Suum unicuique tribuere? Alle origini della giustizia distributiva

Sommario: 1. Dono, scambio e spartizione nell’Iliade – 2.  Moneta, scambio e giustizia distributiva  nell’Etica Nicomachea – 3. Jus e res judicata, la funzione spartitoria del giudizio 4. Il bilanciamento dei diritti e dei doveri di cittadinanza nello Jus publicum – 5. Suum unicuique tribuere, una vuota formula?

1. Dono, scambio e spartizione nell’Iliade

All’origine troviamo il dono.
Scambiato con la massima reciproca diffidenza in modo da evitare il contatto diretto e il rischio di aggressione. I Fenici lasciavano i loro “doni” prima del calare del sole sulla spiaggia e ritiravano la mattina dopo quelli ricevuti in cambio. Niente contatti ravvicinati con le popolazioni indigene. La cosa donata è la forma primitiva di scambio. L’alternativa è l’appropriazione violenta.
Il Timeo Danaos et dona ferentes, nell’Eneide, testimonia ancora la consapevolezza dell’insidia insita nel gesto del dono.
Per mettere al riparo lo scambio dei doni dai latenti rischi predatori soccorrerà la sacralità del luogo ove lo scambio si realizza. Il mancato rispetto delle modalità dello scambio, nel perimetro destinato al culto, da effettuarsi con la formalità del rito, può provocare l’ira degli dei. Con l’epoca dei mercanti si arriva al punto estremo: la profanazione della sacralità del luogo fino alla loro cacciata dal Tempio.
Nella Grecia arcaica sempre di “doni” si tratta, non solo nello scambio, ma anche nella spartizione delle prede belliche. Si transita, quasi senza soluzione di continuità, dallo scambio consensuale allo spossessamento violento e alla divisione del bottino di guerra.
Con la spartizione del bottino, nell’Iliade, siamo già dentro il perimetro problematico della giustizia distributiva.
La spartizione delle prede è un atto regolato dal diritto.
Il bottino di guerra costituisce giuridicamente una forma di proprietà collettiva. Cose conquistate per effetto di un comune sforzo bellico. “Tesori in comune”, sono definiti nell’Iliade e pertanto indistintamente proprietà, a titolo originario, di tutti i combattenti che in quanto tali hanno dunque titolo per partecipare alla divisione.
La distribuzione, che fa seguito all’ammasso del bottino, suppone originariamente la soluzione della questione – giuridica –  del suum cuique tribuere. In che modo i tesori comuni vanno ripartiti? Quale è la misura del riparto? A chi, per primo, spetta la scelta? Come reclamare la propria parte?
Problema di non poco conto. La disputa giuridica sulla ri-divisione del bottino di guerra, già in precedenza spartito tra gli Achei, è il tema introduttivo dell’Iliade.
Ai tempi di Omero il tema evidentemente appassiona. Sottese al tema della spartizione, appaiono le fondamenta di legittimazione del potere politico e del suo esercizio nella Grecia arcaica.
In punto di diritto. Lo scontro tra Agamennone e Achille ruota intorno al quesito: è possibile rimettere in comune il bottino già diviso per effettuare una nuova suddivisione? È questo l’interrogativo che si pone il pubblico delle corti micenee che assiste alle recite dell’Iliade.
In concreto. Come compensare altrimenti Agamennone della perdita del suo “dono”, dato che Criseide, la schiava precedentemente attribuitogli nella originaria spartizione, è stata restituita al padre per placare l’ira degli dei?
Agamennone, forzato a cederla per evitare che nuove sciagure si abbattano sul campo dei Greci, pretende di essere risarcito per l’estorta restituzione del “dono”, affinché, come capo della spedizione militare, non rimanga – egli afferma – “ingiustamente indonato”.
Il risarcimento preteso in cambio è la sacerdotessa Briseide, anch’essa catturata ai Troiani e data in dono ad Achille. Briseide era stato probabilmente il secondo dono in ordine di importanza nella spartizione. Omero non lo dice, ma è facile supporre che dopo Agamennone, il capo della spedizione, la scelta sia toccata al guerriero più valoroso, Achille appunto.
Achille non vuole privarsi del dono (già suo). E contrasta (in diritto) le pretese di Agamennone. Contesta al “gloriosissimo Atride”… “avido sopra tutti … le sue responsabilità per quanto accaduto”.
Se, invece di dileggiare l’implorante padre della sacerdotessa Criseide e rifiutare i doni offerti per il riscatto avesse accettato lo scambio, non avrebbe causato, con la sua empietà, l’ira degli dei che, per punizione, hanno scagliato la peste contro il campo dei Greci ed imposto, così, la restituzione della sacerdotessa rapita al padre, lasciandolo privo di ogni dono.
Per Achille dunque è Agamennone il vero responsabile dell’accaduto, per cui imputet sibi il danno subito. Non solo quindi Agamennone deve sopportare la perdita del dono senza diritto a rivalersi sugli altri beneficiari della spartizione, ma, aggiunge ancora Achille – introducendo un altro complementare punto di vista giuridico – non è più possibile ridividere il bottino per l’irreversibilità di quanto già diviso che ormai è passato in proprietà altrui.
Altrimenti detto in diritto. Il bottino, come bene comune, una volta diviso, ha cessato di esistere. Non è possibile perciò una ripetizione della spartizione su un insieme di beni ormai giuridicamente non più esistente.
Cosa ti daranno un dono i magnanimi Achei? – obbietta dunque Achille – in nessun luogo vediamo ricchi tesori comuni […] sono stati divisi […] non va che i guerrieri li mettano di nuovo in comune”.
Achille propone invece che la spartizione sui prossimi bottini abbia una valenza risarcitoria del danno subito: doni maggiorati di “tre, quattro volte” dunque, per Agamennone.
La prospettiva degli interessi maggiorati non basta però a distogliere Agamennone dalla sua immediata pretesa.

