Appalti pubblici e infrastrutture: per una maggiore efficacia della giurisdizione amministrativa

1. La rappresentazione che, con una certa frequenza, si sente dare del processo amministrativo e della giustizia che Tar e Consiglio di Stato garantiscono alla società e, in concreto, ai soggetti, pubblici e privati, che in essa operano, ne evidenzia due aspetti, paradossalmente contraddittori. Il primo è la sua incisività. L’uso attento delle misure cautelari; la concentrazione del processo in una o due udienze (se è richiesta una misura cautelare); la conseguente ampia disponibilità delle udienze; sono tutti elementi che spesso consentono di avere la sentenza di merito entro un anno o poco più e, in alcune materie, anche i due gradi di giudizio. Poiché la fissazione dell’udienza (o delle udienze) dipende dal Presidente, è palese che le caratteristiche della materia di cui di volta in volta si tratta hanno un peso significativo ai fini della celerità del giudizio. È un valore civile e sociale impagabile, che non deve mai essere dimenticato.

2. Il secondo aspetto che si coglie nei discorsi sul processo amministrativo è meno intuitivo e di segno negativo. Riguarda fondamentalmente due settori strategici della società e della sua economia, gli appalti e le infrastrutture. Si osserva qui – del tutto a ragione – che il contenzioso è sovrabbondante, incontrollabile, nei numeri e nella complessità e che questo fenomeno incide pesantemente nel pubblico interesse sotteso agli uni ed alle altre. C’è poco da dire: quando un blocco di ricorsi investe una procedura di gara, di fatto si paralizza la realizzazione dell’opera. È del resto evidente che nessuna amministrazione è disposta a stipulare il contratto con il vincitore della gara a cuor leggero, quando pendono, uno, due, tre ricorsi contro l’aggiudicazione o l’esclusione di un altro concorrente. Ancor peggio è per le infrastrutture: non soltanto nella fase esecutiva subiscono il contenzioso che investe gli appalti, necessari per la loro realizzazione, ma fin dalle fasi preliminari, che ruotano intorno alla loro programmazione e progettazione, sono oggetto di ricorsi, proposti da organizzazioni di cittadini, che puramente e semplicemente non le vogliono. Il fenomeno è drammatico: ci si dibatte infatti tra due estremi: sì o no al porto, al depuratore, all’impianto di smaltimento di rifiuti.

