Il modello italiano di intermediazione finanziaria

Il senso di questo intervento è di interrogarsi sull’apporto che banca e finanza possono dare al superamento del disastro economico italiano.
L’economia italiana patisce improduttività e recessione. La produttività scema, o stenta, da vent’anni. La domanda globale è crollata, del 10%, dal 2007.
La produttività – in specie manifatturiera – si è spenta non nei lavoratori, ma nella componente innovazione e progresso tecnico. Nel 1992-2013 gli investimenti in macchinari, impianti, mezzi di trasporto sono saliti all’8,6% del Pil, dal 7% del 1970-1991. Ma quelli privati in R&D non sono andati oltre lo 0,5% del Pil; si è speso poco in capitale umano e ICT; si è brevettato poco; la qualità dei prodotti è scaduta.
Nel 2008-2009 il taglio della domanda è dipeso dalla scarsa produttività e quindi dalla non competitività delle esportazioni italiane di manufatti e dalla conseguente caduta degli investimenti, nel contesto della crisi finanziaria anglosassone e della recessione del commercio mondiale di allora. Nel 2011-2014 il taglio della domanda è invece dipeso dalla politica fiscale assurdamente restrittiva del governo Monti, a cui è seguito il crollo dei consumi e quello degli investimenti, compensato solo in parte dalla flessione delle importazioni.
Sia lo smottamento della produttività di trend sia la contrazione della domanda nell’intero periodo 2008-2014 sono quindi dovuti a forze di natura strettamente “reale”, non finanziaria. Banca e finanza non hanno colpe, questa volta. L’Italia ha subìto la recessione più acuta fra i principali paesi, sebbene il suo sistema bancario e finanziario non sia stato coinvolto nel crac della finanza anglosassone.
Resta che la produttività non accenna a migliorare e che dalla più profonda e lunga recessione della sua storia l’economia italiana non esce.
Cosa ci si può attendere, in positivo, dalla industria finanziaria, da banche, altri intermediari, mercati?
Provo ad abbozzare una risposta, movendo da un duplice presupposto. Il sistema finanziario italiano è morfologicamente adeguato. Inoltre, il sistema ha attraversato la più dura delle recessioni conservando solidità.
Nella recessione, le banche italiane hanno accusato sofferenze, calo di redditività, bassa raccolta, ricorso alla BCE fondato su titoli di Stato. E tuttavia patrimonialmente hanno tenuto. Valgano le parole pronunciate dal Governatore Visco alla Giornata del risparmio, il 31 ottobre scorso: “Gli aumenti di capitale realizzati fra il gennaio e il settembre del 2014 (…) consentono a tutte le banche italiane di superare la soglia dell’8 per cento stabilita per l’analisi di qualità degli attivi. Se si tiene conto delle altre misure di rafforzamento patrimoniale già decise nel 2014, la carenza di capitale connessa con il realizzarsi dello scenario avverso dello stress test si riduce a 2,9 miliardi (lo 0,2 per cento del Pil) e interessa due banche (…), le cui difficoltà sono in ampia misura l’eredità di episodi passati di mala gestio (…). Le due banche presenteranno a breve piani di rafforzamento”. Va sottolineato che lo stress test europeo muove da ipotesi davvero sfavorevoli e improbabili, di ulteriore caduta del Pil italiano del 3% nel 2015-2016 e di risalita dei tassi sui BTP in prossimità del 6%, come nello scorcio del 2011.
La solidità delle banche è una precondizione basilare. Non meno rilevante, tuttavia, è il primo aspetto: l’adeguatezza strutturale del sistema finanziario. Tra il 1980 e il nuovo millennio il sistema ha compiuto quella che in un libro apparso ormai nel 2000 – “La nuova finanza in Italia” – definii “difficile metamorfosi”. Pongo ora l’accento sul sostantivo (“metamorfosi”), piuttosto che sull’aggettivo (“difficile”). Oltre a una rispettabile crescita dei volumi intermediati – che portò il loro rapporto con la ricchezza reale a superare l’unità – la finanza italiana realizzò in quel ventennio almeno sette profondi mutamenti, modernizzandosi. Mi limito a richiamarli:
1)    maggior ruolo dei mercati, divenuti efficienti;
2)    più operatori, più modalità organizzative, più strumenti finanziari;
3)    più privato e meno pubblico;
4)    apertura internazionale;
5)    funzionale sistema dei pagamenti;
6)    risparmio anche delegato;
7)    derivati (con moderazione).
Questi sviluppi si sono consolidati negli ultimi 10-15 anni, con l’eccezione, non trascurabile, delle obbligazioni emesse dalle imprese. Grazie a questi progressi, il rallentamento tendenziale del Pil pro capite è stato meno grave di quanto sarebbe avvenuto se il sistema fosse rimasto quello disegnato da Menichella e perfezionato da Carli. Negli assetti, l’industria finanziaria italiana è oggi analoga a quella delle economie avanzate. Non si richiede un’ulteriore vasta riforma delle sue strutture fondamentali. Cruciali sono i comportamenti, le scelte, gli attributi di chi offre, ma anche di chi richiede, servizi bancari e finanziari.
Dal lato della domanda di tali servizi tutto dipenderà dalla capacità dei richiedenti – imprese, famiglie, P.A. – di fare l’uso migliore delle opportunità rese disponibili dalla finanza nazionale, ma anche da quella internazionale, a cui la clientela italiana ha libero accesso. Ciò è sinora avvenuto solo in parte. Il caso limite è quello delle imprese, meno di 300 delle quali si quotano su una Borsa che oggi è molto meglio funzionante di ieri, e tuttavia capitalizza a mala pena 1/3 del Pil (la metà di Francia e Germania).
Dal lato dell’offerta dei servizi finanziari le banche restano cruciali. Forniscono due terzi dello stock di crediti ricevuti da imprese e famiglie e i loro depositi e obbligazioni rappresentano un terzo del portafoglio delle famiglie. Ma il nostro incontro, opportunamente, non si limita alle banche, vuole interrogarsi sulla idoneità dell’intero settore finanziario a contribuire alla fuoruscita dalla recessione e alla produttività totale dei fattori nell’economia italiana.
Le due questioni vanno distintamente considerate.
Personalmente dubito che la finanza possa farsi carico del rilancio della domanda globale, per la fuoruscita dalla recessione. Solo una politica fiscale fortemente espansiva può riuscirvi. Nel 2014 i tassi d’interesse nominali – quelli sui prestiti bancari in particolare – sono scesi, ma i mezzi finanziari – fra cui i prestiti bancari – affluiti al settore privato hanno continuato a ridursi. Il limite è nella debolezza della richiesta di fondi, più che nella restrizione della loro offerta. Se la politica fiscale rimetterà in moto consumi e investimenti, la domanda di fondi aumenterà e troverà soddisfazione.