Achille infine cede ed subisce lo spossessamento della schiava Briseide. Il mancato rispetto del patto di spartizione autorizza però Achille ad astenersi dalla guerra e a ritirarsi nel suo accampamento rifiutando di prendere parte agli scontri con i Troiani.
Il suum cuique tribuere è stato dunque infranto.
Ed in effetti nessuno osa contestare ad Achille la legittimità del suo comportamento. Nessuna traccia nel poema di accuse di fellonia o di tradimento.
Non sono state rispettate le regole di ingaggio – verrebbe da dire con formula attuale – ed Achille ha incontestabilmente diritto, per eccezione di inadempimento, a recedere dall’impegno bellico.
L’Iliade, con questo episodio, ci dice già molto sulla struttura arcaica del suum unicuique tribuere. Dal racconto emerge un criterio bipolare. La ponderazione tra potere di comando e merito guerriero. Il punto di equilibrio è delicato.
La corretta spartizione è essenziale per la conservazione della coesione bellica.
Con l’esibizione dei singoli pezzi all’assemblea, ha inizio la procedura per la distribuzione del bottino. Ogni guerriero di fronte a tutti gli altri, può reclamare, secondo quello che ritiene essere il grado e/o merito che comparativamente gli spetta, l’oggetto che vuole avere donato.
Nel corso della procedura si commisurano dunque i rispettivi ruoli dei guerrieri e si ristabilisce o si altera la gerarchia dignitaria.
In presenza di più rivendicazioni sulla stessa cosa, si incrociano e si misurano rapporti di potere e di status. Il suum cuique tribuere, in qualche modo, si tira dietro il riconoscimento e la conferma del ruolo dignitario.
In questo senso la parola dono in greco (ghiera) significa in senso traslato anche “prerogativa, dignità”. La cosa donata definisce di riflesso il rango e il grado dignitario di chi la riceve.
L’ordine di assegnazione dei doni afferma o conferma dunque lo status sociale di chi lo riceve.
Il suum cui tribuere mette in luce così, sin dal suo apparire, il dilemma fondativo della giustizia distributiva in quanto politica.
La disputa giuridica dell’Iliade lascia chiaramente trasparire un sotteso conflitto di potere (bipolare) tra l’importanza dell’apporto individuale alla vittoria e la gerarchia militare, e la conseguente necessità di trovare un punto di equilibrio.
Il giusto peso – il bilanciamento verrebbe da dire – tra questi due elementi costitutivi della gerarchia della società micenea – definisce pertanto l’iniziale perimetro problematico del suum unicuique tribuere.
Nell’Iliade Achille rappresenta le ragioni del merito guerriero. Agamennone rivendica quelle del potere militare.
L’equilibrio sembrerebbe essere necessariamente il risultato di un atto meramente ricognitivo che prende atto degli effettivi rapporti di forza tra quei valori in un contesto mutevole di rapporti di forza. Al dunque, bisogna riconoscere il punto di equilibrio sotteso alla spartizione senza forzarlo o cercare di alterarlo. Agamennone dunque ha torto.
Bisogna allora evitare, per il bene di tutti, forzature che facciano esplodere il conflitto intestino.
Ma come ?
Da qui l’importanza del rito della spartizione. La proto procedura della messa in comune, della ostentazione e della rivendicazione delle cose che fanno parte del bottino serve a stemperare l’insorgere dei conflitti, a consentire a tutti di prendere meglio le misure di sé e degli altri e ad oggettivare la competizione reciproca  rendendola un volta assegnata la preda non più contestabile.
L’adunanza avanti alla quale si susseguono le singole rivendicazioni dei guerrieri non decide sull’assegnazione. Essa è comune testimone, ma non arbitro della spartizione. Tuttavia in quanto testimone collettivo svolge il ruolo decisivo ed in qualche modo effettivamente pondera le contrapposte pretese.
La comunità dei guerrieri conosce la gerarchia militare e ha cognizione del valore individuale espressosi in battaglia. Il suo giudizio, è evidente ed immediatamente avvertibile. Tutti sanno tutto. Non ci sono difetti di comunicazione e il tacito giudizio dei combattenti non può essere disatteso dai capi,
È pericoloso umiliare l’eroismo individuale manifestatosi in battaglia. Si rischia di deprimere la coesione del gruppo e di provocare un imprudente perdita di legittimazione dei capi militari.
La giusta misura nella distribuzione delle cose conquistate con la forza al nemico è essenziale per assicurare la compattezza dei combattenti, ne rinsalda l’unione. Si evita soprattutto che, nella fase finale della battaglia, i saccheggi individuali possano disperdere la compattezza dell’assalto di modo che la vittoria sfugga di mano all’ultimo momento.
Il capo non può esporsi ponendosi sullo stesso piano degli altri guerrieri nella contestazione delle cose da spartire. Deve accettare il verdetto inespresso dell’assemblea e non provocarlo come Agamennone.
La conferma della importanza, della equa distribuzione del bottino nelle società guerriere è dato – ancora, nell’alto medioevo – dalla famosa (in Francia) vicenda del vaso di Soissons. Il re dei franchi Clodoveo, di fronte all’assemblea dei suoi guerrieri vittoriosi, non si oppone alla pretesa di un valoroso combattente di vedersi assegnato il vaso che egli stesso aveva richiesto, salvo a punirlo in seguito per la sua sfrontatezza. Allorché il malcapitato beneficiario gli capita di nuovo a tiro Clodoveo lo uccide, dichiarando di vendicarsi in questo modo dell’affronto che aveva dovuto subire a Soissons.
Foucault riferisce l’episodio esplicitando il sottostante dilemma del suum cuique tribuere.“Allorché venivano divise le ricchezze quali erano i diritti del re, rispetto ai diritti dei suoi guerrieri?”[1].

