in termini embrionali. Riconosceva poi il diritto dei cittadini di accedere agli atti delle amministrazioni e ne regolava la tutela giurisdizionale; diceva qualche cosa sulla conferenza di servizi. Nel corso degli anni, il contraddittorio procedimentale si è perso per strada; è cresciuto il peso dell’accesso,  pur con significative resistenze; è dilagata la conferenza di servizi, con procedure di indicibile complessità, al punto da prevedere, in certi casi, l’intervento della presidenza del consiglio; dal 2005 in poi si è introdotta l’idea, di ancora oscuro significato, che le amministrazioni, se non agiscono in veste autoritativa, si valgono degli strumenti del diritto privato.
Non solo. L’affannosa disciplina del procedimento amministrativo, in corsa verso la semplificazione, ha previsto che per molte attività si possa procedere con la sola comunicazione all’amministrazione dell’avvio dell’attività. Sarebbe perfetto, o quasi, se la legge non prevedesse che l’amministrazione può intervenire “a cose fatte”, adottando le opportune misure repressive.
In questa situazione, visto il fallimento del primo passo verso una vera semplificazione – quella che sarebbe derivata dall’attuazione del contraddittorio procedimentale – non è un caso che tutti i governi si siano preoccupati di adottare “leggi di semplificazione”. Certo, alcuni procedimenti sono stati alleggeriti; ma nessuno o quasi nessuno è stato soppresso. “Semplicemente” non se ne è avuto il coraggio. La regola generale che ne risulta è riassumibile in questi termini: ben poco si può fare che non sia stato preventivamente autorizzato o concesso; se capita di restare fuori da questa morsa, si può procedere a condizione che non siano pregiudicati blocchi di interessi pubblici, quali l’ambiente, il paesaggio, la sicurezza etc. etc.[2]. Comunque, su tutto le amministrazioni possono intervenire ex post, repressivamente.
Se così stanno le cose, come in effetti stanno, il problema è molto preciso. È questo: a che cosa mirano i procedimenti amministrativi? Ovvero, al servizio di che cosa sono stati concepiti ed organizzati?

3. La risposta a queste domande può essere data a due livelli. Il primo è lato sensu formale. Un numero n, grande a piacere, di attività in cui i soggetti privati sono coinvolti, è soggetto ad autorizzazione o concessione amministrativa; nel migliore dei casi a previa comunicazione. Come tutti ben sanno, a prescindere dalle forme e dal carattere più o meno stringente di queste concessioni o autorizzazioni, ciò significa che nessuna attività privata di un qualche significato può essere avviata, senza un intervento autorizzativo, preliminare, successivo, eventuale, non rileva. Anche dopo le c.d. liberalizzazioni del Governo Monti di due anni or sono, è pressoché impossibile avviare attività di qualsivoglia specie, senza prima aver ottenuto l’autorizzazione o concessione, espressa o implicita.

La ragione è una ed una sola: il numero degli interessi privati cui è attribuita rilevanza pubblica è sterminato; nella nostra cultura, questa rilevanza impedisce che interessi di tal genere possano essere “abbandonati” ai cittadini. I procedimenti amministrativi sono dunque posti al servizio di autorizzazioni, nulla osta, permessi e concessioni, al cui rilascio è, direttamente o indirettamente, subordinato l’inizio delle attività del privato[3]. Quando non sono richieste autorizzazioni preventive, è sempre possibile un intervento repressivo dell’amministrazione. Il sistema formale è insomma chiaro: i procedimenti servono a garantire all’amministrazione pubblica la possibilità di intervenire, preventivamente o repressivamente, su attività dei privati, che, secondo la legge, devono essere tenute sotto controllo.
Il secondo piano della risposta alla domanda – a che cosa mirino i procedimenti amministrativi – ha carattere sostanziale. Preso atto che il controllo delle attività private esprime l’utilità che hanno i procedimenti amministrativi, ci si deve chiedere perché si ritenga necessario tale controllo. Come è evidente, questa domanda impinge nella sostanza dei rapporti tra Stato e privato; deve chiarire a che cosa serve garantire all’autorità amministrativa la possibilità di intervenire su attività private e quindi perché, in funzione di che cosa, vengono montate le serie procedimentali, strumento per il controllo.
E qui emerge la domanda cruciale: al servizio di quali interessi stanno queste attività che le pubbliche amministrazioni devono poter svolgere nei confronti dei privati?

