Riforma delle tariffe elettriche: miglioramenti di efficienza o un altro taglio allo stato sociale?

La prima reazione che la lettura del d.lgs. 102/2014 produce su chiunque sia familiare con le tariffe elettriche in Italia e più in generale con la regolamentazione dei servizi a rete, dei quali il settore energetico è il più importante e quello con maggiore tradizione, è di perplessità se non di stupore. Le ragioni di perplessità sono varie e di diversa natura. Innanzitutto, considerando che il decreto recepisce la direttiva europea 2012/27 “sull’efficienza energetica” può sembrare strano non si parli solo di problemi di efficienza relativamente al nostro paese, ma si utilizzi il decreto per far passare, in maniera quasi inosservata, una vera riforma delle tariffe elettriche domestiche. L’art 1, sulle Finalità recita infatti: “Il presente decreto, in attuazione della direttiva 2012/27/UE e nel rispetto dei criteri fissati dalla legge 6 agosto 2013, n. 96, stabilisce un quadro di misure per la promozione e il miglioramento dell’efficienza energetica che concorrono al conseguimento dell’obiettivo nazionale di risparmio energetico indicato all’articolo 3”. Ma poi aggiunge: “Il presente decreto, inoltre, detta norme finalizzate a rimuovere gli ostacoli sul mercato dell’energia e a superare le carenze del mercato che frenano l’efficienza nella fornitura e negli usi finali dell’energia”. Il lettore cerca di prefigurarsi a quali ostacoli sul mercato dell’energia e a quali carenze che frenano l’efficienza nella fornitura e negli usi finali il decreto si riferisca e trovando questo esercizio alquanto difficile si mette a leggere il decreto con genuina curiosità. Il contenuto degli articoli ha la sua coerenza con la roadmap europea finché si arriva all’art. 11, titolato: Trasformazione, Trasmissione e Distribuzione dell’Energia, e che contiene le risposte alle modalità scelte per rimuovere gli ostacoli e le carenze e non ha niente a che fare con la Direttiva. Al terzo comma dell’articolo 11 è detto con chiarezza: “Con uno o più provvedimenti e con riferimento ai clienti domestici, l’ Autorità per l’energia elettrica e il gas ed i servizi idrici[1], adegua le componenti della tariffa elettrica da essa stessa definite, con l’obiettivo di superare la struttura progressiva rispetto ai consumi e adeguare le predette componenti ai costi del relativo servizio, secondo criteri di gradualità”. Dunque gli ostacoli e le carenze sono rappresentate dalla struttura progressiva delle tariffe? Si direbbe di sì e si direbbe anche che la massima preoccupazione sia di far adeguare le componenti ai costi del servizio con buona pace degli utenti. Così, se non fosse per il cenno ai criteri di gradualità, che incidentalmente svela come vi sia consapevolezza dei mutamenti non banali cui gli utenti vanno incontro, si potrebbe (o piuttosto si dovrebbe?) pensare che la rimozione degli ostacoli tramite la rimozione della progressività sia ovvia e che perciò ci sia ben poco da discutere. Ma così non è, e non solo per la prospettata pesante redistribuzione dei costi dai maggiori consumatori ai piccoli, indesiderabile per motivi sociali e ambientali, perché generalmente maggiori consumi sono associati a redditi più alti e perché non si deve incentivare il consumo bensì perseguire il risparmio energetico come da roadmap europea, ma soprattutto perché non è possibile trovare un valido nesso tra rimozione della progressività e miglioramenti di efficienza nella fornitura e nell’uso (più probabile sia vero il contrario). A ben guardare, la ratio economica della progressività nelle tariffe elettriche per le utenze domestiche (famiglie), ha almeno due robuste motivazioni. Essa è certamente legata allo scopo di disincentivare l’eccesso di consumi (=sprechi) tanto è vero che, ci ricorda la stessa Autorità per l’energia, fu introdotta quarant’anni fa quando le condizioni economiche create dal primo