3. Il tema sembra senza soluzione. Il diritto di difendere i propri interessi anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni è garantito a tutti dall’art. 24, 1° co., della Costituzione. Chiunque veda leso il proprio interesse in ordine a qualsivoglia attività delle amministrazioni (o da esse autorizzata) può impugnare gli atti o le serie di atti, da cui discende la sua asserita lesione. La possibilità di ricorsi e quindi, indirettamente, di paralisi dell’attività incontra limiti indefinibili a priori.
Tutto ciò è aggravato da alcune regole recepite ormai dalla tradizione. Il ricorso al giudice amministrativo è ammissibile – e necessario – entro un certo termine a decorrere dal giorno in cui l’interessato sa ufficialmente che si è manifestato un qualche “fenomeno” lesivo dei suoi interessi. Accade così che la stessa gara possa essere impugnata da un numero n di concorrenti (o di aspiranti concorrenti, quali sono gli esclusi); e che possa esserlo in più tempi e fasi diverse, in relazione allo sviluppo della procedura. Non c’è da stupirsi che la realizzazione di opere pubbliche possa subire grandi, addirittura enormi ritardi, perché un “interesse leso” può emergere nei momenti più impensati.
Per le infrastrutture in quanto tali il discorso è ancor più difficile. Esse sono per definizione strutture fisiche complesse, che si inseriscono nel territorio per garantire una “utilità” collettiva, ovviamente gravandolo di un blocco di opere, che genera l’utilità: si pensi ad un depuratore, una ferrovia, un porto, etc. etc. Proprio perché incidono nel territorio, mutandone l’aspetto e le funzioni, da un lato coinvolgono una pluralità di enti pubblici, ciascuno dotato di specifiche competenze, spesso in quasi istituzionale conflitto tra loro[1]. Una miriade di provvedimenti amministrativi precede e, hélas, accompagna così l’insediamento di un’opera complessa e di un qualche impatto sul territorio. Dall’altro lato le infrastrutture investono gli interessi di un numero imprevedibile di soggetti. Chiunque si senta leso da qualche profilo del progetto può impugnare il pertinente provvedimento di approvazione o autorizzazione, chiederne l’annullamento e medio tempore la sospensiva, così potendo paralizzare la realizzazione dell’opera. Non solo. Dall’antica (e sbagliata) idea che sulla progettazione si possa e debba risparmiare, nasce l’altrettanto antica (e pessima) tradizione per cui quasi non esiste progetto che venga eseguito come originariamente approvato. Le varianti, che rimediano a carenze originarie del progetto, si susseguono nel tempo, spesso imposte da amministrazioni diverse da quella procedente; con esse, altri interessi privati si assumono lesi ed insorgono[2]. Come è ben noto, il fenomeno di questi interessi (che un tempo si chiamavano “diffusi”) è così rilevante da avere determinato fenomeni di aggregazione volontaria, nella forma di comitati, associazioni e simili[3], che agiscono in giudizio a tutela di interessi non individuali, ma, appunto, diffusi o collettivi.
In breve: ogni infrastruttura – autostrada, aeroporto, centrale termoelettrica, depuratore, diga, etc. – incide sul territorio con la sua sola presenza; la sua “vita produttiva” a sua volta investe direttamente o indirettamente la vita della gente, che ne subisce la presenza. Le conseguenze di tutto ciò sono univoche. Comportamenti attivi e contrari delle popolazioni sono divenuti la regola. Contro qualunque infrastruttura si insorge fin dalle prime notizie che se ne hanno. A prescindere da certe reazioni violentissime, come quelle che si sono viste negli ultimi anni per la tratta ferroviaria ad alta velocità in Val di Susa, certo è che tutti i provvedimenti che riguardano un’infrastruttura, dalla sua localizzazione al progetto, dalle autorizzazioni ambientali a quelle paesaggistiche, vengono regolarmente impugnati.
I TAR e il Consiglio di Stato a volte concedono misure cautelari, con l’effetto frenante sui lavori che ne deriva. Poiché nessuno è contento di iniziare un lavoro senza essere certo che tutto è in ordine e non soggetto a interventi inibitori di questa o quell’autorità giudiziaria, di fatto i tempi di realizzazione delle infrastrutture si dilatano in termini incontrollabili.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Molte infrastrutture diventano tecnologicamente vecchie, se non obsolete, prima ancora di vedere la luce, se così si può dire; alcune addirittura vengono abbandonate; in ogni caso i costi raggiungono livelli che si possono pudicamente definire irrazionali.
Ci si trova dunque di fronte ad un paradosso. L’esercizio di un diritto fondamentale ed inviolabile della nostra Costituzione  – “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi[4] – può recare gravi danni alla collettività. In sintesi: si spendono grandi cifre, senza realizzare manufatti che abbiano il valore del loro costo.
È dunque necessario affrontare questo paradosso per cercare una soluzione che, senza violare il diritto alla difesa, consenta la tempestiva realizzazione delle opere e delle infrastrutture pubbliche: cioè in termini con esso compatibili.

4. Il problema ha radici antiche. Risale alle origini del nostro sistema di “giustizia amministrativa”, come fino a pochi anni or sono era chiamato il corpus degli istituti attraverso i quali veniva assicurata la giustizia, quando una parte era una pubblica amministrazione. La scena era dominata da due figure giuridiche, assolutamente astratte. C’erano i diritti soggettivi da una parte – si trattava di “situazioni giuridiche soggettive” che si assumevano pienamente tutelate dall’ordinamento –, gli interessi legittimi dall’altra: “situazioni giuridiche soggettive” caratterizzate dal fatto di essere subordinate al pubblico interesse e quindi tutelate non direttamente, in sé e per sé, come accadeva per i diritti, ma indirettamente, attraverso il sindacato dell’ “atto amministrativo” che li aveva lesi. Fino al 1999[5] la loro lesione era stata irrisarcibile, salve rare, rarissime eccezioni, che qui non rilevano.
Ciò che ha qui uno specifico rilievo è il rapporto tra il c.d. interesse legittimo e l’atto amministrativo, dalla cui adozione (o rifiuto di adozione) derivava la sua lesione. Bisogna riconoscere che, di fronte ad un sistema di tutela giurisdizionale imperniato sul principio che gli atti lesivi, ritenuti illegittimi, potevano essere impugnati ed annullati dal giudice, ben poco c’era da dire intorno al rapporto interesse-atto. La soddisfazione dell’interesse legittimo era l’annullamento dell’atto lesivo, perché da esso sarebbe nato un nuovo atto. Non è un caso, del resto, che in un periodo culturale ancora orientato verso metodi dogmatici di analisi, non ci si sia spinti oltre la qualificazione e distinzione degli interessi come “oppositivi” e “pretensivi”: è una categorizzazione di ordine descrittivo, sostanzialmente priva di valore.