2. Moneta, mercato e giustizia distributiva nell’Etica Nicomachea
All’epoca di Aristotele, l’ambiguità semantica del dono si è dissolta.
Con la moneta, il metro oggettivo di misurazione dell’equivalenza dei valori nello scambio tra privati ha preso forma. E il suum cuique tribuere ha trovato la sua misura di equivalenza nella moneta. Nell’etica Nicomachea, Aristotele fornisce della moneta una formulazione tuttora appagante: “ Mezzo di scambio […] nata per convenzione, perché non esiste in natura, ma nomisma (moneta legale che deriva da nomos (legge)” e “la moneta, come misura, parifica le merci perché le rende tra loro commensurabili”.
Il commercio su base monetaria si apre in questo modo la strada all’interno della città e del mercato sostituendosi al baratto. Il baratto è ancora scambio di “doni”, nel quale ancora l’equivalenza dei valori (d’uso) delle cose scambiate era apprezzata soggettivamente come effetto del reciproco equivalente apprezzamento delle parti. Lo scambio non è dunque “ con-misurabile ” oggettivamente come da allora in poi avviene nel mondo occidentale su base monetaria.
Con la moneta e “la parificazione delle merci”, invece, la misura della “giustezza” nello scambio (il prezzo) si forma nell’incontro tra domanda e offerta che, di per sé, definisce la misura obbiettiva del valore delle cose scambiate non solo tra le parti ma per tutta quella che già Aristotele chiama la “comunità di scambio” e che, oggi, denomineremmo, con lo stesso significato, il mercato. Aristotele considera lo scambio monetario un metodo commutativo per rendersi giustizia reciprocamente nell’equilibrio del sinallagma[2].
Si potrebbe, ora dire con sguardo teorico retrospettivo che l’affermazione della moneta sia stata coessenziale al sorgere dell’economia di mercato[3].
Il passaggio allo scambio commerciale basato sulla moneta segna l’estensione del commercio a scapito della guerra. Si indebolisce la contiguità tra scambio dei doni e guerra intesi, ancora ai tempi arcaici di Sparta e poi di Roma, come due mezzi alternativi di raggiungere lo stesso scopo possedere ciò che si desidera[4].
Anche se si fa risalire all’etica Nicomachea la distinzione dalla “giustizia in generale” della “giustizia distributiva” e dalla “giustizia commutativa”, Aristotele non usa tali formule, ma fa riferimento piuttosto alla giustizia particolare (circoscritta) contrapposta, ma non opposta, a quella generale, consistente, per ognuno e per tutti, nella ricerca della virtù.
All’interno della giustizia circoscritta distingue la giustizia nella “reciprocità” da quella “correttiva”. Entrambe sono distinte dalla giustizia nella divisione dei beni tra i cittadini . Giustizia “distributiva” o, ancora meglio, “politica” stante il carattere coessenziale della stessa, per il filosofo greco, con il sistema politico della Città Stato[5].
Per distinguere meglio la giustizia universale (assoluta, tesa alla virtù) da quella concreta (relativa, sia civile che politica) converrebbe, seguendo l’etimo della parola greca impiegata da Aristotele, definire quest’ultima come “giustezza” come una misura concreta di rapporti tra pari. Solo in questo ultimo ambito problematico si colloca il suum cuique tribuere.
Ma la misurazione della giustizia politica “circoscritta” all’interno della polis rimane, a differenza di quello sinallagmatica, un problema posto ma ancora non risolto nell’Etica Nicomachea.
Appare irrisolto il quesito sulla commisurazione ritenuta socialmente equa del riparto di quanto deve essere attribuito tra i cittadini.
Nell’opera di Aristotele la struttura logico-giuridica del suum unicuique tribuere non sembra differire sostanzialmente da quella che abbiamo visto emergere dal poema omerico.
È sempre lo scioglimento del nesso problematico costitutivo del potere politico che emerge al fondo del quesito. La ricerca della “giustezza” – quindi dei criteri del riparto politico e circoscritto tra i cittadini – è ora posta esplicitamente dal filosofo greco.
È preferibile parlare di “giustezza”, secondo il significato desumibile nell’etica Nicomachea, più che di giustizia in quanto per Aristotele non si tratta tanto di stabilire in astratto quale debba essere il comportamento giusto derivante dall’esercizio della virtù nella sua completezza[6], quanto piuttosto di misurare, sulla base di parametri che emergono dalle concrete circostanze, quanto dovuto ad ognuno di quelli che hanno titolo, in quanto cittadini, a partecipare alla distribuzione.
Per Aristotele “il rapporto tra le cose deve essere lo stesso di quello (che intercorre) tra le persone. Se infatti (le persone) non sono uguali non avranno cose uguali”.
Ma come trovare il punto di equilibrio?
La scelta del criterio di riparto rimanda ancora al conflitto di potere. Siamo all’interno della giustizia circoscritta ed in senso limitativo. Il punto di equilibrio si deve cercare entro rapporti di forza pre-determinati. Il punto mediano non è perciò, quasi mai, la divisione delle cose in parti uguali.
Il raggiungimento di un qualche equilibrio è cruciale per il bene della città. Bisogna dunque, all’interno di una plurilaterale correlazione già sussistente tra cose e persone, stabilire la giusta proporzione. Altrimenti, osserva il filosofo greco, “le lotte e le recriminazioni allora sorgono: quando persone uguali ricevono cose disuguali o quando persone disuguali hanno o ricevono cose uguali[7]. È necessario che la proporzionalità, nella distribuzione dei beni comuni, avvenga secondo “il medesimo rapporto in cui si trovano, l’uno nei riguardi dell’altro, i diversi contributi originariamente apportati”.
Il discorso sul merito diventa così esplicitamente politico e risultato di una comune percezione del punto di equilibrio nel dare e nell’avere reciproco tra i cittadini tutti, che parifichi e risolva il virtuale conflitto intestino di interessi nella città.