shock petrolifero, ben diverse dalle attuali, richiedevano la limitazione dei consumi. Che le condizioni attuali siano ben diverse è incontestabile[2] ma ciò non vuol dire che oggi si debba consumare più energia di quella strettamente necessaria, a meno che non si vogliano avvantaggiare i produttori. Inoltre, dati gli sforzi veri o dichiarati di perseguire modelli di crescita sostenibile, eliminare meccanismi che frenano l’eccesso di consumo non sembra una buona idea perché tale eccesso riduce la disponibilità per le generazioni future, eccetto il caso in cui, e non è il nostro, l’energia sia prodotta interamente da fonti rinnovabili. Inoltre, e proprio perché l’energia deriva all’80% da fonti fossili inquinanti, è del tutto coerente legare la tariffa al maggior danno prodotto dai maggiori consumi. In sintesi, da un punto di vista ambientale, il fondamento della regolamentazione tariffaria dovrebbe proprio restare il principio del “più consumi più paghi” perché maggior consumo significa maggiori inquinamento e scarsità futura. Analoga coerenza si riscontra da un punto di vista sociale. L’obiettivo della solidarietà sociale non può certo ritenersi un cardine obsoleto di vita civile tanto più che rispetto a quarant’anni fa i tassi di disoccupazione e di diseguaglianza sono ben più alti[3] e dunque il meccanismo della progressività è logico e desiderabile anche per questo motivo. Non mancano studi sull’efficacia delle tariffe progressive rispetto ai due obiettivi (disincentivo all’eccesso di consumo e redistribuzione) e per esempio Dehmel 2011[4], che si concentra su due casi concreti di tariffe progressive molto diverse tra loro, l’Italia e la California, mette in risalto proprio queste loro capacità e si chiede se non sarebbe opportuno introdurle anche in Germania. Ma direi che non ci sia bisogno di insistere su ciò perché gli effetti sono ben noti a tutti e certamente anche all’ Autorità per l’energia la quale infatti, a sostegno dell’art.11, “sposta” il fuoco del discorso sulla circostanza che, con la progressività nelle tariffe, si mettono in pratica “sussidi incrociati” tra gli utenti senza apertamente contestare la progressività né rendere esplicite le ragioni della sua posizione. In effetti, nella consultazione pubblica che essa ha portato avanti e che si è chiusa a metà marzo e sarà seguita da un’altra entro luglio 2015, ha giuocato sui sussidi incrociati e sulla retorica dell’efficienza. Non ha infatti presentato la variabilità delle tariffe al variare del consumo come politica di prezzi discriminati (pratica molto usata nell’offerta degli spettacoli teatrali, concertistici, circensi, ecc.) ma, evidenziando l’effetto sussidio tra gli utenti, ha finito per stimolare una facile reazione anti-redistributiva e a favore del superamento della progressività, rafforzata anche dagli asseriti miglioramenti di efficienza che, ovviamente, nessuno vuole ostacolare. Il tema dei sussidi incrociati non è certo banale e può essere affrontato in un’ottica nazionale e in quella europea. In Italia, com’è noto, uno dei cardini di gestione delle imprese pubbliche dei servizi a rete è sempre stato la discriminazione delle tariffe perché, in condizioni di monopolio, ciò consente di raggiungere l’efficienza ovvero la minimizzazione del costo totale (average cost pricing) oppure di espandere il servizio anche alle categorie di reddito più basse, cioè con disponibilità a pagare ben al disotto del costo medio, coprendo le perdite con l’eccedenza di prezzo praticabile sulle altre categorie. Tutto ciò, può dirsi, poteva essere valido in regime di monopolio pubblico, mentre oggi è superato dalla privatizzazione e liberalizzazione del mercato e ciò potrebbe essere vero se la concorrenza per il mercato avesse funzionato e oggi si fosse lontani dal monopolio (privato) almeno quanto basta per poter considerare il consumatore “protetto” dalle condizioni concorrenziali del mercato.