4. Se si vuole affrontare questo tema senza pregiudizi, il punto di partenza è uno ed uno solo: chiarire la struttura e le radici dell’inverso della semplicità, e quindi della complessità. Complesso è infatti il mondo reale.
Qui non vi possono essere dubbi. Come tutte le società contemporanee, anche la nostra si fonda su un sistema pluriarticolato di libertà, di diritti, di obblighi e di doveri. Portate alla loro essenza, queste situazioni[4], apparentemente antitetiche, hanno un denominatore comune. Sono interessi privati, che hanno raggiunto un livello tale, da meritare una disciplina legislativa. Questo però non è ritenuto sufficiente; la legge potrebbe essere violata. Per prevenire queste violazioni, le attività collegate a questi interessi privati – alla loro gestione – vengono così sottoposte al controllo del potere pubblico, della pubblica amministrazione. In questo modo si consuma un’eterogenesi dei fini: il controllore della gestione degli interessi privati diventa anch’esso titolare di interessi. Si riferiscono al pubblico, naturalmente; ma sono necessariamente costruiti come privati, come interessi del soggetto, dei soggetti pubblici, da contrapporre agli interessi dei cittadini[5].
Il corso dei decenni, con la trasformazione della società inesorabilmente maturata, ha fatto sì che gli interessi più contraddittori emergessero, con prevalenze degli uni sugli altri, a volte razionali ed a volte del tutto irrazionali. Gli interessi dunque non possono esprimersi con la naturalezza che sarebbe loro propria. Non possono essere “semplici”, non possono pretendere di esserlo. Devono misurarsi con altri interessi, devono cedere, flettersi, imporsi e sovrastare. Tipico è il caso dell’ambiente, del paesaggio, dei beni culturali. Comuni a tutti, dovrebbero essere da tutti rispettati. Il fatto che si sia formata una sorta di tradizione, per cui il titolare di un interesse privato cercherebbe sempre di aggirare e scavalcare le norme che disciplinano ambiente, paesaggio, beni culturali etc., ha ispirato e alimentato la spirale perversa, per cui il tutore dell’interesse pubblico deve in ogni modo frenare e soffocare gli interessi privati. Nessuno crede che possa darsi un rispetto volontario delle norme; si può ben dire che addirittura non lo si concepisce.
Discende da qui un preciso criterio metodologico per avviare un’opera di semplificazione. Occorre individuare gli interessi, pubblici e privati, colpiti da problemi di non-semplicità in un campo qualsivoglia. Occorre individuare e separare le funzioni, pubbliche e private, che scaturiscono da questi interessi: l’esperienza insegna, infatti, che funzioni ed interessi tradizionalmente si contrappongono e alleano, così determinando complessità, che spesso appaiono inestricabili. Occorre razionalizzare la struttura di questi interessi ed il loro rapporto. Solo così si può giungere ad un confronto tra loro, seguendo un percorso lineare, che avvicina alla semplicità – e quindi giungere a decisioni, altrettanto lineari.
È opportuno fare qualche esempio. Gli edifici di interesse storico o artistico possono essere – e nei fatti quasi sempre sono – sottoposti a vincolo delle Soprintendenze. Questo significa che nessun intervento, neppure interno, può essere fatto senza autorizzazione della Soprintendenza competente. Nell’esercizio della loro discrezionalità, esse quasi mai autorizzano. In termini generali, il tema è chiaro: bisogna salvaguardare valori architettonici. Nulla quaestio in astratto. Ma in concreto? Come i valori storici ed artistici devono essere salvaguardati, così cittadini hanno il diritto di vivere. Non ogni intervento, non ogni modifica altera il valore storico ed artistico di un edificio. Se si perde di vista questo equilibrio, la norma anziché strumento di tutela diventa strumento di vessazione. Gli interessi entrano in un conflitto mortale, anziché vitale.
L’edilizia è oggetto di legislazione regionale. In regioni povere, in cui c’è una forte fuga dalle campagne, si è pensato di tutelare l’ambiente ed il paesaggio vietando qualsiasi costruzione nelle zone agricole, se non per finalità agricole. L’interesse pubblico è chiaro, ma mal gestito: questa disciplina genera abusivismo edilizio o abbandono, non tutela.

