Nozioni consolidate e ripensamenti. La proprietà dell’acqua e delle infrastrutture idriche.

1.Questioni aperte.
Si parla molto di acqua “pubblica”. Al tempo stesso periodicamente si affacciano nella normazione o nella giurisprudenza delle crepe rispetto ad un assetto che appare consolidato, che sembrano porre in discussione alcune certezze che si riteneva raggiunte.
Per evitare equivoci sarebbe bene chiarirci le idee sulle parole che usiamo, le quali hanno, per chi di diritto si occupa, già qualche riferimento chiaro nell’ordinamento. Il percorso potrà sembrare logicamente eccentrico, ma sarà opportuno prima capire che cosa il nostro ordinamento intenda per acqua pubblica, poi cosa intendiamo per acqua, e poi quale statuto sia assegnato alle infrastrutture idriche.

2. Quando le acque sono pubbliche.
La Cassazione è negli ultimi anni intervenuta a più riprese, affermando che si sia in presenza di acque pubbliche in caso di attitudine delle acque stesse ad usi di pubblico generale interesse (da ultimo Cass. civile, sez. III, 15/05/2013, n. 11757[1], Cass. civ., sez. VI, 05/09/2012, n. 14883[2] e Cass. civile, sez. II, 26/04/2011 n. 9331).
La questione della pubblicità delle acque è risalente alle prime disposizioni dello Stato italiano: anzitutto alla legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. f), sui lavori pubblici, e al coevo Codice civile (emanato il 2 aprile).
La coesistenza delle fonti ha dato origine a un dibattito, derivante dal fatto che la legge si occupava di “acque pubbliche”, mentre il Codice di acque “demaniali”[3]. Infatti per il codice civile del 1865, secondo il quale un bene demaniale è un bene per natura inalienabile (art. 428), “i fiumi e i torrenti” (art. 427) sono beni demaniali: invece non vengono citati i minori corsi d’acqua, menzionati però come acque pubbliche nell’art. 102 della legge 2248/1865.
Ha prevalso nel dibattito successivo la tesi secondo la quale i minori corsi d’acqua dovevano essere qualificati pubblici quando di rilevanza per l’interesse generale e sociale, mentre erano privati quando sforniti di tale utilità.
Questa soluzione ha inciso profondamente sulla nozione di acque pubbliche, in quanto si è consolidata l’idea che l’acqua fosse pubblica solo in quanto atta ad usi di pubblico interesse. A riprova la successiva legislazione, anzitutto l’art. 3 del R.D.L. 9 ottobre 1919, n. 2161, e, poi, nell’art. 1 del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775 “Sono pubbliche tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali, anche se artificialmente estratte dal suolo, sistemate o incrementate, le quali, considerate sia isolatamente per la loro portata o per l’ampiezza del rispettivo bacino imbrifero, sia in relazione al sistema idrografico al quale appartengono, abbiano od acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse“.
Il conflitto viene formalmente risolto dal Codice civile nel 1942, il cui art. 822 afferma che i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi (e quindi dalla normativa del 33) sono demaniali: tuttavia, se le acque pubbliche sono demaniali, ciò comporta che le acque siano demaniali in quanto destinate a pubblico interesse.
Il salto di qualità si ha solo con l’affermazione della pubblicità di tutte le acque (cd. panpubblicistico), nel 1994, quando con la cd. Legge Galli, n. 36, viene stabilito che “tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà“. Diventano così pubbliche acque in passato considerate private e si osserva criticamente e ironicamente che diventano demaniali il rigagnolo, lo stagno, la pozzanghera e i relativi terreni[4]. La norma non si limita alle acque che scorrono; manca qualunque criterio teleologico; non vi è alcuna elencazione dei beni.
L’affermazione viene poi confermata a valle della Galli, quando lo stesso art. 1, comma 1, del D.P.R. 238/1999 (non abrogato) ribadisce che “appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico tutte le acque sotterranee e tutte le acque superficiali, anche raccolte in invasi o cisterne“.
La preoccupazione che l’estensione della demanialità fosse troppo ampia ha suggerito ad alcuni di restringere il campo mediante il riferimento alle espressioni “costituiscono una risorsa”, “criteri di solidarietà” per riproporre che le acque sarebbero pubbliche in quanto risorsa in senso sociale, come nel 1933[5]. Tuttavia l’interpretazione letterale è stata accolta dalla Corte Costituzionale, la quale nelle sentenze 259 e 419 del 1996 ha da un lato sminuito la rilevanza del principio, sottolineando lo spostamento del baricentro del sistema delle acque pubbliche dal regime della proprietà al regime di utilizzo. Dall’altro, ha giustificato l’estinzione della proprietà privata, ritenuta ragionevole, come “un modo di attuazione e salvaguardia di uno dei valori fondamentali dell’uomo … e nello stesso tempo principio generale per una disciplina omogenea dell’uso delle risorse idriche”.
Il principio della demanialità delle acque pubbliche è stato esplicitato anche dal più recente Codice dell’ambiente il quale, all’art. 144, ha aggiunto la precisazione che il regime è l’ascrizione al “demanio dello Stato”. Se pure si è ritenuto inutile questo riferimento, esso è importante simbolicamente, perché segnala la centralità dell’acqua nell’ambito dei beni pubblici. Inoltre la demanialità, in virtù della collocazione all’interno del Codice, costituisce principio fondamentale, anche per le Regioni a Statuto speciale (art. 176).
Alla luce del Codice quindi l’indicazione dell’art. 822 dell’appartenenza al demanio de i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia, va inteso nel senso che le “altre acque”, sono tutte le acque sotterranee e superficiali, al di là della definizione di pubblicità.