Il come rinvenire questo punto di bilanciamento, dunque, è un problema circoscritto di giustizia particolare specifico di ogni singola polis, secondo il suo ordinamento politico.
Un proto problema – verrebbe da dire riprendendo Rawls – di ricerca di un consenso per intersezione?
Nell’Etica Nicomachea, Aristotele osserva sempre: “Tutti, infatti, concordano che il giusto nella distribuzione deve essere conforme ad una «certa» (tina in greco) proporzione, ma poi non tutti intendono il merito allo stesso modo: i democratici lo intendono come condizione libera, gli oligarchi come ricchezza o come nobiltà di nascita, gli aristocratici come virtù[8]. Il giusto in conclusione – taglia corto e non va oltre Aristotele – è un che di proporzionale. Sarà il contesto politico in ragione dei rapporti di forza tra confliggenti valori che definirà quella misura.
Riappare, sullo sfondo del ragionamento aristotelico, la disputa tra gli Achei sulla spartizione del bottino e la controversa misurazione del “rapporto in cui si trovano gli uni nei riguardi dell’altro i diversi contributi originariamente apportati”.
Sulla strada della ricerca del metodo di riparto concreto, non ottimo ma ottimale, si pone, per il romanista francese Villey anche lo specifico campo ed il quid proprium del diritto romano. Villey attribuisce ad A. il merito della scoperta del diritto come “metodo della spartizione delle cose esteriori” e ai romani quello di averlo perfezionato compiutamente[9].
Con il diritto romano repubblicano, la distinzione del suum unicuique tribuere diventa ancora più netta tra la sfera del diritto civile e quella del diritto pubblico.