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5. Oggetto specifico di queste note sulla semplificazione sono le infrastrutture e la loro realizzazione. A tali temi bisogna cercare di applicare le considerazioni che precedono.
I problemi che incontra la realizzazione delle infrastrutture in Italia sono facilmente identificabili.
Il primo è “semplice”, per paradossale che possa suonare. Riguarda la localizzazione delle singole infrastrutture e quindi la popolazione dei luoghi in cui dovrebbero essere costruite. Gli acronimi Nimby (not in my back yard), Nimto (not in my term of office) e decine di altri rappresentano con straordinaria chiarezza l’animus aprioristicamente negativo che spesso, spessissimo, accoglie la sola idea di un’infrastruttura. È un conflitto aperto, tra chi la vuole e chi la rifiuta. La linearità delle posizioni è piena. Per affrontare questo tipo di ostilità gli strumenti sono due soli: la forza e la negoziazione. La forza non richiede commenti. Più difficile è la negoziazione, la cui sede classica (e probabilmente ottimale) è il débat publique, cioè la paziente discussione dell’idea e del progetto di massima con le popolazioni. In altri termini, ci si trova di fronte ad un problema politico, che politicamente deve essere affrontato. È evidente che la discussione pubblica può avere successo solo se si è disposti a rimodulare il progetto, rendendolo accettabile.