5. In realtà le cose non stanno proprio così, come il tema che si sta discutendo inequivocabilmente dimostra. Chi partecipa ad un concorso, e non lo vince; chi partecipa ad una gara per ottenere un affidamento qualsiasi – un incarico di progettazione, la fornitura di un servizio, l’esecuzione di lavoro – e lo vede conferito ad un altro concorrente; si trova in una situazione precisissima. Assume che il posto o l’incarico dovesse essergli attribuito, perché si reputa migliore del vincitore (o dei vincitori); per questo impugna l’esito del concorso di fronte al giudice amministrativo. I belligeranti sono perfettamente identificabili, come perfettamente identificabili sono le loro pretese: il ricorrente vuole rovesciare il giudizio espresso su se stesso e, in senso opposto, almeno su un altro concorrente, per prevalere su quest’ultimo e così conquistare il posto o il contratto. È il caso di dire che i concorrenti sono “l’un contro l’altro armati”, per conquistare una fortezza, una città, un territorio – una cattedra, una sede notarile, un posto utile in graduatoria.
Questo “interesse legittimo” ha dunque contorni precisi. Nasce dalla ritenuta lesione di un’aspettativa, che avrebbe condotto all’acquisizione di un diritto (il posto, il contratto); mira ad ottenerlo attraverso il giudizio, la caducazione dell’atto lesivo ed il ripristino della legalità – ovvero, il riconoscimento dei suoi maggiori meriti o titoli che siano. Il ricorrente, insomma, può essere soddisfatto solo a danno di un altro soggetto, che era stato prescelto dall’amministrazione.
Sembra così corretto dire che in questo tipo di fattispecie si contrappongono interessi omogenei, che dipendono da quanto l’amministrazione ha deciso. Sono perfettamente identificabili ex ante (chi ha partecipato senza vincere; chi ha partecipato, vincendo), come ex ante è univoca la pretesa: i non vincitori vorrebbero subentrare ai vincitori, grazie all’accertamento che l’attività svolta dall’amministrazione era illegittima. Gli interessi insomma sono individuali e ben definiti.
Di qui il problema. Se questi interessi sono individuati e ben definiti, che cosa si può fare per evitare che un numero n di ricorsi si abbatta sull’esito di una gara (o di un concorso), di fatto rallentando pesantemente l’avvio dei lavori?

6. La premessa da cui si deve muovere è che certamente non si può proporre alcuna soluzione che di fatto limiti la tutela giurisdizionale. Ne consegue necessariamente che si può pensare di intervenire anzitutto sul modello procedimentale, riducendo quanto più è possibile gli adempimenti formali, le verifiche, i controlli amministrativo-burocratici, ex ante ed ex post. Quanto alla tutela giurisdizionale si possono soltanto pensare accorgimenti processuali che, senza interferire con il diritto di difesa, consentano una gestione più razionale e quindi temporalmente più breve dei ricorsi.
Si possono immaginare tre interventi legislativi.
Il primo intervento ha carattere generale e pregiudiziale. Riguarda la disciplina delle gare. Bisogna dirlo chiaramente: è inconcepibile una complessità di norme come quella che, ormai da anni ed anni, ispira i meccanismi di selezione dell’offerta migliore. Basti pensare alle cause di esclusione dalle gare (fondamentalmente l’art. 38 del codice dei contratti). Sembra che per ogni gara si debba ripartire da zero e quindi ogni volta richiedere lo stesso tipo di dichiarazioni, procedere allo stesso tipo di accertamenti, come se le banche dati non esistessero. In un ambiente normativo di questo genere, è evidente che tutti possono sbagliare e che è sempre e ovunque possibile trovare (e costruire) vizi e lacune nella documentazione dei concorrenti. Questo sistema consente ai concorrenti meno forti di supplire ai loro limiti cercando in tutti i modi vizi nelle posizioni e nelle vicende altrui. Ridurre drasticamente tutto ciò è un presupposto essenziale per una semplificazione delle procedure ed una drastica riduzione del contenzioso.

