La solitudine dell’interesse legittimo: un percorso lungo un secolo

Oggi, più che approfondire la natura sostanziale dell’interesse legittimo, è opportuno esaminare quest’ultimo come situazione immediatamente riconosciuta e tutelata dall’ordinamento giuridico e individuare, semmai, la sua mutevole essenza e la attitudine ad adeguarsi ad ogni situazione nel corso dei decenni, riuscendo a coprire ogni situazione giuridica, potenzialmente meritevole di tutela.
Occorre, tuttavia, partire dalla sua moderna definizione: situazione giuridica sostanziale direttamente riconosciuta dall’ordinamento giuridico, che si sostanzia nella attribuzione di facoltà attivabili, sia in sede procedimentale che in sede processuale, al fine di condizionare l’esercizio del potere pubblico per la tutela dell’interesse sostanziale al conseguimento e alla protezione di un bene della vita[1].
In origine, l’interesse legittimo nasceva orfano di un diritto processuale proprio, dando origine ad un peculiare rapporto di connessione tra istituti sostanziali e relative forme e tecniche di tutela. Una realtà autoreferenziale che si è avvalsa di una giurisprudenza fervida ed irrequieta, che ha sempre posto l’accento sulle criticità della sua giurisdizione.
Così, in questa definizione, si racchiude un secolo di battaglie e di interventi legislativi; ripercorrerli brevemente contribuirà a dare volto e dignità, sempre nuovi, all’interesse legittimo.
Il bisogno di tutela dell’amministrato nei confronti della Pubblica Amministrazione non è stato un principio sempre immanente nel nostro ordinamento. Il legislatore post-unitario dimostrò con forza, di voler dettare una serie di “guarentigie dell’amministrazione nei confronti del potere giudiziario”[2], inaugurando con la Legge Abolitiva del contenzioso, la strada della giustiziabilità degli interessi legittimi con il semplice ricorso amministrativo: come dire, una giustizia in casa dell’accusato. L’art. 3 della LAC, infatti, stabiliva che “gli affari non compresi nell’articolo precedente saranno attribuiti alla autorità amministrativa”.
Tuttavia la radicata cultura e la sensibilità giuridica che, nonostante tutto, hanno connotato la storia legislativa del nostro paese, non tardarono a registrare il vuoto di tutela. Si optò, quindi, per la creazione di un giudice deputato alla cognizione degli interessi legittimi con la legge Crispi del 1889, istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato.
Si realizza, così, il sistema dicotomico necessariamente accompagnato dal riparto di giurisdizione tra il G.A., definitivamente giudice degli interessi legittimi e G.O., giudice dei diritti soggettivi.
Il percorso viene arricchito e rafforzato dall’accoglimento e la enunciazione sul piano costituzionale dell’organigramma giurisdizionale, così come ereditato dall’ordinamento pre-repubblicano. La sconfitta di Calamandrei col suo accorato discorso in sede costituente sulla unicità della giurisdizione e la timida vittoria di Mortati, fanno nascere l’articolo 103 della Costituzione italiana “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi”.
In realtà, le due supreme giurisdizioni già avevano trovato un degno compromesso con il famoso accordo tra i presidenti Romano e D’Amelio del 1930, in cui prevalse il concetto della causa petendi: per determinare la giurisdizione, si ebbe cura di distinguere tra il tipo di provvedimento richiesto al giudice e la situazione giuridica di cui si chiede tutela.
La semplicità della soluzione si scontrò subito con la difficoltà di discernere, specie per determinate materie, all’interno di una stessa controversia le questioni aventi ad oggetto l’una o l’altra situazione soggettiva, per cui già il legislatore del 1923 (art. 8 del R. D. 30/12/1923 n. 2840) istituì, per determinate materie, la giurisdizione esclusiva, diretta a concentrare presso il giudice amministrativo tutte le controversie, senza distinguere tra diritti soggettivi ed interessi legittimi. È però da segnalare che, nonostante ciò, veniva comunque fatta salva (art. 9 del R.D. n. 2840 cit. e 30 T.U. Del 1924) la competenza del giudice ordinario per le questioni “attinenti a diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di legittimità dell’atto o del provvedimento contro cui si ricorre”: il che significava per tutte le controversie aventi carattere risarcitorio. Un doppio binario che portò con sé il seme della discordia.
Tutto il diritto amministrativo futuro ha subito questa pesante preclusione: quello di un interesse giuridico figlio di un Dio minore, di un giudice con una giurisdizione monca, perché limitata alla sola tutela demolitoria del provvedimento illegittimo e la pesante negazione di una sanzione patrimoniale significativa, come quella risarcitoria, per i danni cagionati dal provvedimento illegittimo.
Le ragioni ostative rappresentavano la conseguenza logica di una serie di principi ormai consolidati. In primis il sindacato debole del giudice amministrativo si fondava sulla natura del giudizio, che si assestava sulla semplice verifica esterna di legittimità del provvedimento (spesso prodotto scadente della azione amministrativa), in una giurisdizione di legittimità asfittica, perché storicamente deputata alla sola tutela degli interessi oppositivi, in cui l’eliminazione del provvedimento chiudeva la materia del contendere. In secundis, un sindacato sul rapporto nella giurisdizione esclusiva, tuttavia impoverito da una secolare interpretazione della norma sul risarcimento (art. 2043 c.c.) come forma ancillare di tutela dei diritti soggettivi altrove sanciti. Questa la situazione, tutta italiana, in cui si concepiva un rapporto con la P.A, diverso da quello successivo alla nascita ufficiale di un diritto comunitario prima ed “unionale” europeo poi, oggi ulteriormente arricchito da un “diritto sentinella”; ovvero l’ingresso prepotente della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che non tollera più una cartina dei diritti “a macchia di leopardo”.
La legislazione fiume si apre con la legge sul procedimento amministrativo (L. 241/1990), passando attraverso la L.205/2000, il codice dei contratti pubblici, per culminare nella tanto attesa introduzione di un codice del processo amministrativo licenziato con il D.lgs 104/2010 e successivi correttivi. Tutto questo a significare quanto forte sia stata l’attitudine del diritto comunitario a condizionare, ed in alcuni casi ad imporre, radicali ripensamenti di principi ed istituti del diritto amministrativo sostanziale e processuale.