6. Ma, appena varcata la soglia della localizzazione, le complessità ed i conflitti di interessi striscianti esplodono. Vengono affrontati qui in ordine logico, non temporale, né procedimentale.
Si deve fermare l’attenzione anzitutto sul committente, la pubblica amministrazione. “Pubblica amministrazione” è un’espressione generica, che individua un gran numero di soggetti, organismi e apparati “non-privati”, ma, appunto, pubblici, in termini generali al servizio della collettività. Questi organismi sono profondamente disomogenei. Si va dai comuni con meno di mille abitanti alle metropoli, dagli asili alle Università, dalle comunità montane alle autorità portuali etc. etc.
Nel loro sterminato numero, essi hanno forse due soli elementi in comune. Il primo è che hanno tutti e sempre bisogno di infrastrutture di ogni genere e specie, strade, acquedotti, porti, reti ferroviarie, ospedali. In una società che vive, tutto invecchia, persone e cose; tutto deve essere rinnovato, adeguato a nuove tecnologie. Insomma, occorre sempre in senso lato costruire.
Il secondo – cruciale per il tema di cui qui si tratta – è che sono tutti persone giuridiche. Questo è un dato, di fatto e di diritto, assolutamente pacifico. Significa in concreto che questi enti, persone giuridiche appunto, vivono ed operano attraverso “figure” (usiamo deliberatamente questo termine, del tutto anodino) radicalmente diverse: persone fisiche. È altrettanto pacifico, al punto da passare inosservato – ed inesplorato in profondità nelle sue difficili articolazioni – che Tizio, nato in un tal giorno, residente in un tal luogo, ratione muneris diventa il responsabile di …, l’addetto a … di una data amministrazione: dunque, nell’esercizio della funzione assegnatagli da altre persone fisiche, a loro volta investite di un munus ad hoc, diventa ed esprime o concorre ad esprimere l’amministrazione A, B, o C.
La domanda è chiara: chi, e come, opera e provvede in tema di infrastrutture? Qui esplodono le contraddizioni e la complessità[6].
Lo scopo ideale, da sempre perseguito, di qualsiasi soluzione è che gli amministratori dei soggetti pubblici siano in grado di scegliere il meglio del mercato, al miglior costo. In un certo senso a priori nessuno però si fida degli amministratori, lasciando loro il compito di negoziare, valutare, decidere. Da lunghissimo tempo si segue il principio che, per scegliere il contraente dell’amministrazione, si deve ricorrere a procedure obiettive di valutazione e scelta: selettive insomma. Qui però succede di tutto. Bastino due esempi. Per risparmiare, il codice dei contratti (artt. 90 e segg.) prevede che la progettazione sia fatta in primis dagli uffici tecnici delle amministrazioni. Si confondono dunque i ruoli del controllore e del controllato: se gli uffici tecnici elaborano il progetto, chi lo controlla? Il progetto poi quasi mai è completo ed accurato. Un buon progetto costa, e anche molto. Così, ad un progetto completo spesso si preferisce un progetto sottilmente incompleto, ma anche meno caro. Questo riduce i costi apparenti; ma genera anche la successiva necessità di adottare le c.d. varianti, che hanno il pregio di apparire vicende autonome. Sempre per risparmiare al momento della pianificazione della spesa, nel codice dei contratti pubblici addirittura non sono previste indagini geognostiche preventive. La sorpresa geologica è in Italia quasi una costante; ma la mancata previsione di queste indagini ha anch’essa il “pregio” di spostare in avanti nel tempo una spesa, assolutamente necessaria, ma in qualche modo scomoda.

7. Sono necessarie alcune osservazioni. La prima è che l’interesse dell’amministrazione è  diverso sia da quello dei suoi fornitori e che dei suoi dipendenti[7]. L’amministrazione deve spendere “bene”, non solo “poco”, come è intuitivo (ed è confermato dalla positiva esperienza delle centrali di acquisto). In linea di massima il fornitore cerca di ottenere il prezzo più elevato o comunque per lui più conveniente.
Chi poi in concreto opera per l’amministrazione si trova a dover scegliere il bene “migliore” nell’adempimento di un dovere: categoria oscurissima, perché implica una sorta di identificazione della persona fisica nella persona giuridica, l’amministrazione, ovvero in un essere altro da sé della persona.
In termini idilliaci, chi ha questo compito dovrebbe esserne fiero ed orgoglioso per la fiducia che gli viene accordata. Nei fatti le cose non stanno così. Accanto a chi concepisce il proprio lavoro come una missione c’è sia chi lo svolge solo perché non può farne a meno, sia chi lo fa per approfittarne ed arricchirsi indebitamente. La vita e l’azione delle amministrazioni si sviluppano quindi nella cornice di un potenziale conflitto strutturale e quasi esistenziale: il dipendente dovrebbe “essere” la pubblica amministrazione, e fare proprio l’interesse di questa, quando la natura vuole che anzitutto curi il suo – eventualmente anche in danno dell’amministrazione.
Questo rende la vita difficile, perché tutti i protagonisti – amministrazioni committenti e imprese – sanno che quanto si dice e si scrive, addirittura quanto accade, può non essere vero, nel senso che può avere cause diverse da quelle apparenti. Per reagire a questo, nel nostro Paese si è istituito un sistema complessissimo di controlli, volti a prevenire e reprimere errori e tradimenti. Sembra, ahinoi, che la fiducia reciproca e l’orgoglio di “essere” l’amministrazione che agisce e opera appartengano ad un regno di sogni.

