Ma cosa sta succedendo nella “tarda Primavera” del Mondo Arabo?

La situazione nei Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, specie dopo i rivolgimenti degli ultimi 4/5 anni, si presenta particolarmente complicata e difficile da capire. Dopo l’Iraq e la Siria ed il Bahrein, ribellioni e conflitti interni sono diventati endemici nel Sinai egiziano, nello Yemen, nella Libia e, da questo Paese, rischiano di dilagare verso i confinanti Paesi africani. Tutto ciò senza che si sia assistito, in una grande area del mondo che ribolle, a conflitti aperti fra Stati.
Davanti a questa inspiegabile destrutturazione di una vicina regione del mondo ci preoccupiamo – prima ancora della nostra, pur importante, sicurezza energetica – dell’ondata di rifugiati che ha cominciato a lambire anche il nostro Paese, e cerchiamo di capire la reale portata delle minacce terroristiche che ci vengono rivolte con frequenza crescente, in maniera sempre più aggressiva e prepotente.
Ma stentiamo a capire.
Per fare qualche progresso nella comprensione di quello che sta succedendo occorre trovare un bandolo della matassa che ci permetta di farci un’ idea complessiva dei conflitti in corso e delle loro cause, pur non dimenticando che ognuno dei Paesi interessati ha la sua peculiare combinazione di conflitti interni, di carattere politico, economico, etnico, religioso …
Un progresso nella comprensione della situazione complessiva si può fare tenendo conto dei due grandi conflitti che dividono tutti i protagonisti politici della zona: da un lato, il conflitto interno al mondo sunnita che mette in questione la legittimità dei regimi in carica nei principali Paesi del ramo maggioritario dell’Islam; dall’altro, il conflitto storico tra Paesi a maggioranza sunnita e Paesi prevalentemente sciiti, che è oggi una lotta per la supremazia regionale, e riguarda essenzialmente la sfera di influenza e la sicurezza degli Stati che ne sono protagonisti.
Al centro di entrambi i conflitti stanno l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo, ed entrambi sono condotti con metodi non convenzionali, cioè non sono sfociati in guerre aperte tra Stati, almeno per ora.
Il primo dei due conflitti è alimentato dalle preoccupazioni delle famiglie regnanti delle Monarchie del Golfo, in primis quelle dell’Arabia Saudita, che la loro fragile legittimità politica – che peraltro ha origini artificiali ed una storia ancora breve – possa essere messa in discussione dall’avvento in altri vicini Paesi arabi di rivoluzioni democratiche o anche di altri regimi, soprattutto quello dei Fratelli Musulmani o della Turchia, che fondano la propria legittimazione sul processo elettorale. Contro questi pericoli, che le Primavere Arabe minacciavano di concretizzare, i Paesi del Golfo sono intervenuti con l’arma più poderosa di cui dispongono, quella dei finanziamenti e quindi delle “guerre per procura”. Hanno sostenuto il colpo di Stato dei militari egiziani contro i Fratelli Musulmani, giunti appunto al potere con le elezioni, osteggiano Hamas a Gaza, per lo stesso motivo, intervengono in Libia contro le fazioni al potere a Tripoli, appunto perché esse contengono una importante rappresentanza degli odiati Fratelli Musulmani, e nel contempo appoggiano, insieme agli egiziani, la fazione al potere a Tobruk, proprio perché ostile alla stessa Fratellanza.