La fonte, se non la causa, di tanto fervore normativo, risultò essere la dimidiata tutela della posizione di interesse legittimo avverso l’esercizio del potere pubblico, evidente nella materia degli appalti pubblici e velata in tutte le altre ipotesi in cui si dovesse disquisire di interessi pretensivi, in quel rapporto squisitamente dinamico in cui la P.A. non scalfisce il patrimonio dell’interessato, ma lo arricchisce dell’utilità cui lo stesso interessato aspira, attraverso il rilascio di un provvedimento amministrativo ampliativo.
In sintesi, quid iuris se il cittadino non ottiene il bene della vita anelato e, soprattutto se l’interesse legittimo risulta correlato all’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito quale la libertà di iniziativa economica privata in un mercato rigorosamente concorrenziale?
Innegabile che il fenomeno della c.d. degradazione del diritto ad interesse non può essere inteso come degradazione della sua tutela e, soprattutto non può essere lasciato solo ed in balìa dei flebili doveri di legittimità della P.A. Tutte le volte in cui la P.A. è depositaria del potere di emanare un provvedimento ampliativo, ad esempio in caso di affidamento di un appalto, essa è parte di un rapporto non equiordinato. Il suo potere di supremazia, allora, si misura con i parametri comunitari di rispetto delle prerogative di libertà ed efficienza del mercato.
Ecco, allora, che l’attività della P.A. non è più banalmente riducibile ad una summa di poteri e facoltà procedimentali tesa ad ottenere il provvedimento favorevole, ma si sostanzia nella legittima pretesa alla conservazione della situazione giuridica di base rispetto all’azione amministrativa reputata illegittima (interesse oppositivo) o nella legittima pretesa di esaltazione della situazione giuridica di base (interesse pretensivo)[3].
La datata considerazione che la tutela dell’interessato transiti attraverso la semplice verifica esterna della legittimità dell’agere amministrativo, nella giurisdizione di legittimità e, della più penetrante, tutela delle posizioni inscindibilmente connesse a diritti soggettivi, in quella esclusiva, non ha più valore così pregnante.
Non a caso il legislatore nelle materie della giurisdizione esclusiva, ha strutturato il giudice amministrativo ad immagine e somiglianza del giudice ordinario, in ragione di una branca di contenzioso bisognoso di una giustizia dinamica che avrebbe inciso su interessi quasi esclusivamente patrimoniali o su diritti fondamentali.
In questa sede il giudice amministrativo diventa il giudice dei diritti incisi dalla azione amministrativa che resistono alla regola dell’affievolimento e per ragioni di concentrazione processuale entra nel merito della pretesa con gli strumenti del giudice ordinario. Bene, questi strumenti eccentrici, attribuiti allo stesso giudice ma in una giurisdizione diversa, conducono all’ovvia considerazione che, anche nella giurisdizione di legittimità, lo stesso giudice sia in grado di entrare nel merito della pretesa.
È così che l’Europa ed il suo diritto, entrando dalla porta degli appalti, hanno di fatto imposto la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo. Il tutto, nel pieno rispetto della disciplina concorrenziale del mercato comune. Il sistema multilivello[4] del moderno diritto dei singoli Stati membri, impone oggi agli operatori economici tra cui spicca la P.A., uno sguardo critico sulla semplice applicabilità del diritto interno. Anche al giudice comune è imposta l’osservanza della normativa comunitaria, con conseguente disapplicazione di quanto risulti con essa in contrasto e l’estensione del suo sindacato sino ad una interpretazione convenzionalmente orientata (CEDU) degli istituti di diritto interno.