3.  Jus e res judicata, la funzione spartitoria del giudizio 
Anche nel diritto civile romano, come nella polis greca, la proporzionalità può, ora, essere sempre verificata e controllata da un “terzo”: il Giudice ha l’ultima parola sulla definizione della giusta misura e può apportare anche correzioni a quanto già spartito.
Il giudizio tra privati verte essenzialmente sulla misura del suum unicuique tribuere da riconoscere ad ognuna delle parti in conflitto.
Anche l’etimo delle parole in greco e latino tramanda questa originaria funzione spartitoria del giudizio. Spetta al giudice fare le parti e per questo è giudice (in greco dike), in quanto, come aveva già detto Aristotele “egli è colui che divide in parti uguali”. Al contempo, il giudice è anche detto “mediatore” perché nel fare le parti “si cerca il giudice come termine medio ed il giudizio costituisce in sé la soluzione intermedia tra i contendenti e per Aristotele, quindi, equilibrata[10].
Nel diritto romano si assiste ad un perfezionamento delle tecniche giuridiche con le quali misurare il suum unicuique tribuere: il contraddittorio processuale. Cicerone, nel De oratore, connette lo scopo del diritto nel diritto civile alla conservazione della giusta proporzione nella divisione dei beni. La famosa formula: sit ergo in jure civili finis hic legitimae atque usitatae in rebus causisque civium aequabilitatis conservatio[11].
L’accostamento del sintagma “Ex facto oritur jus” al verso di Orazio “est modus in rebus, sunt certi denique fines quos ultra citraque nequit consistere rectum” ci dà conto immediatamente  della genesi fattuale del diritto. Essenzialmente una misura, insita nelle cose stesse, i cui esatti confini, non prima ma non oltre i quali, definiscono la misurazione del giusto. Rectum, appunto, come distanza tra due punti.
Questi equi confini all’interno delle cose, ricercati dal giudice, vanno ristabiliti tra le parti.
Il giudizio civile ha essenzialmente una funzione restaurativa e conservativa dei rapporti preesistenti tra i cittadini. Il termine jus è pertanto una attività concreta che ha a vedere con la misura della utilizzabilità e spettanza delle cose e quindi serve a ripartirle attualmente risolvendo le dispute possessorie al riguardo. Nella concretezza del diritto romano, sono dunque le cose (res) che costituiscono oggetto della contesa e del giudizio. Ed è la res ciò che effettivamente spetta, per cui la cosa attribuita al termine del giudizio diviene la res judicata ovvero gli “jura” come misure sulle cose o – che a quel punto è la stessa cosa per traslazione di senso – i diritti sulle cose materiali ed immateriali (onori, dignità, oneri, poteri su persone) se del caso ripartite dal giudice.
Jus in definitiva come misura[12] che ad ognuno spetta sulle cose disputate[13].
La verifica della congruità nell’equa misura nello scambio, o nella divisione di beni, tra cittadini e che si svolge davanti al giudice definisce l’ambito proprio della giustizia “commutativa”, “sinallagmatica”, “correttiva”.

4. Il bilanciamento dei diritti e dei doveri di cittadinanza nello Jus publicum
La giustizia distributiva, invece, essenzialmente politica, si stacca nettamente nel diritto romano dal diritto della polis e dallo stesso jus civile. le sue forme di strutturazione e manifestazione  rientrano invece nella sfera costitutiva del diritto pubblico.
Anche per i romani il suum cuique tribuere presuppone nella giustizia distributiva l’uguaglianza nella sussistenza di “un medesimo rapporto”.  Lo status di cittadinanza. Aristotele già lo identificava con “la condizione libera” (nella città). Nello stesso senso anche Gaio “aut liberi aut servi[14].
Nella giustizia circoscritta, dunque politica, è la cittadinanza il parametro sui cui si fonda il suum cuique tribuere nella correlazione che si impone tra diritti e doveri dello status di libero cittadino.
Nel diritto pubblico romano, la correlazione tra diritti e doveri dei cittadini rende ancora oggi particolarmente avvincente rintracciare la soluzione del quesito del suum cuique tribuere.
Nella Repubblica la formula si concretizza in un bilanciamento – che oggi si potrebbe dire –costituzionale. Ricchezza, nobiltà, valore di ogni cittadino hanno un loro specifico peso entro un predeterminato ordine gerarchico della cittadinanza costituito dal censo (census). In questo modo  tutti i cittadini, all’interno dello categoria censuaria cui appartengono, sono messi in condizione di dare il proprio apporto al bene comune (res pubblica) della città e conseguentemente di usufruire dei vantaggi in base al contributo da loro arrecato alla cosa pubblica.