Il secondo intervento dovrebbe riguardare il rapporto tra procedura di gara e giudizio. Si dovrebbe stabilire che tutte le censure, ivi comprese quelle che riguardano il bando e le cause di esclusione – eccezion fatta per quelle che colpiscono direttamente il ricorrente, escludendolo dalla gara – non possono essere fatte valere in via autonoma, quando emergono, ma solo contestualmente all’impugnativa dell’aggiudicazione. In altri termini, qualunque censura al bando, all’ammissione dei concorrenti, alle valutazioni della commissione potrebbe essere fatta valere solo dopo la conclusione della gara e l’aggiudicazione provvisoria. La previsione di un congruo periodo di stand still dopo la comunicazione dell’aggiudicazione consentirebbe a tutti gli interessati di notificare il ricorso ed il ricorso incidentale e di andare così all’udienza di merito in tempi brevi. In questo modo si potrebbe anche pensare di eliminare la fase cautelare.
Il terzo intervento riguarda il processo e la sua gestione. Già la concentrazione dei ricorsi contro l’aggiudicazione per qualunque vizio emerso nel corso della procedura creerebbe un fattore unificante dei giudizi – non dei ricorsi, ovviamente, che possono essere tra loro antagonisti. Decorsi i termini di cui si diceva sopra, quindi nella certezza di avere a disposizione tutte le impugnazioni e tutti gli atti della gara, spetterebbe poi al Presidente fissare l’udienza – o il gruppo di udienze – necessarie per decidere tutte le cause tra loro connesse, perché relative alla stessa gara, allo stesso concorso. In questo modo, in un anno, tutti  i ricorsi relativi alla stessa gara potrebbero essere decisi. Il principio comunitario, di massima garanzia giurisdizionale, collegato alla celerità dei giudizi, sarebbe pienamente soddisfatto, come rispettato sarebbe l’art. 24 Cost.

