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Suum unicuique tribuere? Alle origini della giustizia distributiva

di - 28 Giugno 2014
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Si ritrova qui il punto di vista aristotelico della necessità di misurare “il rapporto in cui si trovano, gli uni nei riguardi dell’altro, i diversi contributi originariamente apportati”. Ma il principio nel diritto pubblico romano risulta ora traslato in chiavi applicative.
Il peso politico ponderato è favorevole ai ceti più agiati e socialmente potenti. Su questi, al contempo, ricadono i maggiori oneri contributivi fiscali e i doveri militari.
Il rapporto contributivo e distributivo sono chiaramente tra loro rapportati in modo manifesto per tutti. Il bilanciamento degli onori e degli oneri incombe sui cittadini romani secondo l’appartenenza alle diverse categorie in cui tutti sono suddivisi in base al censo.
Il sintagma Cuius honor eius onera rende con tutta evidenza il nesso che lega il riconoscimento di un pubblico onore al peso che il suo espletamento comporta.
Per gli storici e i giureconsulti romani (Livio, Cicerone) “si tratta di equilibrare, come nello scambio commerciale ideale, nel modo migliore il dare e l’avere di ogni cittadino per e dalla comunità, tenendo conto di tutto quello che lo caratterizza” (ricchezza, origine delle famiglia, età, attitudini fisiche e morali). Sulla base di questi criteri – che nella loro applicazione “ non riflettono altro che l’opinione comune di tutti su ognuno” – i magistrati incaricati del census ripartiscono i cittadini nelle varie centurie ed ogni cittadino ha il diritto di reclamarvi di essere incluso[15]. Il censo è la misura del dare e dell’avere al contempo, dunque, del gravame di tributi e degli oneri militari nonché, conseguentemente, della dignità sociale e peso elettorale spettante ad ogni centuria. Man mano che si scende nel grado, gli oneri e il potenziale di voto della centuria diminuiscono, fino quasi a sparire per la popolatissima centuria dei proletari. Questa raccoglie la metà dei cittadini maschi. È esentata da tributi e dagli obblighi militari ma conta, correlativamente meno dell’1 per cento nell’attribuzione dei voti elettorali.
È interessante come i Romani fossero consapevoli di aver stabilito in questo modo una misurazione obbiettiva ed un riparto di dare ed avere tra obblighi e onori analogo alla misurazione obbiettiva che risulta dal prezzo delle merci nel mercato.
Della superiorità del loro modello di suum cuique tribuere i Romani erano “chiaramente coscienti […] un sistema di organizzazione civica assai compatto e strutturato il cui fine supremo era appunto ai loro occhi l’introduzione di un equilibrio quanto più perfetto in tale distribuzione di vantaggi e inconvenienti di oneri ed onori”[16].
Una concezione dell’equilibrio istituzionale che sembra anche questa in qualche modo attagliarsi alla concezione della giustizia politica di Rawls per la quale “ la giustizia come equità ha uno scopo pratico” ritenuta tale in modo “pubblicamente accettabile”. “Una idea organizzatrice fondamentale” “in cui tutti i cittadini potranno esaminare, l’uno di fronte all’altro, se le loro istituzioni sono giuste” e “valutare, allo stesso modo, le principali istituzioni della società e giudicare se esse si inseriscano armonicamente l’una nell’altra formando un unico sistema di cooperazione sociale e potrà farlo quali che siano la posizione sociale ed interessi particolari [17]”.
È difficile perciò non estendere alle istituzioni della Roma repubblicana il riconoscimento di quell’assetto cooperativo di base che costituisce per Rawls il fondamento della giustizia politica.
È rintracciabile la stessa sottesa esigenza di trovare praticamente il metro di valutazione della “adeguatezza” (“giustezza” per Aristotele). Anche per i romani, come per Rawls, si potrebbe dire che nella cooperazione sociale “gli equi termini di cooperazione specificano una idea di reciprocità: tutti coloro che cooperano e che fanno la propria parte nel modo richiesto dalle regole e procedure, devono ricavarne un beneficio adeguato dove l’adeguatezza è valutata mediante un metro di paragone appropriato. L’idea della cooperazione sociale presuppone quella di vantaggio razionale per ogni partecipante …. .. che siano persone famiglie, associazioni o anche governi di interi popoli [18].
C’è forse dell’altro per i romani.
Se posiamo lo sguardo sull’insieme di queste relazioni di potere e di appartenenza, possiamo accorgerci come l’intestina lotta sociale per il potere nella comunità sia stata metamorfizzata in modo da renderla concretamente sinergica e funzionale all’affermazione della supremazia della repubblica a partire dalle originarie istituzioni sociali del popolo romano per cui tutte “ le persone, famiglie associazioni e tribù” ne traggono in quanto tali reciproco vantaggio.
Ed in effetti la famiglia romana, la tribù e, soprattutto, la gens, hanno insita una costituzione fondamentalmente politica. La possibilità di estendere la famiglia e il gruppo gentilizio tramite affiliazioni, emancipazioni, apparentamenti e clientele fa sì che la sua composizione possa essere rafforzata convenzionalmente. Si acquisiscono in questo modo, al di là del legame di sangue, gli “uomini nuovi” provenienti anche da censi inferiori ma capaci, sui quali fare affidamento nella competizione dell’arena politica per l’attribuzione dei pubblici poteri. Il loro conferimento rafforza evidentemente il prestigio ed il potere politico della gens cui l’eletto appartiene.
La competizione si svolge dunque sul terreno del contributo da apportare ed effettivamente apportato alla repubblica . La valutazione è comunitaria, ma non plebiscitaria o assembleare. Essa è rimessa alle determinazioni del popolo romano in specifiche circostanze e luoghi ove si innescano il confronto e il contradditorio.
Gli uni di fronte agli altri direbbe Rawls.
Nei comitia e nelle riunioni del Senato si forma e si manifesta l’opinione pubblica. Chi aspira a cariche pubbliche deve rendere conto del proprio operato davanti a queste istanze politiche che contrassegnano niente d’altro che l’opinione comune di tutti su ognuno.

Note

15.  C. Nicolet, Il cittadino, il politico, in L’uomo romano, a cura di A. Giardina, Bari, 1993, p. 14

16.  C. Nicolet, Ibidem, p. 13.

17.  J. Rawls, Liberalismo politico,cit., p. 27, Rawls non prende peraltro in considerazione l’epoca greco romana, nella sua  concezione della giustizia come equità retrodatandone la genesi storica al superamento delle lotte di religione in Europa e alla accettazione progressiva del pluralismo ideologico in Europa e poi negli Stati Uniti.

18.    J. Rawls, op. ult. cit., p. 32 ss.

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