Si ritrova qui il punto di vista aristotelico della necessità di misurare “il rapporto in cui si trovano, gli uni nei riguardi dell’altro, i diversi contributi originariamente apportati”. Ma il principio nel diritto pubblico romano risulta ora traslato in chiavi applicative.
Il peso politico ponderato è favorevole ai ceti più agiati e socialmente potenti. Su questi, al contempo, ricadono i maggiori oneri contributivi fiscali e i doveri militari.
Il rapporto contributivo e distributivo sono chiaramente tra loro rapportati in modo manifesto per tutti. Il bilanciamento degli onori e degli oneri incombe sui cittadini romani secondo l’appartenenza alle diverse categorie in cui tutti sono suddivisi in base al censo.
Il sintagma Cuius honor eius onera rende con tutta evidenza il nesso che lega il riconoscimento di un pubblico onore al peso che il suo espletamento comporta.
Per gli storici e i giureconsulti romani (Livio, Cicerone) “si tratta di equilibrare, come nello scambio commerciale ideale, nel modo migliore il dare e l’avere di ogni cittadino per e dalla comunità, tenendo conto di tutto quello che lo caratterizza” (ricchezza, origine delle famiglia, età, attitudini fisiche e morali). Sulla base di questi criteri – che nella loro applicazione “ non riflettono altro che l’opinione comune di tutti su ognuno” – i magistrati incaricati del census ripartiscono i cittadini nelle varie centurie ed ogni cittadino ha il diritto di reclamarvi di essere incluso[15]. Il censo è la misura del dare e dell’avere al contempo, dunque, del gravame di tributi e degli oneri militari nonché, conseguentemente, della dignità sociale e peso elettorale spettante ad ogni centuria. Man mano che si scende nel grado, gli oneri e il potenziale di voto della centuria diminuiscono, fino quasi a sparire per la popolatissima centuria dei proletari. Questa raccoglie la metà dei cittadini maschi. È esentata da tributi e dagli obblighi militari ma conta, correlativamente meno dell’1 per cento nell’attribuzione dei voti elettorali.
È interessante come i Romani fossero consapevoli di aver stabilito in questo modo una misurazione obbiettiva ed un riparto di dare ed avere tra obblighi e onori analogo alla misurazione obbiettiva che risulta dal prezzo delle merci nel mercato.
Della superiorità del loro modello di suum cuique tribuere i Romani erano “chiaramente coscienti […] un sistema di organizzazione civica assai compatto e strutturato il cui fine supremo era appunto ai loro occhi l’introduzione di un equilibrio quanto più perfetto in tale distribuzione di vantaggi e inconvenienti di oneri ed onori”[16].
Una concezione dell’equilibrio istituzionale che sembra anche questa in qualche modo attagliarsi alla concezione della giustizia politica di Rawls per la quale “ la giustizia come equità ha uno scopo pratico” ritenuta tale in modo “pubblicamente accettabile”. “Una idea organizzatrice fondamentale” “in cui tutti i cittadini potranno esaminare, l’uno di fronte all’altro, se le loro istituzioni sono giuste” e “valutare, allo stesso modo, le principali istituzioni della società e giudicare se esse si inseriscano armonicamente l’una nell’altra formando un unico sistema di cooperazione sociale e potrà farlo quali che siano la posizione sociale ed interessi particolari [17]”.
È difficile perciò non estendere alle istituzioni della Roma repubblicana il riconoscimento di quell’assetto cooperativo di base che costituisce per Rawls il fondamento della giustizia politica.
È rintracciabile la stessa sottesa esigenza di trovare praticamente il metro di valutazione della “adeguatezza” (“giustezza” per Aristotele). Anche per i romani, come per Rawls, si potrebbe dire che nella cooperazione sociale “gli equi termini di cooperazione specificano una idea di reciprocità: tutti coloro che cooperano e che fanno la propria parte nel modo richiesto dalle regole e procedure, devono ricavarne un beneficio adeguato dove l’adeguatezza è valutata mediante un metro di paragone appropriato. L’idea della cooperazione sociale presuppone quella di vantaggio razionale per ogni partecipante …. .. che siano persone famiglie, associazioni o anche governi di interi popoli [18].
C’è forse dell’altro per i romani.
Se posiamo lo sguardo sull’insieme di queste relazioni di potere e di appartenenza, possiamo accorgerci come l’intestina lotta sociale per il potere nella comunità sia stata metamorfizzata in modo da renderla concretamente sinergica e funzionale all’affermazione della supremazia della repubblica a partire dalle originarie istituzioni sociali del popolo romano per cui tutte “ le persone, famiglie associazioni e tribù” ne traggono in quanto tali reciproco vantaggio.
Ed in effetti la famiglia romana, la tribù e, soprattutto, la gens, hanno insita una costituzione fondamentalmente politica. La possibilità di estendere la famiglia e il gruppo gentilizio tramite affiliazioni, emancipazioni, apparentamenti e clientele fa sì che la sua composizione possa essere rafforzata convenzionalmente. Si acquisiscono in questo modo, al di là del legame di sangue, gli “uomini nuovi” provenienti anche da censi inferiori ma capaci, sui quali fare affidamento nella competizione dell’arena politica per l’attribuzione dei pubblici poteri. Il loro conferimento rafforza evidentemente il prestigio ed il potere politico della gens cui l’eletto appartiene.
La competizione si svolge dunque sul terreno del contributo da apportare ed effettivamente apportato alla repubblica . La valutazione è comunitaria, ma non plebiscitaria o assembleare. Essa è rimessa alle determinazioni del popolo romano in specifiche circostanze e luoghi ove si innescano il confronto e il contradditorio.
Gli uni di fronte agli altri direbbe Rawls.
Nei comitia e nelle riunioni del Senato si forma e si manifesta l’opinione pubblica. Chi aspira a cariche pubbliche deve rendere conto del proprio operato davanti a queste istanze politiche che contrassegnano niente d’altro che l’opinione comune di tutti su ognuno.