8. La conclusione è univoca. Questa complicata situazione, costituita da interessi contrastanti all’interno del soggetto che dovrebbe essere uno, l’amministrazione committente, ha conseguenze pesantissime. Per come è stata costruita nei decenni essa induce una intrinseca non linearità dei comportamenti e quindi delle decisioni. Quale forza occulta – non necessariamente illecita – ha guidato la scelta (o la non-scelta)? In una situazione generale di questo genere è logicamente impossibile pensare ad un confronto palese e leale tra interessi contrapposti, dell’amministrazione e delle imprese. Nessuno, mai, può sapere se una data scelta discende dalla valutazione del responsabile secondo il criterio enunciato o secondo un altro, taciuto.
In altri termini: in questa situazione, un agire lineare – “semplice” – è logicamente impossibile, perché non si può sapere se e dove il processo decisionale è stato piegato quel tanto che occorreva per raggiungere la scelta x anziché y.

9. Per affrontare questa difficile e frustrante situazione non ci sono molte vie da esplorare. Le amministrazioni in quanto tali possono certamente essere rimodulate secondo parametri diversi, ma, finché si parla di un regime di legalità e non di dittatura, nulla potrà mai cancellare la loro essenza di persone giuridiche. Il loro essere concreto dipende quindi dai loro amministratori e dipendenti. Essi ed essi soltanto possono rendere una data amministrazione una entità efficiente ed affidabile o amorfa ed incontrollabile.
Il personale, dunque, sta al centro del problema. E qui bisogna essere molto chiari: non è possibile, neppure pensabile, che chi lavora per l’amministrazione si assuma le responsabilità e faccia le scelte migliori e le traduca in decisioni se non sente l’orgoglio di rappresentarla, di essere la pubblica amministrazione. Ma questo orgoglio non nasce dal nulla. Nasce dalla consapevolezza di godere di una indiscussa dignità per il fatto di lavorare per l’ente A o B. Il primo passo non può essere fatto che dall’amministrazione e, a monte, dal legislatore: spetta a loro attribuire precise e crescenti responsabilità alle persone che per essa lavorano.
Questa responsabilità, con l’autonomia che la accompagna, può avere un unico tipo di controllo: la totale trasparenza. Nessun atto può essere riservato o visibile ex post. Tutto deve essere accessibile subito – “in tempo reale”, come si dice con un singolare traslato.
In altri termini, si dovrebbe pensare di organizzare diversamente il lavoro di chi si deve occupare di contratti nelle amministrazioni. Fermo restando che il ricorso a procedure selettive per la scelta dei contraenti è prescritto da fonti comunitarie, restano comunque vaste aree entro cui si devono fare valutazioni di opportunità, al servizio della pubblica amministrazione. La responsabilità di queste valutazioni – e quindi la gestione tecnico-amministrativa dei lavori, in tutte le fasi, dalla gara all’esecuzione dovrebbe essere integralmente affidata al personale tecnico ed amministrativo, in funzione dei ruoli da svolgere. Con la regola ferrea di cui si è detto: nulla può essere fatto, detto, scritto, senza che tutti lo possano immediatamente sapere. Senza mille controlli.
Tutto ciò oggi è concretamente fattibile. Da pochi mesi in Italia opera la neo-istituita Autorità Nazionale Anticorruzione. Con un recentissimo provvedimento, ad essa è stato trasferito il personale della soppressa Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici. Essa è così in grado fare moltissimo per prevenire la corruzione – non solo per cercarla e reprimerla. Potrebbe essere suo compito vigilare sul rispetto di questo essenziale valore che è la totale ed immediata trasparenza di qualunque procedimento, di qualunque atto.
Questo potrebbe restituire orgoglio nei dipendenti e fiducia nei cittadini. Se questo si facesse, nell’esercizio delle sue funzioni l’Autorità Anticorruzione avrebbe modo di vedere se il meccanismo funziona. Se funzionasse, la vita delle nostre amministrazioni comincerebbe a cambiare.