7. Il discorso sugli interessi che gravitano intorno alle infrastrutture è molto diverso. Certamente può esserci qualcuno che viene direttamente leso dalla loro realizzazione: è tipico il caso del proprietario che deve essere espropriato o di chi si vede chiudere il paesaggio. Questi sono però interessi personali che non hanno in sé alcuna specificità: se, anziché di una certa infrastruttura, si trattasse della costruzione di un edificio privato, nulla cambierebbe. Sarebbero sempre in gioco interessi personali, in qualche modo misurabili, quindi risarcibili.
Gli interessi anomali, eterodossi, quindi “pericolosi”, sono altri. Sono quelli che serpeggiano nella collettività, con un rifiuto di principio dell’intervento infrastrutturale, pubblico o privato che sia, in quanto muta, altera, sconvolge un quadro ambientale, inteso nel senso più lato del termine. Come è palese, questi interessi si caratterizzano per una elevata componente ideologica e di ordine lato sensu morale. I promotori della “guerra” contro l’infrastruttura assumono facilmente le vesti dei paladini; cercano ed ottengono consensi.
Da questo movimento di idee, di discussioni, di iniziative scaturisce la formazione di organizzazioni su base associativa, che riescono a dotarsi degli strumenti professionali ed economici necessari per procedere alle campagne giudiziarie. Come è ben noto, esse investono ogni atto autorizzativo, di qualsiasi genere e specie, ogni variante al  progetto, al piano regolatore, etc.
È fuori di ogni dubbio che questi interessi meritino tutela in giudizio. In linea di principio si tratta di interessi morali, non economici, della società civile, che devono essere rispettati, come nei fatti sono. Come si è già ricordato, non si dimentichi che antesignana fu Italia Nostra: nata dalla passione civile di un piccolo gruppo di persone, si vide riconoscere dal Consiglio di Stato la legittimazione al ricorso in materia ambientale, aprendo così la via alla legittimazione generale delle associazioni ambientalistiche e culturali, avvenuta nel 1986, con la prima legge sull’ambiente.
Il problema è dunque chiarissimo. Come si può garantire la tutela giurisdizionale di questi interessi senza paralizzare a tempo indeterminato la realizzazione di infrastrutture, pubbliche o private che siano? Ovvero: come si può ottenere in tempi brevi una decisione definitiva di merito sulla legittimità di un’infrastruttura?
7. È ragionevole pensare che i due temi – tutela degli interessi collegati agli appalti e tutela degli interessi, collegati alle infrastrutture –, pur vicini, debbano in realtà trovare soluzioni diverse. La ragione è che gli interessi in gioco hanno nature profondamente diverse. Gli interessi di coloro che non hanno vinto un concorso o una gara sono chiarissimi, perfettamente identificabili: vogliono subentrare a chi ha vinto. Si può dire che si mira a solo ad invertire la posizione dei segni: “+” e “–”: insomma, “mors tua vita mea”. Gli interessi di ordine civile e sociale, come sono tipicamente quelli ambientalistici, non pretendono alcunché. Idealmente vogliono conservare un valore, comune a tutti – come sono ad es. il paesaggio e un ambiente naturale.
In questa situazione, in cui configgono interessi economici e personali da un lato (di chi vuole realizzare l’infrastruttura), ed interessi non economici, non personali, di carattere civile e sociale, dall’altro, l’unico problema che si pone per accelerare il processo è dargli una organizzazione mirata a garantire il coordinamento tra più ricorsi ed altrettante posizioni di resistenza. Come si è accennato nel § 6, questo può essere fatto con una certa semplicità, prescrivendo in via generale che tutti i ricorsi contro lo stesso concorso o la stessa gara debbano essere gestiti e trattati contemporaneamente.
Si tratta di stabilire come ciò possa farsi. La soluzione più praticabile sembra essere quella di considerare le azioni a tutela degli interessi non economici, di cui si è detto, non come la somma di azioni individuali, ma come azioni suapte natura collettive.
Questo pone due ordini di problemi. Le grandi infrastrutture hanno bisogno di decine di permessi e autorizzazioni. In un ordinario conflitto tra privati ci sarebbe un continuo inseguirsi di ricorsi e di motivi aggiunti, con parimenti continue eccezioni di tardività. Questo rende i ricorsi difficili per un verso, pericolosi, pericolosissimi per un altro: il ricorso contro un ultimo, definitivo provvedimento può azzerare anni di lavoro e di investimenti.

Solo la chiarezza può consentire di attenuare, se non cancellare, questo regime di guerriglia. Una legge che volesse intervenire in questa materia dovrebbe porre alcuni punti fermi di ordine procedimentale e processuale.
Di ordine procedimentale:
a) l’intenzione di realizzare una certa infrastruttura deve essere resa nota al pubblico;
b) il progetto di massima deve essere preceduto da tutte le indagini geognostiche, ambientali ed altro, necessarie per il rilascio di tutte le autorizzazioni richieste dalle leggi;
c) sul progetto di massima deve essere avviato il “débat publique”, aperto ai cittadini ed alle associazioni, al quale devono partecipare tutte le amministrazioni competenti per l’autorizzazione dell’opera;
d) se dal “débat publique” scaturisce la necessità di modifiche strutturali al progetto di massima, tutte le amministrazioni competenti per l’autorizzazione devono conformarsi alle conclusioni del “débat publique”, anche riunendosi in conferenza di servizi;
e) a ciò segue la redazione del progetto definitivo e la definitiva autorizzazione dell’opera, che riassume in sé tutte autorizzazioni settoriali;
f) deve essere consentito il diritto di accesso a tutti i documenti e l’accesso deve essere esercitato.
Di ordine processuale:
g) della definitiva approvazione deve essere data notizia pubblica, con pubblicazione nei giornali, via internet e quant’altro, con l’avvertimento che entro 90 giorni dalla pubblicazione potranno essere proposte azioni collettive da parte da parte di associazioni di cittadini, sul modello delle azioni collettive (class action), previste dall’art. 140 del codice del consumo;
h) il ricorso di singoli cittadini è ammesso solo contro lesioni dirette ed immediate dei loro interessi, secondo le regole generali;
i) dopo il deposito dei ricorsi il Presidente del TAR li riunisce;
i)  nel costituirsi, le amministrazioni coinvolte depositano tutta la documentazione pertinente;
l) il Presidente fissa l’udienza di trattazione entro 90 giorni dalla scadenza del termine per il deposito.
La conclusione è chiara. Un procedimento amministrativo sviluppato secondo le linee qui tracciate in via generalissima; un processo amministrativo concepito e costruito per rendere giustizia in tempi ragionevolmente brevi, ma soprattutto una volta per tutte; consentirebbero di programmare e realizzare infrastrutture in tempi se non brevi, certo definiti.