Non importa che il nemico sia in questo caso musulmano, e che gli alleati, come i generali egiziani, siano invece tendenzialmente laici. Importa soprattutto che questi ultimi collaborino a prevenire la diffusione nell’area della democrazia parlamentare[1].
Ma anche in Siria – dove la Primavera locale era stata innescata da movimenti tendenzialmente laici e democratici – l’intervento e le interferenze dei Paesi del Golfo ha avuto lo stesso segno: hanno finanziato massicciamente al Nusra, il ramo locale di al Qaeda, consentendole di prendere il sopravvento politico e militare sulle opposizione laico/democratiche con il risultato che – se e quando il regime di Assad dovesse cadere – la Siria non potrebbe evolvere verso la democrazia, ma diventerebbe piuttosto uno Stato controllato da estremisti religiosi.
Ma nel caso della Siria emerge con prepotenza il secondo dei conflitti che citavo poc’anzi, quello tra mondo sunnita e mondo sciita. Per capirne le motivazioni bisogna prendere in considerazione le conseguenze geopolitiche della seconda guerra del Golfo. Al termine della prima guerra del Golfo (1991) il Presidente George H.W. Bush (padre), dopo aver espulso l’esercito iracheno dal Kuwait, aveva prudentemente evitato di rovesciare il regime di Saddam Hussein. Dodici anni dopo suo figlio, il Presidente George W. Bush – mosso forse da uno sciagurato complesso di Edipo – ritenne invece utile debellare il dittatore iracheno ed il suo regime nel quadro di un tentativo di democratizzare l’Iraq. Il risultato del processo elettorale è stato quello di portare al potere a Bagdad la maggioranza sciita della popolazione, che fino ad allora era stata emarginata e repressa dalla minoranza sunnita cui apparteneva il dittatore. Al netto del mancato raggiungimento della democrazia, le conseguenze sugli equilibri politici regionali sono state molto diverse da quanto ci si poteva aspettare a Washington e molto preoccupanti per l’Arabia Saudita. Il governo sciita dell’Iraq è infatti rapidamente caduto sotto l’influenza dell’altra confinante potenza sciita, l’Iran degli ayatollah, nemico storico sia degli Stati Uniti che dei Paesi del Golfo.
Si è quindi creato nel cuore del mondo arabo un blocco sciita che oltre all’Iran e l’Iraq comprende la Siria, governata dal clan alawita degli Assad, ed il Libano dove predomina la milizia sciita degli Hezbollah (ved. Fig. in calce). È un blocco che va dalle coste mediterranee della Siria e del Libano fino ai confini dell’Iran con l’Afghanistan, abitato da 135 milioni di persone, che comprende due dei Paesi con le maggiori riserve petrolifere del mondo (Iran ed Iraq), una potenziale potenza nucleare (l’Iran), e, sul piano simbolico, le due capitali dei Califfati dell’epoca d’oro del mondo arabo/musulmano: Badgad e Damasco, il cuore dell’identità araba.
Questa importante novità sul piano geopolitico regionale è stata inevitabilmente percepita come una minaccia mortale da parte dell’Arabia Saudita e della maggior parte delle monarchie del Golfo, anche perché quasi tutte hanno al loro interno delle importanti minoranze sciite (nel caso del Bahrein una maggioranza), potenziali quinte colonne di una possibile azione di sovversione.
L’appoggio che alcuni Paesi del Golfo, indubitabilmente, hanno in una prima fase dato all’ISIS si spiega in questi termini. L’ISIS occupando larga parte della Siria orientale e dell’Iraq nord-occidentale ha tagliato in due il blocco sciita, interrompendo sostanzialmente le comunicazioni tra Badgad e Damasco, e rendendo molto più difficile l’appoggio iraniano al regime di Assad in Siria.