Risulta allora problematico che la giurisprudenza più recente riproponga come strumento ermeneutico il criterio contenuto tra l’altro nel R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 1, affermando il principio secondo cui l’attitudine delle acque ad usi di pubblico generale interesse è elemento indefettibile a conferire la natura di acque pubbliche, anche al di là del dettato della Galli o del Codice dell’ambiente. Problematico perché corre il rischio di proporre una corsa alla dimostrazione dell’irrilevanza pubblica per impossessarsi di un bene che sarebbe di per sé pubblico.

3. Che significa la demanialità per l’acqua.
Detto che l’acqua rientra nella demanialità, non si è ancora chiarito perché quest’ultima si configuri e che cosa significhi: in questa sede, non in generale, per non ampliare eccessivamente il discorso, almeno va chiarito a che cosa il legislatore mirasse, nel corso degli anni, affermando la demanialità delle acque.
Se la demanialità è certamente riconducibile al pubblico interesse, fino alla prima metà del 900 l’acqua era un mezzo per la realizzazione delle varie finalità pubbliche (trasporto, irrigazione ecc.), e per tale motivo, quando le acque fossero ontologicamente al di fuori di queste finalità pubbliche, nulla ostava a che fossero di proprietà privata.
Successivamente agli anni sessanta, e all’imporsi della coscienza ambientalistica, l’acqua, in virtù dell’acquisita e non affatto scontata consapevolezza del suo ruolo fondamentale, ha costituito il precipitato delle aspettative a garantire alle generazioni future la fruizione di un bene essenziale e scarso, nonché di un patrimonio ambientale integro. La considerazione delle acque come risorsa da proteggere e risanare è chiaramente visibile nella legge 319/1976 e nel D.Lgs. 152/1999 sulla tutela delle acque dall’inquinamento. Ma è altrettanto evidente nella disciplina sulla gestione delle acque pubbliche, si pensi a come il primo articolo della Galli faccia riecheggiare il principio dello sviluppo sostenibile (salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà).
L’interesse alla tutela e alla gestione del bene fondamentale come fine dei poteri pubblici rende quindi comprensibile la scelta dell’adozione della categoria di demanialità. Il demanio quindi, in controtendenza rispetto al processo di privatizzazione dei beni pubblici, ha vissuto un fenomeno di estensione per quanto riguarda l’idrico. E questo in parallelo con il riconoscimento dell’importanza del bene anche sulla base del testo della Costituzione (anzitutto ex art. 2 Cost.)[6].
La demanialità poi, ex art. 823, significa nel dettaglio che i beni che vi rientrano sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano, e che spetta all’autorità amministrativa la tutela dei beni.
La stessa categoria, poi è oggetto in questi ultimi anni di ripensamento: da parte sia di chi, osservando il suo svuotamento, ritiene che ci sia bisogno di nuove nozioni, sia di chi cerca un cuore della categoria, da tutelare: si sottolinea in particolare come il demanio debba intendersi nel senso dell’appartenenza collettiva del bene, sottolineando come per “bene demaniale” dovesse intendersi uno strumento necessario per la sopravvivenza[7].
La demanialità investe sia il dominio sulla cosa che la sua gestione. In questo senso, lo Stato deve amministrare il bene, garantirne il libero uso, compiere scelte distributive, all’esito di una valutazione di compatibilità tra interessi pubblici e privati. Il profilo dominicale costituisce il sostrato del potere di effettuare scelte distributive, che sono fondamentali, e che sono facilitate nel loro operare dalla demanialità del bene[8]. Bisogna quindi guardare con distacco quelle interpretazioni che sostengono che il profilo dominicale sia irrilevante, perché ciò che è importante è la gestione del bene, perché l’amministrazione del bene (che non può essere stabilita a priori) deve essere guidata dall’affermazione della demanialità del bene, non essendo possibile l’inverso.