10. In questa logica si deve aggiungere qualche cosa di più. Tutti sanno che il rapporto di impiego ed in generale qualunque rapporto organico con le pubbliche amministrazioni soffre di un regime di responsabilità del dipendente e di chi si trova in un rapporto organico con esse che non ha uguali in qualunque altro rapporto organico o di lavoro. L’anomalia sta in ciò che, se, nell’esercizio delle sue funzioni, il dipendente o il titolare di un organo reca un danno all’amministrazione, il danno viene trattato come se fosse recato da un terzo estraneo, alla mo’ dell’art. 2043 cod. civ. Il dipendente, il titolare dell’organo lo deve risarcire integralmente. Non si ammette che qualunque lavoro porti con sé una inevitabile componente di rischio. Giudice di queste cause di lavoro è un giudice speciale; le sue sentenze non sono impugnabili in Cassazione.
Sembra palese – anche se controcorrente – che un sistema di questo genere ha effetti devastanti. Toglie slancio a chi lavora per l’amministrazione; è molto meno pericoloso non fare o fare il minimo possibile. Induce le persone a scelte contorte, che, per paura di conseguenze sfavorevoli, impediscono il dispiegarsi di concorsi di energie.

11. Il disegno complessivo è così chiaro. La materia delle infrastrutture, se così vogliamo chiamarla, si caratterizza per un incredibile concorso di interessi confliggenti. Due sono razionali – “semplici”: quelli dell’amministrazione e del costruttore: concorrono perché si vuole realizzare l’infrastruttura; si contrappongono sul prezzo, sulle varianti, sulle riserve. Gli altri – dei cittadini, dei dipendenti, e, per certi profili, dei costruttori – sono tendenzialmente caotici. Sono caotici quelli dei cittadini che vogliono e non vogliono l’infrastruttura; sono caotici quelli dei dipendenti, che devono volere come se fossero  l’amministrazione, senza esserlo, ma si comportano come se lo fossero quando stipulano contratti illeciti con i costruttori. E possono infine essere da un altro punto di vista caotici quelli dei costruttori, quando negoziano con l’amministrazione per recarle danno.
Tutto ciò deve essere portato a linearità – a semplicità. Poiché quanto si è rappresentato costituisce un assetto strutturale e consolidato, è ragionevole pensare che l’unico modo per cercare di raggiungere il risultato sia demolire la struttura.
Aprire porte, finestre, armadi, casseforti: questa è forse la soluzione.

 Il presente contributo fa parte della raccolta di scritti sul tema “Semplificare è possibile: come le pubbliche amministrazioni potrebbero fare pace con le imprese” – Rapporto 2015 italiadecide, il Mulino.

Note

1.  Prescindiamo qui naturalmente dalle quasi sconvolgenti riflessioni sul fare per un risultato di G. BATAILLE, Teoria della religione, Milano, SE, 1995.

2.  Una breve, ma precisa rappresentazione del cammino non fatto dalla semplificazione è in A. NATALINI, La semplificazione dei mille giorni, in NelMerito 28 luglio 2014.

3.  Non si dica che in molti casi si può iniziare un’attività dopo il decorso di un certo periodo di tempo e che può accadere che nessun pubblico funzionario si occupi dell’attività svolta dal privato. Anzitutto può accadere e rare volte accade; sono comunque casi assolutamente marginali.

4.  La parola “situazione” viene usata in maniera totalmente asettica, per pura comodità e sinteticità di linguaggio, senza alcun riferimento contenutistico (le c.d. situazioni giuridiche soggettive non entrano in gioco in alcun modo).

5.  Solo così si spiega la corruzione: l’esercizio di una funzione in nome dell’interesse pubblico può essere venduto.

6.  Ovviamente non si affronta qui il tema generale del rapporto organico.

7.  Basti dire che è recentissima la norma (comunitaria) che prescrive di determinare il prezzo non in base al solo costo di realizzazione, ma al costo del ciclo vitale del bene.