Si apre la fase di dialogo tra giudice comune e giudice comunitario che ha segnato i passaggi principali dell’evoluzione del sistema e della più forte saldatura dell’ordinamento interno ai principi comunitari. La certezza del diritto, il legittimo affidamento, il principio di proporzionalità, di trasparenza e del libero contraddittorio con la naturale esplicazione delle proprie difese, hanno guidato la legislazione tutta verso un ammodernamento degli strumenti di intervento e di azione della P.A. Tuttavia, nonostante la pressante ingerenza, i giudici comunitari non hanno mai negato all’ordinamento italiano la piena discrezionalità di qualificazione delle situazioni giuridiche e la conseguente libertà di definizione degli strumenti apprestati per la loro tutela, a patto che, in ossequio al principio di effettività, avessero il connotato dell’efficacia. Questo ha condotto ad una rivisitazione dell’intero impianto della giustizia amministrativa, così inscindibilmente connessa alle posizioni sostanziali. È così che, nel processo amministrativo, approdano con un secolo di ritardo i principi e gli schemi della scienza del processo e soprattutto, questa “nuova scienza” viene chiamata a costruire la sua specificità al pari della situazione giuridica soggettiva che si genera quando essa è esercitata.
Insomma si è partiti da un interesse legittimo solitario, sempre ammantato di una sorta di cronica indefinitezza, per giungere alla sua legittima collocazione nel panorama giuridico, anche processuale, con la stessa dignità del diritto soggettivo.
Non era ipotizzabile una evoluzione senza la previsione di un sistema di tutele ben definito, che scandisse l’azionabilità degli interessi legittimi dinanzi al proprio giudice naturale. Infatti, se il diritto soggettivo è stato sempre tutelabile pacificamente, con ogni tipo di azione, dichiarativa, costitutiva e di condanna, con l’opportunità riconosciuta da tutti i processualisti di esperire, oltre alle azioni tipiche riconosciute, anche quelle atipiche, per l’interesse legittimo vigeva il principio esattamente contrario: tutto passava attraverso il riconoscimento della sola esperibilità dell’azione costitutiva di annullamento, rigorosamente tipica, come tutte le pronunce di tipo demolitorio. Si negava al G.A. di intervenire direttamente sul rapporto, riconoscendo l’utilità cui il privato anelava con l’adozione del provvedimento da parte della P.A. Non era superflua la considerazione che a seguito della demolizione del provvedimento era conseguenziale la riedizione del potere, da parte della P.A., con l’unico limite di non rendere il provvedimento affetto della stessa illegittimità precedentemente accertata.
Il rapporto rimaneva estraneo al giudizio e il bene cui il privato aspirava dipendeva sempre da una nuova edizione del potere. In definitiva, non esisteva un principio satisfattivo della pretesa sostanziale, capace di aprire le porte ad un giudizio sulla fondatezza della pretesa.
Le piccole vittorie di Pirro cui la legislazione era giunta fino ad allora, come ad esempio l’ammissibilità del risarcimento da lesione degli interessi legittimi con la L. 205/2000[5], sono state poi totalmente travolte dalla L. 69/2009, al suo art. 44, comma 2, lett. b), n. 4, il quale ha finalmente spalancato le porte della giustizia amministrativa ad ogni forma di pronuncia del giudice (dichiarativa, costitutiva e di condanna) idonea a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa.