Questi ripetuti passaggi scandiscono il cursus honorum. Un circolo politico virtuoso. Un nesso ascensionale, dunque, dalla famiglia alla comunità dei cittadini, dalla gens alla gestione della cosa pubblica, piega l’ambizione personale al servizio delle istituzioni repubblicane incentrando con la valutazione pubblica alla com-misurazione del suum cuique tribuere al contributo dato da ognuno alla res-pubblica.

5. Suum cuique tribuere, una vuota formula?
Il consolidarsi di un potere legittimamente sovrastante, come quello dell’imperatore cambia radicalmente la prospettiva. Dall’alto verso il basso.
Si commisura il suum di ognuno, nel dare e nel ricevere, non più ad un riconoscimento di quanto dovuto nel “tribuere”, ma lo si fa discendere da un atto di superiore degnazione che si manifesta nel “distribuere” nel recedere all’interno della agostiniana civitas terrena[19]. In Tommaso, poi, il tribuere è sostituito dal “reddere”. Un altro cambiamento di prospettiva. “Proprius actus iustitiae nihil est aliud quam reddere unicuique quod suum est”. Siamo nella logica aristotelica (correttiva e commutativa) rinchiusa però essenzialmente nel diritto civile. La dimensione politica pubblica del quesito si è nel frattempo dissolta.
Villey in particolare rimprovera ai romanisti, anche moderni, di essersi allineati a quest’ultima lettura riduttiva e di avere falsificato (consapevolmente?) la formula originaria facendola retrocedere ad un atto giudiziale di mero accertamento di un debito[20].
Il Sintagma suum unicuique tribuere decontestualizzato dalla comunità dei cittadini ed estromesso dalla città terrena, appare perciò destinato alla banalizzazione. Divenire appunto una vuota formula.
Il senso progressivamente riduttivo della applicazione del sintagma, a partire dal basso medioevo, è nel saggio di Leo Peppe. Questi osserva, in conclusione, con un occhio rivolto all’oggi come “altri studiosi, […] hanno ribadito la convinzione già kelseniana … circa il sintagma cuique suum che esso, così come jedem das Seine, di per se stesso non esprima in realtà un contenuto, ma sarebbe una formula vuota che di volta in volta lo riceve dai concreti ordinamenti […]”[21]. È di questo avviso anche Gustavo Zagrebelsky, “formule come queste possono essere accolte da chiunque […]. I campi di sterminio, per esempio, sono in regola con questa massima della giustizia. Il motto di benvenuto al campo di Buchenwald […] era, per l’appunto, jedem das Seine, a ciascuno il suo, […]”[22].
Con la sostituzione del legislatore all’imperatore nella decisione sulla giustizia distributiva, il sintagma degenera perdendosi il senso di ogni collegamento con il rapporto originario di cittadinanza nella polis. Non è un caso che sia stato Kelsen, teorico del positivismo giuridico come scienza pura del diritto, a liquidare la formula come priva di senso.
La rivisitazione effettuata invece fa tornare alla mente il monito, poco positivista, di Orestano sulla storicità del metodo giuridico: “Nessuna soluzione del problema metodologico si potrà arrivare se non si acquisti piena consapevolezza del proprio condizionamento storico[23].
L’espulsione dal campo di rilevazione del diritto di principi giuridici contestualizzati e fondati sull’etica pubblica della cittadinanza, ha spazzato via, insieme alle impurità concettuali, vere o presunte, anche il fondamento etico della giustizia politica.
È il caso, perciò, di ricordare come per Aristotele anche la giustizia particolare non sia esentata dal dovere relazionale tra i cittadini di ricerca della giustizia, come rispetto del bene degli altri[24]. Nella sua originaria integrale formulazione anche in Gaio il suum cuique tribuere” si lega immediatamente con precetti etico-giuridici: “honeste vivere, alterum non laedere […].
Con il positivismo giuridico, l’etica ed il diritto hanno definitivamente preso strade diverse. Il quantum del suum è stabilito dal potere sovrastante del legislatore che si è sostituito al principe. Il rischio di abusi insito in questa operazione, in cui il riparto politico delle cose non più è giustiziabile, era già stato denunciato nell’Etica Nicomachea, in quanto “anche chi commette l’attribuzione può commettere ingiustizia[25].
Imperante il positivismo giuridico la volontà del legislatore toglie e attribuisce parti che al contempo, sempre per Aristotele, possono essere legali (esercizio del potere legale) ma ingiuste. Il punto di arrivo di questo percorso patologico è sotto gli occhi di tutti. Gli abusi autoreferenziali nella auto-attribuzione delle risorse pubbliche da parte del legislatore e del governo politico.
Il lascito del sum unicuique tribuere, come vana formula, ripropone irrisolto perciò. Oggi, il sotteso interrogativo. Come è possibile una definizione dei rapporti (diritti e doveri) di cittadinanza fondata su di una base giuridica eticamente condivisa?
In questo senso, dal punto di vista dell’etica del “reciproco rispetto” di Rawls, i limiti dello  svuotamento del contenuto etico del diritto nella concezione  Kelseniana “del tutto indipendente dal significato morale di una norma” sono stati messi di recente in evidenza nel pensiero sociologico tedesco da Morgenthau e Habermas da S. Maffettone[26] che avanza anche dubbi sulla praticabilità di una teoria procedurale come correttivo democratico nell’elaborazione della norma giuridica[27].
Se si evade dal filtro positivista e si sposta il discorso sul diritto come rapporto è possibile constatare come questa relazione dei doveri e dei diritti tra cittadini sembra tutt’altro che assente nella nostra Costituzione. Anzi, l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale appare il nesso relazione della cittadinanza nell’art. 2, così come al contempo si configura come l’elemento fondativo del lavoro quale diritto/dovere dei cittadini, declinato poi in termini di rapporti economici nel titolo III [28].
C’è da chiedersi piuttosto, in conclusione, come ulteriore ambito di indagine, se l’interrogativo del suum cuique tribuere, liquidato come irrilevante dalla teorica kelseniana, sia suscettibile di essere, invece, contestualizzato nel testo della nostra Costituzione nella logica della giustizia politica, secondo l’articolazione del principio solidaristico seguendo la “gerarchia etica” dei doveri di solidarietà nella articolazione dei rapporti giuridici costituzionalmente rilevanti nel titolo II e III della Costituzione della repubblica.