La politica monetaria di tassi a breve pressoché nulli in termini nominali e soprattutto di decisa espansione della liquidità tanto spesso evocata dalla Bce va attuata. Ma non basterà. Dovrà essere il complemento di investimenti pubblici finalmente volti a combattere ristagno e deflazione nell’intera economia dell’Eurozona e in modo particolare in Italia, dove si muore per pioggia. Il quantitative easing dovrà fiancheggiare investimenti pubblici, taglio di spese correnti e detassazione, rimuovendo ogni vincolo finanziario alla ripresa di consumi e investimenti.
La finanza, le banche soprattutto, possono invece contribuire notevolmente al rilancio della produttività. Possono farlo almeno per due vie.
La prima via consiste nel favorire la crescita dimensionale delle imprese. Le economie di scala vi sono, eccome. Le imprese italiane, da sempre piccole, con moto perverso lo diventano sempre più. Il Censimento del 2011 ha registrato una dimensione media scesa a 3,7 addetti, il 60% dei 4,5 milioni di aziende con un solo addetto, il 90% con meno di 10 addetti. Nella stessa manifattura presso le aziende con meno di 10 dipendenti il valore aggiunto per addetto è metà della media nazionale e nel confronto europeo con le imprese di eguale dimensione non arriva al 50% del livello inglese, al 60% di quello francese, al 75% di quello tedesco. L’opposto si riscontra per le aziende manifatturiere italiane di media dimensione, con addetti compresi fra 50 e 250: la loro produttività supera del 25% la media nazionale del settore e del 15 per cento quella delle imprese di simile dimensione in Francia, Germania, Regno Unito. Salire dalla minima alla media dimensione sarebbe prezioso.
La seconda via consiste nel porre la produttività dell’impresa da finanziare al primo posto nella valutazione del suo merito di credito. Flussi di cassa, utili realizzati e attesi, patrimonio netto, capacità di servire il debito – i profili aziendali a cui i finanziatori e in particolare le banche tradizionalmente guardano – sono a propria volta dipendenti dalla produttività dell’azienda che chiede fondi. Nel contesto italiano presente e futuro dipendono e dipenderanno sempre più dalla capacità/propensione dell’impresa nell’innalzare, oltre alla dimensione aziendale, investimenti in ICT e in R&D, innovazione, qualità del prodotto. Solo il profitto da produttività è solido, tale da garantire alla banca il rimborso del fido e l’interesse.
Il cosiddetto “residuo” – il progresso tecnico – spiega la più gran parte della crescita moderna della “ricchezza delle nazioni”. Le banche e le altre istituzioni finanziarie del Paese devono capirlo. Devono porre il nesso fra crescita dimensionale e produttività delle aziende minori al centro delle loro valutazioni e delle loro scelte. Possono influire, perché queste imprese sono ampiamente dipendenti dalla finanza esterna, bancaria e non bancaria.
Vi è, infine, la questione della grande impresa.
I gruppi manifatturieri italiani di grande dimensione sono relativamente pochi, solo una decina con più di 15mila addetti. È stata mancata l’occasione delle privatizzazioni per concentrare e irrobustire la zona alta della nostra industria. La produttività di tali gruppi è più elevata di quella delle imprese medie e piccole, ma in Europa è inferiore del 10/15 per cento nel confronto con le conglomerate inglesi e tedesche. Una delle ragioni è che i gruppi italiani restano operanti in settori che non sono più alla frontiera dell’innovazione e del progresso tecnico: mezzi di trasporto e pneumatici, cioccolatini e spaghetti, cemento, occhialeria, abbigliamento di massa unito a servizi autostradali. Una diversificazione sarebbe auspicabile, anche quando tali attività risultassero tuttora profittevoli. L’iniziativa non può che muovere da quegli stessi gruppi, dai loro azionisti e amministratori. La finanza può svolgere una funzione, se non d’iniziativa, quantomeno di supporto, comunque da non sottovalutare.

Intervento al convegno “Il modello italiano di intermediazione finanziaria. Specificità, eredità e futuro”, tenutosi a Firenze il 28 novembre 2014. (Scarica la locandina)