Peccato che da studi più svariati, che vanno da articoli su riviste dedicate a tesi di dottorato e alle analisi del Gestore del Mercato Elettrico[5], emerga, e non solo grazie al noto Herfindhal-Hirschmann Index, peraltro elaborato allo scopo, ma anche da altri indicatori economici, quanto “potere di mercato” ancora esista e quanto collusivi possano essere i comportamenti degli operatori. In queste circostanze davvero sorprende che il regolatore (l’Autorità per l’energia), che dovrebbe continuare a svolgere la funzione di protezione del consumatore dal gestore con potere di mercato, debba invece assicurare la copertura dei costi in una situazione di consumi ridotti dalla crisi e in uno scenario, quello italiano, nel quale l’elettricità ha un costo per l’utenza, nella migliore delle ipotesi almeno del 20% superiore a quello degli altri paesi europei. Il che è un altro eloquente indicatore di concentrazione del mercato e di quanto poco siano protetti gli utenti/consumatori. Vediamo adesso la posizione dell’Unione Europea rispetto ai sussidi-incrociati. Premesso che l’esatta definizione, e ancor più la misurazione, di questi sussidi non è così scontata[6], ciò che l’UE non accetta sono i sussidi incrociati quando consentono la pratica dei prezzi predatori che allontanano i potenziali concorrenti oppure, come può verificarsi nel caso di imprese integrate verticalmente, e spesso quelle del settore dell’elettricità lo sono, non consente il trasferimento di ciò che si genera nel settore regolato a quello non regolato[7]. Per questo, la Commissione, nell’ottica del mercato interno dell’energia, spinge verso una maggiore liberalizzazione e la legislazione europea già richiede che le società separino le attività di rete (trasmissione, generalmente in monopolio, e distribuzione) dalle altre (generazione e offerta) mentre nessuna menzione è fatta alla questione della progressività tariffaria. Analogamente non ci risulta che l’Agency for the Cooperation of Energy Regulators (ACER) si sia mai occupata della questione. Dunque non esistono “controindicazioni” vere alla progressività delle tariffe: – non sono in contrasto con le scelte energetiche europee, – sono efficaci nel contenere i consumi e perciò coerenti con l’obiettivo di protezione ambientale, – ed attuano una certa equità nella distribuzione dei costi. E se da un lato mancano controindicazioni, dall’altro non si riesce a immaginare come la rimozione possa essere sostenuta sull’argomentazione dei miglioramenti di efficienza. Il superamento della progressività può fondarsi o sulla volontà di far recuperare i costi ai fornitori pur sapendo che dati il potere di mercato e la collusività nei comportamenti, già praticano tariffe finali ben più alte di quelle medie europee oppure sull’obiettivo specifico, non dichiarato, di incentivare l’uso delle pompe di calore (come si vedrà) oppure semplicemente come taglio alla solidarietà. In effetti due appaiono le motivazioni vere, non dichiarate, a sostegno del superamento della progressività. La prima e forse più importante, riguarda proprio la copertura dei costi che in tempi di consumi calati e forse ancora calanti e comunque minori di quelli attesi, è messa in pericolo se il grosso delle entrate viene dalla parte legata ai consumi e tanto più se deriva da tariffe crescenti al crescere di questi e la seconda che si voglia incentivare l’uso dell’elettricità. Per assicurare la copertura dei costi, la rimodulazione delle tariffe dalla parte variabile alla fissa è certamente efficace anche se così facendo si fa ricadere il costo di fornitura più sugli utenti a minor reddito generalmente corrispondenti ai consumi più bassi. Per migliorare l’efficienza nella fornitura, una volta intrapresa la via della privatizzazione, non c’è che da procedere con la liberalizzazione in modo da erodere il potere di mercato delle imprese operanti e rendere davvero credibile l’ingresso di altre. Questo è per esempio ciò che fa l’Unione europea per creare un vero mercato unico integrato dell’energia mentre assicurare la copertura dei costi[8] attraverso aumenti della parte fissa della tariffa per controbilanciare il calo dei consumi, non va certo nella direzione di aumentare la concorrenza, anzi protegge e rafforza gli operatori presenti sul mercato. La seconda motivazione si lega agli indirizzi di politica energetica che attualmente sembrano spirare verso un maggior uso del vettore elettrico che, secondo l’Autorità, sarebbe più idoneo di altre fonti a promuovere sia l’efficienza energetica che la sostenibilità ambientale. E si citano le auto elettriche, le pompe di calore per il riscaldamento e la produzione di acqua calda e magari le piastre per cucinare. Per la verità l’obiettivo sembra proprio quello di incentivare l’installazione negli edifici delle pompe di calore tant’è che già esiste una tariffa dedicata D1 che consente un risparmio dell’ordine del 30% rispetto alla tariffa standard D3 (ovviamente per accedere ad essa, in questa fase sperimentale che durerà fino al 31 dicembre di quest’anno, si devono avere certi requisiti come essere utenti domestici di prima casa, avere il contatore smart ed altro). Dunque l’obiettivo di fare usare più elettricità è chiaro ed anche facilmente rafforzabile con l’argomento ambientale dato che, si sottolinea, è alternativo alle fonti fossili[9]. Se questo è il fine le tariffe proposte dall’ Autorità appaiono ben pensate: favoriscono i grandi consumi di elettricità e assicurano la copertura dei costi grazie all’espansione della componente fissa. Più difficile è individuare la coerenza in termini di rimozione degli ostacoli all’efficienza nella fornitura dell’energia. Infine, un’ultima perplessità. Ma se, come da decreto, l’ Autorità agisce in modo da sostenere l’elettricità e le pompe di calore, non si sta snaturando la sua funzione di regolatore a favore di una vera e propria attività di indirizzo di politica energetica? Può allora sorprendere che l’Autorità sostenga il decreto e che ENEL plauda alla rimozione della progressività come strumento di recupero di efficienza? Autorità ed ENEL escono rafforzati nelle funzioni e nel mercato, rispettivamente. Chi perde sono i piccoli consumatori residenti. La tabella seguente, predisposta dall’Autorità non lascia margini di dubbio anche a prescindere dalla modifica da essa operata, e nella quale non entriamo, nel benchmark di riferimento.