4. Altra questione poi è relativa a quali siano le acque oggetto di demanialità. Ci sono in realtà ancora delle discussioni in proposito. Si è osservato infatti che la demanialità non possa essere riferito al liquido, ma all’insieme della massa d’acqua e del corpo contenitore (alveo)[9]: le stesse acque piovane vengono dichiarate pubbliche dall’art. 1 del D.P.R. 238/1999 nei limiti in cui vengano convogliate e/o invasate. Quindi il demanio non riguarda, si sostiene, l’acqua risorsa, ma l’acqua bene immobile. Vi rientrerebbero così: le “acque superficiali” i fiumi e i torrenti, i laghi e gli stagni, le sorgenti, i ghiacciai e corsi minori (rivi, fossati, colatoi), corsi e bacini artificiali (per alcuni solo i naturali). Il tutto con due precisazioni: le “acque pluviali”, tradizionalmente beni non appropriabili, ex art. 1 del D.P.R. 238/1999 non sono demaniali se “non ancora convogliate in un corso d’acqua o raccolte in invasi o cisterne”, se poste al servizio di fondi agricoli o di singoli edifici; le acque sotterranee, che il proprietario del fondo ha diritto di cercare, estrarre e utilizzare per fini domestici, anche con mezzi meccanici (art. 911 c.c. 28, comma 5, L. 36/1994 e 167, comma 5, D.Lgs. 152/2006). Questa soluzione è stata anche di recente messa in discussione: si è affermato infatti che al demanio idrico appartengono anche gli immobili relativi solo nei casi in cui il bene precedentemente iscritto nell’elenco delle acque pubbliche, o quando di pubblico generale interesse, altrimenti vi rientra solo il liquido (…)[10]. Anche questa interpretazione però ne riduce l’ambito, per cui va trattata con grande cura. In proposito, va ricordato che i beni demaniali sono tutti beni immobili, o collettività di mobili. Di nuovo l’effetto è quello di ridurre l’ambito della demanialità.