Il processo amministrativo diventa allora il luogo naturale in cui assicurare la tutela non solo degli interessi oppositivi, bensì anche degli interessi pretensivi, con il relativo corredo di azioni. Si rende finalmente giustizia all’art. 24 della Cost. che, più che norma immediatamente precettiva diventa una norma in bianco, tutta da scrivere quanto agli strumenti processuali da azionare.
Con grande maturità giuridica il codice del processo amministrativo si fa portavoce di una “atipicità concreta”, con questo intendendo che le azioni tipiche non sono mai completamente tipizzate, in ragione della impossibilità per il legislatore di fotografare il contenuto concreto che la singola pronuncia deve contenere per soddisfare la specifica esigenza di tutela. Il giudice diventa, allora, il vero deus ex machina dell’azione processuale, o meglio il garante dell’effettività della tutela strettamente connessa alla utilità richiesta.
Questa politica aveva già ispirato il giudizio nella materia dei contratti pubblici, in cui era necessario assicurare la strumentalità e la sussidiarietà dell’azione processuale, sicuramente finalizzata alla realizzazione degli interessi economici sottesi alla semplice verifica della regolarità/legittimità della procedura pubblicistica. La sola demolizione del provvedimento di aggiudicazione, non avrebbe con certezza assicurato l’utilità al ricorrente, se non fosse stata corredata della parte costruens della pronuncia e cioè il riconoscimento dell’aggiudicazione stessa. L’art. 122 c.p.a. rappresenta infatti l’antesignano dell’attuale sistema in cui il G.A. si fa garante del reale conseguimento dell’utilità economica del ricorrente, con l’opportunità di sindacare appieno il rapporto giuridico alla luce degli interessi coinvolti. Cos’è l’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione e di subentrare nel contratto, se non una condanna pubblicistica?
Il G.A. si emancipa dagli angusti ambiti in cui era relegato il suo giudizio e diventa giudice a tutto tondo, con l’unico limite della impenetrabilità della discrezionalità pura, ambito costituzionalmente riservato alla P.A.
La condanna pubblicistica fa definitivamente ingresso nel codice del processo amministrativo con il correttivo del 2012 n. 160, incentivata da un consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa che la ammetteva in ragione della presenza di azioni tipiche che già costituivano ex sé una condanna pubblicistica.
La sua peculiarità, già nota al processo civile con l’azione di esatto adempimento, è tutta nella perfetta identità tra la prestazione dovuta in base alla legge e quella imposta dalla pronuncia del giudice. Il suo campo di elezione diventa l’attività vincolata della P.A. e cioè quel settore in cui l’intervento pubblico si limita alla verifica dei requisiti di legge per l’acquisizione dell’utilità attraverso il potere provvedimentale. Limite questo tutto sostanziale, a cui si aggiunge il limite processuale del divieto di condanne pubblicistiche isolate.
Assodata la sola necessità di non poter demolire l’unico limite imposto dall’ordinamento, ovvero quello del divieto di aggiramento della perentorietà dei termini decadenziali di impugnativa del provvedimento, il resto è oggetto di una naturale atipicità delle tutele a monte e a valle.
L’azione di accertamento atipica, la pronuncia di annullamento rivisitata quanto alla sua efficacia retroattiva[6], rispondono perfettamente al dettato UE e CEDU consegnando alla giustizia amministrativa una serie di poteri che vanno dalla operazione di determinazione degli effetti delle proprie pronunce a quelle che devono essere le naturali conseguenze della regola della effettività della tutela. Le declinazioni del suo potere appartengono al giudice che lo esercita, e se questo era già vero per il giudice ordinario, lo sarà anche per quello amministrativo. In altri termini l’interesse legittimo, in relazione alle varie vicende è stato connotato e riconosciuto, in quanto creato e prodotto dall’attività del giudice. Si è verificato in sostanza un fenomeno che in un certo senso ricorda una vicenda analoga a quella dell’actio in diritto romano in cui, essendo ignoto il concetto di diritto soggettivo, quale è stato modernamente elaborato, l’actio venne concepita come un mezzo con cui si potevano soddisfare le ragioni che spettavano a ciascuno.
L’esercizio del potere pubblico da parte della P.A. non è più un elemento paralizzante rispetto alle potenzialità di esplicazione economica del cittadino. È, infatti, necessario comprendere che il soggetto è già legato a quel bene della vita, di cui chiede l’estensione alla P.A. e che il concederlo o meno non si riduce al semplice rapporto potestà-soggezione, ma ad una serie di aspetti oggi sempre più penetrabili dal giudice. Il complessivo ampliamento del novero di domande proponibili dinanzi al G.A. e la corrispondente tipologia di sentenze ottenibili, precisando che dalla buona formulazione della domanda dipende una soddisfacente risposta, hanno condotto ad una considerazione di fondo: il principio della domanda è ormai superato di modo che il potere del giudice si vada configurando come nuova forma di alta amministrazione, sottratta dalla giurisdizione, in ragione del proprio autore[7].
Il cambiamento di prospettiva influenzerà il futuro di questa giurisdizione, con un balzo verso la normalizzazione delle tutele, in risposta ad esigenze di giustizia sostanziale che per secoli avevano lasciato solo l’interesse legittimo. Il tramonto delle secolari guarentigie del potere pubblico fa della P.A., un soggetto che opera nel mondo del diritto ed a questo soggiace forse, in maniera più penetrante, di guisa che il suo giudice naturale possa dilatare e restringere i suoi poteri in maniera proporzionale alla stessa res litigiosa.
Vediamo così che l’ambito applicativo dell’interesse legittimo, una volta limitato, si è ampliato con il mutare del contesto sociale, ormai globalizzato, fino al punto di poter incidere anche su situazioni di importanza vitale nei vari settori dell’economia e diventare addirittura una risorsa per la stessa.
Di talché si rende sempre più auspicabile che il contemperamento degli interessi in giuoco avvenga in un quadro normativo certo, con una amministrazione responsabile in tutti gli ambiti e con una maggiore capacità di reazione qualitativa e quantitativa da parte dell’apparato giudiziario per rispondere alle mutate esigenze del mercato globale[8].