L’Iran, da parte sua, non è rimasto inerte davanti alla pressione del mondo sunnita.
In Siria, insieme all’Hezbollah libanese, sostiene attivamente il regime di Assad. Interviene direttamente in Iran contro l’ISIS, proteggendo Bagdad ed i luoghi santi sciiti contro le milizie del Califfato. È intervenuto in Yemen, sostenendo la rivolta degli Houthi (anch’essi sciiti), e quindi creando per l’Arabia Saudita un secondo fronte sul suo versante occidentale. Sostiene certamente i ribelli del Sinai egiziano, Hamas in Palestina (nonostante Hamas sia sunnita) e alcune delle forze che controllano Tripoli in Libia[2].
È interessante notare come anche l’Isis sia “figlio” della seconda guerra del Golfo. Molti dei suoi leader, a cominciare dall’autoproclamato Califfo Abu Bakr al Baghdadi, sono stati nella famigerata prigione americana di Abu Ghraib, dove si sono radicalizzati. Molti dei suoi quadri militari sono ufficiali sunniti dell’ottimo esercito di Saddam Hussein, epurati dagli americani, che ora hanno portato le loro competenze al servizio di un movimento estremista che rivendica le ragioni dei sunniti iracheni e siriani. Questi sono i quadri – politici e militari – che organizzano le decine di migliaia di volontari musulmani che arrivano da tutte le parti del mondo, affascinati dalla prospettiva di una rinascita del mitico Califfato. Una prospettiva probabilmente illusoria, ma che nondimeno ha un potere di attrazione straordinariamente forte.
Che l’ISIS sia un mostro poi sfuggito agli apprendisti stregoni che lo hanno creato è un’altra storia. L’ISIS infatti, oltre a combattere gli alleati sciiti dell’Iran (come già faceva al Qaeda, da cui si è scisso), ha introdotto una novità politica di grande rilievo: mette in discussione la legittimità, non dei Governi, ma degli stessi Stati arabi della regione e delle loro frontiere artificiali di origine coloniale. Dell’Iraq, della Siria e del Libano, che sono stati creati da Gran Bretagna e Francia con l’accordo segreto Sykes Picot del 1916, e dell’Arabia Saudita e delle altre monarchie del Golfo, che sono creazioni della Gran Bretagna nei primi decenni del secolo scorso. L’ISIS aspira a cancellare i confini delle attuali realtà statali per creare un Califfato che riunisca tutte le masse sunnite dell’area. Può darsi che sul piano militare l’ondata dell’ISIS, già oggi contenuta, possa essere respinta o molto ridotta. Ma, sul piano politico, la sfida è di grande portata, soprattutto per la vasta risonanza che ha avuto in tutto il mondo arabo: lo abbiamo visto anche con le numerose adesioni all’ISIS che sono venute da altri movimenti islamisti preesistenti in Yemen, in Libia, nel Sinai egiziano, fino alla Nigeria di Boko Haram.
Altra protagonista – e corresponsabile del profondo disordine dell’area – è la Turchia. Paese sunnita ma sostenitore dei Fratelli musulmani, è ostile all’Iran a causa del suo schieramento religioso, ma anche dell’Arabia Saudita in quanto campione di un islamismo a base elettorale, che del resto legittima il Presidente Erdogan nel suo Paese.
Il suo ruolo è a dir poco ambiguo, sia per la tolleranza che ha mostrato troppe volte verso l’ISIS, sia ad esempio per il suo schierarsi a favore delle forze islamiste in Libia.
Su tutto questo disordine aleggia l’annoso negoziato sul nucleare iraniano condotto dagli Stati Uniti, affiancati da Gran Bretagna, Francia, Germania ed Unione Europea, il cui termine è stato stabilito in via di principio per la fine del prossimo mese di marzo (e a giugno per i dettagli tecnici). Se il complicato negoziato andasse in porto – superando le resistenze degli ambienti conservatori delle due parti, e la decisa ostilità del Presidente israeliano Benjamin Netanyahu – si potrebbe avviare una graduale distensione tra Iran, Arabia Saudita, Turchia ed i loro vari clienti regionali.
Stati Uniti e Iran, nonostante i decenni di aperta ostilità, sono già oggi obiettivamente alleati nella lotta contro l’ISIS. Entrambi appoggiano l’esercito iracheno, entrambi hanno militari in campo, entrambi bombardano obiettivi del Califfato. Tutte azioni che comportano certamente oggi un coordinamento sul terreno, di cui nessuno per ora si vanta.
Se un accordo sul nucleare contenesse garanzie di sicurezza sia per l’Iran che per l’Arabia Saudita, si potrebbero mettere le basi per un negoziato sul futuro politico delle aree sunnite dell’Iraq e della Siria. Solo a queste condizioni avrebbe senso una azione militare per debellare l’ISIS, la cui forza militare è probabilmente molto più ridotta di quanto a prima vista non sembri, ma la cui narrazione ideologica permane fortissima.
Senza interferenze esterne diventerebbe possibile affrontare, anche in Yemen ed in Libia e nelle altre zone di tensione, le radici locali dei conflitti, attualmente oscurate dalla competizione e dalle interferenze delle potenze regionali.
L’alternativa – cioè il fallimento del negoziato e il raggiungimento da parte dell’Iran dello stato di potenza nucleare militare – è quasi impensabile. Significherebbe l’avvio di una corsa nucleare in tutta la regione, che porterebbe allo status nucleare prima l’Arabia Saudita, poi probabilmente la Turchia e l’Egitto. E ciò nel quadro di una esasperata conflittualità nella quale ogni regime avrebbe da temere per la sua sopravvivenza.