5. La demanialità delle infrastrutture.
Il discorso risulta ancora più insidioso quando si affronta il tema delle infrastrutture. Per il codice civile gli acquedotti fanno parte del demanio pubblico, solo se appartengono agli enti territoriali; non ne è possibile quindi l’alienazione o una diversa destinazione. La conseguenza del dettato consisteva nella qualificazione come patrimonio indisponibile degli acquedotti appartenenti ad altre amministrazioni pubbliche e delle altre reti (fognature, servizi di depurazione), con vincolo di destinazione al servizio pubblico.
Si è però affermata poi la natura demaniale delle infrastrutture idriche con l’art. 143 del Codice dell’Ambiente, e si è disposto che non solo gli acquedotti, ma anche le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà pubblica, fino al punto di consegna e/o di misurazione, fanno parte del demanio codicistico e sono inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge.
La disposizione, come è agevole vedere, estende l’area del demanio anche a beni che non appartengano solo allo stato e agli enti territoriali, ma anche ad altre pubbliche amministrazioni, contravvenendo così alla ricostruzione tradizionale di demanio. Si è immaginato così, nel leggere questa norma, che nel futuro le infrastrutture pubbliche possano non essere più realizzate per conto degli enti locali, ma direttamente dalle Autorità d’ambito ottimale (Ato).
La protezione sulle reti si è rivelata molto forte. Sembra occuparsi di tutt’altro la Corte Costituzionale, nel dichiarare incostituzionale l’art. 49 della legge lombarda 26 del 2003 (introdotto nel 2010) secondo il quale gli Enti locali possono costituire una società patrimoniale d’ambito (113, comma 13, TUEL) unica per ATO alla quale partecipino direttamente o indirettamente, mediante conferimento della proprietà delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali del servizio idrico integrato o, in caso di partecipazione indiretta, del relativo ramo d’azienda (la società pone poi a disposizione del gestore reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali e le può essere assegnato l compito di espletare le gare per l’affidamento del servizio, le attività di progettazione preliminare delle opere infrastrutturali relative al servizio idrico e le attività di collaudo delle stesse). La Corte ha rilevato che c’è una cessione ad un soggetto di diritto privato di beni demaniali e, perciò, incide sul regime giuridico della proprietà pubblica. Ne consegue che la disciplina regionale scrutinata va ascritta alla materia dell’ordinamento civile, riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione. Dietro questa sentenza c’è in controluce la volontà, se non direttamente di evitare la dismissione delle reti con legge regionale, il richiamo all’attenzione, mediante il riconoscimento della autorità statale, alla proprietà delle reti.
Ed invero, nel frattempo era intervenuto il comma 5 dell’art. 23 bis del decreto-legge 112 del 2008, il quale aveva stabilito il principio secondo cui le reti sono di proprietà pubblica. Peraltro anche l’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche ha espresso dei dubbi sulla legittimità di siffatti conferimenti[11].
Anche in questo caso, il fenomeno è però da seguire con grande attenzione: di recente la Corte Costituzionale ha confermato la legittimità della norma del dl 83 del 2012, secondo la quale al concessionario idroelettrico uscente spetta un corrispettivo per i beni materiali compresi nel ramo d’azienda relativo all’esercizio della concessione (28/2014)[12]: si tratta di dighe, opere di presa e restituzione, di condotte forzate, che sinora rispondevano alla regola del TU del 1933 per cui “al termine dell’utenza… passano in proprietà dello Stato, senza compenso …”, in quanto beni demaniali. Se sono beni demaniali, nessun corrispettivo dovrebbe essere dovuto.
ello stesso tenore la Delibera dell’Autorità per l’energia elettrica, il gas ed il sistema idrico, del 27 dicembre 2013 n.643/2013/R/idr di Approvazione del metodo tariffario idrico e delle disposizioni di completamento, la quale afferma che “Proprietario è, con riferimento ad un insieme di infrastrutture utilizzate nell’ambito del SII [Servizio idrico integrato], il soggetto giuridico che ne ha iscritto il corrispondente valore nei conti patrimoniali”, e poi fa riferimento al “infrastrutture di proprietà del gestore”[13].
Anche sul fronte regionale però, in un eccesso di zelo, sembra che le affermazioni non siano perspicue: le infrastrutture private non sembrano qualificabili come demaniali. Va quindi reinterpretata la legge della Regione Lazio, secondo la quale Le opere di captazione, … le altre infrastrutture e dotazioni patrimoniali afferenti al servizio idrico integrato … sono proprietà degli enti locali, i quali non possono cederla. Tali beni sono assoggettati al regime proprio del demanio pubblico ai sensi dell’articolo 822 del codice civile e a essi si applica la disposizione dell’articolo 824 del codice civile. Essi, pertanto, sono inalienabili e gravati dal vincolo perpetuo di destinazione a uso pubblico:il principio, nella sua assolutezza, può valere se i beni sono già di enti locali, e quindi dobbiamo immaginare che abbia valore descrittivo più che prescrittivo il riferimento alla proprietà degli enti locali: altrimenti è probabile che la Corte costituzionale debba intervenire a dichiararne l’illegittimità.

6. Si è parlato di “demanio idrico integrato”, in modo da evidenziare come demanio idrico ed infrastrutturale procedano intrecciati. In questa sede – lo si è fatto altrove – non ci si sofferma a ragionare sul modello di gestione, o sulla tariffa, che certamente sono nel concreto problemi di grande importanza ed urgenza. Ma, nel momento in cui si devono fare delle scelte, richiamarsi al sostrato delle norme sulla proprietà può aiutarci, perché non sono neutrali rispetto agli interessi in campo in materia di gestione.
Le criticità analizzate evidenziano il tentativo di ricondurre a ragionevolezza una normativa altrimenti troppo rigorosa: ma è in gioco anche il rischio di retrocedere su diritti acquisiti il cui valore, anche simbolico, è fondamentale, e rispetto al quale non appare esagerato mantenere un livello di tutela molto elevato.