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8. Una nota finale, non felice. Il recentissimo d.l. n. 90/2014 agli art. 40, 41 e 42 detta disposizioni rivolte ad accelerare il processo amministrativo. Non sembra cogliere nel segno. Le disposizioni sono di due ordini. Un primo gruppo riduce i termini, prescrive il ricorso alla sentenza in forma semplificata, impone la pubblicazione delle sentenze entro pochi giorni. Il secondo prevede la prestazione di cauzione a carico di chi ha ottenuto la misura cautelare e la condanna del soccombente a corrispondere alla controparte una somma equitativamente determinata, nonché una sanzione pecuniaria che può arrivare fino all’1% del valore del contratto (art. 41, 1° co., lett. b). Bisogna per altro ricordare che la norma modificata dall’art. 41 già prevedeva una sanzione compresa tra il doppio ed il quintuplo del contributo unificato.
Duole dire che queste norme non colgono il problema. Il problema non è punire nella speranza di dissuadere. Il problema è rendere comunque la giustizia amministrativa efficiente anche nei settori più sensibili, quali sono certamente gli appalti e le infrastrutture.
In quest’ottica, sapere che entro un certo numero di mesi tutti i ricorsi relativi ad un appalto si esauriranno consentirebbe di introdurre un elemento essenziale di certezza, fondamentale per pianificare ed esaurire i lavori in tempi determinati.

Note

1.  Basti pensare al ruolo spesso svolto dalla soprintendenze e dalla amministrazioni con competenze ambientali. Per tutelare un paesaggio o una palude possono impedire la realizzazione di un’infrastruttura o imporne una diversa localizzazione.

2.  Non si possono poi certo dimenticare le procedure espropriative, che hanno vita a sé. Il numero di ricorsi che possono investire un progetto con tutti i provvedimenti amministrativi che lo accompagnano non è né prevedibile né regolabile ex ante. Chiunque abbia un interesse collegato alla realizzazione di una data infrastruttura può ricorrere, con il solo limite di dover rispettare il termine decadenziale. La sua decorrenza, per altro, trattandosi di strutture complesse che coinvolgono una pluralità di amministrazioni, molto spesso può non essere opposta al cittadino ricorrente, proprio per la difficoltà di acquisire le informazioni indispensabili per il ricorso.

3.  Iniziò Italia Nostra, che ottenne dal Consiglio di Stato il riconoscimento del suo diritto ad agire in giudizio per la tutela di beni culturali. Con la l. 8 luglio 1986, n. 349, vennero riconosciute in via generale le associazioni ambientaliste (art. 13)

4.  Che, tra l’altro, chi scrive ritiene ancora non compiutamente attuato Basti pensare che il giudice amministrativo è oggi giudice del risarcimento del danno recato con violazione dei c.d. interessi legittimi e che la Corte dei conti lo è per il danno recato dai dipendenti alle amministrazioni di cui dipendono: entrambe le giurisdizioni, che pacificamente riguardano diritti, vengono esercitate senza la garanzia del controllo da parte della Cassazione.

5.  È l’anno della celeberrima sent. n. 500 delle S.U. della Cassazione, con cui venne rovesciata la secolare giurisprudenza che negava la risarcibilità degli interessi legittimi.