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Da questa breve carrellata emergono alcune constatazioni:
– ci troviamo oggi davanti conflitti tra arabi. Arabi sono i combattenti, le centinaia di migliaia di vittime, i milioni di rifugiati e tutti i territori in cui si svolge la contesa;
– il principale motore dei conflitti è politico, sia che si tratti della difesa della propria legittimazione politica sia del predominio a livello regionale;
– non ci troviamo (almeno per ora) davanti ai classici scontri militari tra Stati, ma a una miriade di conflitti interni tra etnie, gruppi religiosi, istanze politiche ed economiche, sostenuti – e in qualche caso promossi – da interventi esterni[3];
– la religione non svolge un ruolo propulsore, ma è solamente un fatto identitario che serve a “segnare” le comunità amiche e nemiche;
– non si parla più del conflitto israelo-palestinese, che pur rimane irrisolto con tutto il suo carico di pericoli, di paure e di pericolose tensioni;
– non si riscontra, a livello geopolitico, lo “scontro di civiltà”, che si può invece leggere a tutt’altro livello.
Viene infatti da chiedersi perché centinaia di milioni di arabi cerchino un rifugio esistenziale nell’Islam, decine di milioni siano simpatizzanti delle sue forme più estremiste, molti i loro attivi sostenitori, e perché alcuni (neanche tanto pochi) siano disposti ad arrivare al “martirio” personale o a commettere le più efferate atrocità. Qui emerge il tema del fallito rapporto del mondo arabo con la modernità di stampo occidentale, con tutto il suo pesante carico di delusioni, di frustrazioni e di complessi. Lo “scontro di civiltà” esiste a questo livello, rimane per ora largamente inespresso, assorbito com’è dalla conflittualità inter-araba. Ma potrebbe riemergere con forza in futuro, ed avvelenare i pozzi per lungo tempo a venire.
Ma il tema è vasto e merita probabilmente una trattazione separata.

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Note

1.  Non sfugge che, nel caso della Libia, le interferenze dei Paesi del Golfo precludano proprio quell’accordo tra i gruppi politici di Tripoli e di Tobruk che la Comunità Internazionale vede come premessa indispensabile per stabilizzare il Paese, e condizione indispensabile per un intervento anche militare dall’esterno.

2.  Le conseguenze di questi schieramenti sono spesso kafkiane, almeno per gli attori esterni alla regione. In Iraq le aviazioni di Stati Uniti e Iran bombardano gli stessi obiettivi dell’ISIS, in Yemen sia gli Stati Uniti che l’Iran combattono al Qaeda, in Siria sia gli Stati Uniti che Hezbollah combattono l’ISIS …

3.  Questa circostanza testimonia la scarsa rilevanza delle strutture statuali arabe rispetto alle soggiacenti strutture delle rispettive società (spesso tribali, ma anche etniche e/o religiose).