Suum unicuique tribuere? Alle origini della giustizia distributiva
Il come rinvenire questo punto di bilanciamento, dunque, è un problema circoscritto di giustizia particolare specifico di ogni singola polis, secondo il suo ordinamento politico.
Un proto problema – verrebbe da dire riprendendo Rawls – di ricerca di un consenso per intersezione?
Nell’Etica Nicomachea, Aristotele osserva sempre: “Tutti, infatti, concordano che il giusto nella distribuzione deve essere conforme ad una «certa» (tina in greco) proporzione, ma poi non tutti intendono il merito allo stesso modo: i democratici lo intendono come condizione libera, gli oligarchi come ricchezza o come nobiltà di nascita, gli aristocratici come virtù”[8]. Il giusto in conclusione – taglia corto e non va oltre Aristotele – è un che di proporzionale. Sarà il contesto politico in ragione dei rapporti di forza tra confliggenti valori che definirà quella misura.
Riappare, sullo sfondo del ragionamento aristotelico, la disputa tra gli Achei sulla spartizione del bottino e la controversa misurazione del “rapporto in cui si trovano gli uni nei riguardi dell’altro i diversi contributi originariamente apportati”.
Sulla strada della ricerca del metodo di riparto concreto, non ottimo ma ottimale, si pone, per il romanista francese Villey anche lo specifico campo ed il quid proprium del diritto romano. Villey attribuisce ad A. il merito della scoperta del diritto come “metodo della spartizione delle cose esteriori” e ai romani quello di averlo perfezionato compiutamente[9].
Con il diritto romano repubblicano, la distinzione del suum unicuique tribuere diventa ancora più netta tra la sfera del diritto civile e quella del diritto pubblico.
3. Jus e res judicata, la funzione spartitoria del giudizio
Anche nel diritto civile romano, come nella polis greca, la proporzionalità può, ora, essere sempre verificata e controllata da un “terzo”: il Giudice ha l’ultima parola sulla definizione della giusta misura e può apportare anche correzioni a quanto già spartito.
Il giudizio tra privati verte essenzialmente sulla misura del suum unicuique tribuere da riconoscere ad ognuna delle parti in conflitto.
Anche l’etimo delle parole in greco e latino tramanda questa originaria funzione spartitoria del giudizio. Spetta al giudice fare le parti e per questo è giudice (in greco dike), in quanto, come aveva già detto Aristotele “egli è colui che divide in parti uguali”. Al contempo, il giudice è anche detto “mediatore” perché nel fare le parti “si cerca il giudice come termine medio ed il giudizio costituisce in sé la soluzione intermedia tra i contendenti e per Aristotele, quindi, equilibrata”[10].
Nel diritto romano si assiste ad un perfezionamento delle tecniche giuridiche con le quali misurare il suum unicuique tribuere: il contraddittorio processuale. Cicerone, nel De oratore, connette lo scopo del diritto nel diritto civile alla conservazione della giusta proporzione nella divisione dei beni. La famosa formula: sit ergo in jure civili finis hic legitimae atque usitatae in rebus causisque civium aequabilitatis conservatio[11].
L’accostamento del sintagma “Ex facto oritur jus” al verso di Orazio “est modus in rebus, sunt certi denique fines quos ultra citraque nequit consistere rectum” ci dà conto immediatamente della genesi fattuale del diritto. Essenzialmente una misura, insita nelle cose stesse, i cui esatti confini, non prima ma non oltre i quali, definiscono la misurazione del giusto. Rectum, appunto, come distanza tra due punti.
Questi equi confini all’interno delle cose, ricercati dal giudice, vanno ristabiliti tra le parti.
Il giudizio civile ha essenzialmente una funzione restaurativa e conservativa dei rapporti preesistenti tra i cittadini. Il termine jus è pertanto una attività concreta che ha a vedere con la misura della utilizzabilità e spettanza delle cose e quindi serve a ripartirle attualmente risolvendo le dispute possessorie al riguardo. Nella concretezza del diritto romano, sono dunque le cose (res) che costituiscono oggetto della contesa e del giudizio. Ed è la res ciò che effettivamente spetta, per cui la cosa attribuita al termine del giudizio diviene la res judicata ovvero gli “jura” come misure sulle cose o – che a quel punto è la stessa cosa per traslazione di senso – i diritti sulle cose materiali ed immateriali (onori, dignità, oneri, poteri su persone) se del caso ripartite dal giudice.
Jus in definitiva come misura[12] che ad ognuno spetta sulle cose disputate[13].
La verifica della congruità nell’equa misura nello scambio, o nella divisione di beni, tra cittadini e che si svolge davanti al giudice definisce l’ambito proprio della giustizia “commutativa”, “sinallagmatica”, “correttiva”.
4. Il bilanciamento dei diritti e dei doveri di cittadinanza nello Jus publicum
La giustizia distributiva, invece, essenzialmente politica, si stacca nettamente nel diritto romano dal diritto della polis e dallo stesso jus civile. le sue forme di strutturazione e manifestazione rientrano invece nella sfera costitutiva del diritto pubblico.
Anche per i romani il suum cuique tribuere presuppone nella giustizia distributiva l’uguaglianza nella sussistenza di “un medesimo rapporto”. Lo status di cittadinanza. Aristotele già lo identificava con “la condizione libera” (nella città). Nello stesso senso anche Gaio “aut liberi aut servi”[14].
Nella giustizia circoscritta, dunque politica, è la cittadinanza il parametro sui cui si fonda il suum cuique tribuere nella correlazione che si impone tra diritti e doveri dello status di libero cittadino.
Nel diritto pubblico romano, la correlazione tra diritti e doveri dei cittadini rende ancora oggi particolarmente avvincente rintracciare la soluzione del quesito del suum cuique tribuere.
Nella Repubblica la formula si concretizza in un bilanciamento – che oggi si potrebbe dire –costituzionale. Ricchezza, nobiltà, valore di ogni cittadino hanno un loro specifico peso entro un predeterminato ordine gerarchico della cittadinanza costituito dal censo (census). In questo modo tutti i cittadini, all’interno dello categoria censuaria cui appartengono, sono messi in condizione di dare il proprio apporto al bene comune (res pubblica) della città e conseguentemente di usufruire dei vantaggi in base al contributo da loro arrecato alla cosa pubblica.
Note
8. Aristotele, Ibidem, p. 197 ↑
9. M. Villey, Le droit e les droits de l’homme, PUF, Paris, 1990, p. 47 s. ↑
10. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 199. ↑
11. Cicerone, De oratore, I, p. 189 ↑
12. Una notazione personale. Nei paesi dell’alta Sabina la locuzione “na jura ‘e focu” stava significare la giusta misura che può essere richiesta per accendere un focolare (e deve essere data da chi ne ha uno già accesso). ↑
13. M. Villey, Le droit et les droits de l’homme, cit. p. 45. ↑
14. In senso non molto dissimile all’artificio espositivo di “posizione di base” dei partecipanti ad un sistema di giustizia politica in J. Rawls, Liberalismo politico, Ed. Comunità, 1999, p. 27. ↑