Note

1.  F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Dike Giuridica Editrice, 2012,pag.8.

2.  F. Caringella, Architettura e tutela dell’interesse legittimo dopo il codice del processo amministrativo: verso il futuro! in www.giustiziaamministrativa.it

3.  P. Cirillo, La transizione della “giustizia amministrativa” al “diritto processuale amministrativo”, in Lexitalia.it

4.  R. Garofoli, Le nuove tracce di amministrativo, Nel diritto, pag.51

5.  Cfr. F. Satta, La lesione di interessi legittimi: variazioni giurisprudenziali sull’ammissibilità del risarcimento e principi comunitari, in Giur. It., 1993, p. 1795,ss.; F. Satta, La sentenza n. 500 del 1999: dagli interessi legittimi ai diritti fondamentali, in Giur. Cost., 1999, p. 3233.

6.  Cons. Stato, sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755, la quale, in applicazione dei principi di giustizia sostanziale di effettività e proporzionalità della tutela giudiziaria, di derivazione comunitaria, ha sfatato il dogma della necessaria retroattività dell’annullamento dell’atto illegittimo.

7.  M. Fracanzani, Tipi di domande, tipi di sentenze: oltre il principio della domanda di parte nel nuovo codice di procedura amministrativa, in “Studi in onore di Claudio Rossano”, pag. 1256.

8.  Come è emerso nel recentissimo dibattito tenutosi a Varenna in occasione del 60° Convegno degli Studi Amministrativi.