Tabella 1: Effetti a regime (dal 2018) sulla spesa delle Opzioni sui corrispettivi unitari della tariffa

Clienti “benchmark” Oggi (spesa netto tasse) T0 (non differenziata, tariffa di rif.to) T1 (non differenziata, nuova) T2 (differenziaz. in €/kW) T3 (differenziaz. in €/punto)
A: Res.
3kW, 1500 kWh
233 € + 89 € + 106 € + 74 € 71 €
B: Res.
3kW, 2200 kWh
343 € + 86 € + 74 € + 44 € 50 €
C: Res.
3kW, 2700 kWh
438 € + 67 € + 36 € + 5 € 19 €
D: nonRes,
3kW, 900 kWh
260 € – 29 € + 10 € + 129 € 117 €
E: nonRes,
3kW, 4000 kWh
928 € – 225 € – 307 € – 188 € – 155 €
F: Res.
6kW, 6000 kWh
1.528 € – 471 € – 557 € – 618 € – 582 €

Le quattro tariffe alternative T0, T1, T2, T3, predisposte dall’Autorità differiscono tra di loro per variazioni nella distribuzione delle componenti (e nello specifico la T0 prevede l’applicazione della D1 che non è progressiva e la T2 è quella preferita dall’ Autorità) ma, anche senza approfondire i dettagli, tutti gli utenti piccoli cioè con potenza di 3kW e residenti hanno aggravi mentre i non residenti piccoli hanno ugualmente aggravi eccettuata l’alternativa T0. I non residenti e i residenti grandi hanno tutti riduzioni tariffarie. Giustamente i perdenti sono i piccoli consumatori che non hanno voce e sono stati democraticamente (!) coinvolti in una consultazione pubblica piuttosto artefatta nonostante la trasparenza e la completezza di Analisi di impatto della regolazione (AIR), alla quale l’Autorità è peraltro tenuta, riassunta nella tabella 1.

Dopo l’accurata lettura, va detto, le perplessità si sono alquanto rafforzate.

Note

1.  Useremo la forma abbreviata Autorità per l’energia.

2.  E tanto per citarne una rilevante, il prezzo del petrolio è oggi incredibilmente basso e lo è ormai da nove mesi: è intorno ai 50$ al barile dopo aver raggiunto, nel giugno scorso, il livello record di 140$.

3.  Per i tassi di disoccupazione si veda ISTAT; per quelli di disuguaglianza si veda OECD, 2011, Divided We Stand. Why Inequality Keeps Rising?, Paris.

4.  Dehmel C., “Progressive electricity tariffs in Italy and California – prospects and limitations onelectricity savings of domestic customers”, 2011, Transpose working paper, 10, Università di Munster,Social Science Open Access Repository,SSOAR

5.  GME, Annual Report, 2013. Facendo uso dell’indice di concentrazione Herfindhal-Hirschmann per sei zone, rispettivamente, il Nord, il centro-Nord, il centro-Sud, il Sud, la Sicilia e la Sardegna, trova che per nessuna zona l’indice è sotto il valore di 1200 che indica condizioni di mercato sufficientemente concorrenziali (l’indice com’è noto assume valori da 0 a 10000 , rispettivamente corrispondenti a concorrenza e monopolio) anche se il Nord e solo il Nord vi è molto vicino (1285).

6.  Questi temi erano già ben presenti negli anni ’90 quando, consolidantosi il passaggio alle privatizzazioni, emerse la pratica dei sussidi incrociati da parte delle imprese pubbliche a rete. Si veda, per esempio, Heald D.A., Public Policy Towards Cross Subsidy, 1997, Annals of Public and Cooperative Economics, 68:4, p.591-623.

7.  Willems B.,Ehlers E., Marti Fraga V., “Cross-subsidies in the Electricity Sector”, Discussion Paper 2008-03, UNECOM.

8.  E non indaghiamo se siano i minimi o non invece i massimi.

9.  Non si entra nel problema delle rinnovabili, penalizzate dai mutamenti nella legislazione che creano quel clima di incertezza così nocivo agli investimenti anche perché se il vento spira in questa direzione, il modo di far vedere che si pensa anche alle rinnovabili – amiche dell’ambiente – c’è e infatti si sottolinea come il vettore elettrico sia quello maggiormente compatibile ed integrabile con le fonti rinnovabili.