Note

1.  In tema di acque pubbliche, gli elenchi di cui al r.d. 25 luglio 1904, n.523, come modificato con legge 13 luglio 1911, n.774 e r.d. 11 dicembre 1933, n.1775, hanno carattere dichiarativo o ricognitivo e non costitutivo, con la conseguenza che ben possono esservi acque pubbliche non segnate negli elenchi, in quanto ciò che rileva è l’obbiettiva attitudine dell’acqua a servire al pubblico interesse.

2.  Le acque – piovane e nere – convogliate nelle fognature non sono annoverabili tra le acque pubbliche, per difetto del fondamentale requisito, stabilito dall’art. 1 del r.d. n. 1755 del 1933, dell’attitudine ad usi di pubblico generale interesse, rimasto fermo anche dopo l’entrata in vigore della l. 5 gennaio 1994 n. 36; invero l’art. 1 d.P.R. 18 febbraio 1999 n. 238 (regolamento recante norme per l’attuazione di talune disposizioni della citata l. n. 36, in materia di risorse idriche) conferma – per espressa esclusione – la non annoverabilità tra le acque pubbliche delle acque meteoriche refluenti nella rete fognaria, come tali destinate, insieme con i liquami pure ivi convogliati, al mero smaltimento, senza possibilità di sfruttamento a fini di pubblico generale interesse. La rete fognaria non può, pertanto, considerarsi opera pubblica ai sensi dell’art. 140, lett. d), del citato r.d. n. 1755 del 1933, con la conseguenza che competente a conoscere del risarcimento del danno dipendente dall’errata esecuzione, mancata manutenzione o mal funzionamento dell’opera è il tribunale ordinario e non il tribunale regionale delle acque pubbliche.

3.  Si v. la ricostruzione del dibattito in N. LUGARESI, Le acque pubbliche. Profili dominicali, di tutela e di gestione, Milano, 1995,  21.

4.  S. Palazzolo, La nuova normativa in tema di acque pubbliche, in Dir. giur. agraria e ambiente, 1995, 6.

5.  M. Franco, L’abolizione della proprietà privata in materia di acque al vaglio della Corte Costituzionale, in Rass. giur. en. el., 1995, 236.

6.  Sugli articoli della Costituzione implicati, si v. T.E. Frosini, Dare un diritto agli assetati, Anal. Giur. Econ.,  2012, 29, in part. 31.

7.  C. Iannello, Il diritto all’acqua. Proprietà e Costituzione, Napoli, 2013, 122.

8.  Allorché la Corte afferma che Il disegno del legislatore di regolare in modo sistematico e programmato l’utilizzazione collettiva di un bene indispensabile e scarso, comporta la prevalenza delle regole amministrative di fruizione sul mero aspetto dominicale , essa non comporta una svalutazione del profilo dominicale, il quale costituisce il sostrato di scelte distributive, che sono fondamentali, e che sono facilitate nel loro operare dalla demanialità del bene (…) allo scopo di consentire un equilibrato consumo per finalità diverse da quelle domestiche. (…) l’acqua, costituisce bene di tutti e, in quanto tale, deve essere distribuita secondo criteri razionali ed imparziali stabiliti da apposite regole amministrative (Corte Costituzionale 273 del 2010).

9.  Il dibattito, che prende le mosse già da, è ricostruito in F. Cazzagon, Le acque pubbliche nel codice dell’ambiente, in Riv. giur. Amb., 2007, 435, in part. 444.

10.  F. Bruno, Tutela e gestione delle acque.  Pluralita’ di ordinamenti e governance multilivello del mare e delle risorse idriche, Milano, 2012, 29 ssg.

11.  Parere dell’allora COVIRI, 6 dicembre 2006 Separazione della gestione delle reti dalla erogazione del S.I.I.

12.  (determinato sulla base del metodo del costo storico rivalutato, calcolato al netto dei contributi pubblici in conto capitale, anch’essi rivalutati, ricevuti dal  concessionario per la realizzazione di tali opere, diminuito nella misura dell’ordinario degrado).

13.  Su questi due esempi, si v., più diffusamente, F. Lettera, Lealtà istituzionale e privatizzazione occulta delle acque pubbliche, gruppo183.org.