Note

1.  M. Foucault, Bisogna difendere la società civile, Milano, 1998, p. 70.

2.  Aristotele, Etica Nicomachea, Milano, 2007, p. 201.

3.  G. Di Gaspare, Diritto dell’economia e dinamiche istituzionali, Padova, 2003, p. 17.

4.  B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni,Torino,2003, p.10.

5.  Aristotele, Ibidem, p. 195.

6. ] Aristotele, Ibidem, p. 191.

7.  Aristotele, Ibidem, p. 195.

8.  Aristotele, Ibidem, p. 197

9.  M. Villey, Le droit e les droits de l’homme, PUF, Paris, 1990, p. 47 s.

10.  Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 199.

11.  Cicerone, De oratore, I, p. 189

12.  Una notazione  personale. Nei paesi dell’alta Sabina la locuzione  “na jura ‘e focu” stava significare la  giusta misura che può essere richiesta per accendere un focolare (e deve essere data da chi ne ha uno già accesso).

13.  M. Villey, Le droit et les droits de l’homme, cit. p. 45.

14.  In senso non molto dissimile all’artificio espositivo di “posizione di base” dei partecipanti ad un sistema di giustizia politica  in           J. Rawls, Liberalismo politico, Ed. Comunità, 1999, p. 27.

15.  C. Nicolet, Il cittadino, il politico, in L’uomo romano, a cura di A. Giardina, Bari, 1993, p. 14

16.  C. Nicolet, Ibidem, p. 13.

17.  J. Rawls, Liberalismo politico,cit., p. 27, Rawls non prende peraltro in considerazione l’epoca greco romana, nella sua  concezione della giustizia come equità retrodatandone la genesi storica al superamento delle lotte di religione in Europa e alla accettazione progressiva del pluralismo ideologico in Europa e poi negli Stati Uniti.

18.    J. Rawls, op. ult. cit., p. 32 ss.

19.  Augustini, De civitate dei, 19. 21. 1: Iustitia porro ea virus est quae sua cuique distribuit.

20.  M. Villey, Le droit e les droits de l’homme, cit., p. 62.

21.  L. Peppe, Riflessioni sulla nozione di giustizia nella tradizione giuridica europea, in Jus Antiquum, 2007, p. 116.

22.  G. Zagrebelsky, Il difficile compito di fare giustizia, Repubblica, 16 novembre 2004.

23.  R. Orestano, Introduzione allo studio storico del diritto romano, Torino, 1963, p. 339.

24.  Aristotele, cit. p. 191.

25.  Aristotele, cit. p. 219.

26.  S.   Maffettone, Un mondo migliore, giustizia globale tra Leviatano e Cosmopoli, LUISS University Press, 2013, p. 54 ss.

27.   Ibidem, p. 142 ss.

28.  G. Di Gaspare, Il lavoro quale fondamento della Repubblica, Diritto pubblico, n. 3, 2008.