Suum unicuique tribuere? Alle origini della giustizia distributiva
2. Moneta, mercato e giustizia distributiva nell’Etica Nicomachea
All’epoca di Aristotele, l’ambiguità semantica del dono si è dissolta.
Con la moneta, il metro oggettivo di misurazione dell’equivalenza dei valori nello scambio tra privati ha preso forma. E il suum cuique tribuere ha trovato la sua misura di equivalenza nella moneta. Nell’etica Nicomachea, Aristotele fornisce della moneta una formulazione tuttora appagante: “ Mezzo di scambio […] nata per convenzione, perché non esiste in natura, ma nomisma (moneta legale che deriva da nomos (legge)” e “la moneta, come misura, parifica le merci perché le rende tra loro commensurabili”.
Il commercio su base monetaria si apre in questo modo la strada all’interno della città e del mercato sostituendosi al baratto. Il baratto è ancora scambio di “doni”, nel quale ancora l’equivalenza dei valori (d’uso) delle cose scambiate era apprezzata soggettivamente come effetto del reciproco equivalente apprezzamento delle parti. Lo scambio non è dunque “ con-misurabile ” oggettivamente come da allora in poi avviene nel mondo occidentale su base monetaria.
Con la moneta e “la parificazione delle merci”, invece, la misura della “giustezza” nello scambio (il prezzo) si forma nell’incontro tra domanda e offerta che, di per sé, definisce la misura obbiettiva del valore delle cose scambiate non solo tra le parti ma per tutta quella che già Aristotele chiama la “comunità di scambio” e che, oggi, denomineremmo, con lo stesso significato, il mercato. Aristotele considera lo scambio monetario un metodo commutativo per rendersi giustizia reciprocamente nell’equilibrio del sinallagma[2].
Si potrebbe, ora dire con sguardo teorico retrospettivo che l’affermazione della moneta sia stata coessenziale al sorgere dell’economia di mercato[3].
Il passaggio allo scambio commerciale basato sulla moneta segna l’estensione del commercio a scapito della guerra. Si indebolisce la contiguità tra scambio dei doni e guerra intesi, ancora ai tempi arcaici di Sparta e poi di Roma, come due mezzi alternativi di raggiungere lo stesso scopo possedere ciò che si desidera[4].
Anche se si fa risalire all’etica Nicomachea la distinzione dalla “giustizia in generale” della “giustizia distributiva” e dalla “giustizia commutativa”, Aristotele non usa tali formule, ma fa riferimento piuttosto alla giustizia particolare (circoscritta) contrapposta, ma non opposta, a quella generale, consistente, per ognuno e per tutti, nella ricerca della virtù.
All’interno della giustizia circoscritta distingue la giustizia nella “reciprocità” da quella “correttiva”. Entrambe sono distinte dalla giustizia nella divisione dei beni tra i cittadini . Giustizia “distributiva” o, ancora meglio, “politica” stante il carattere coessenziale della stessa, per il filosofo greco, con il sistema politico della Città Stato[5].
Per distinguere meglio la giustizia universale (assoluta, tesa alla virtù) da quella concreta (relativa, sia civile che politica) converrebbe, seguendo l’etimo della parola greca impiegata da Aristotele, definire quest’ultima come “giustezza” come una misura concreta di rapporti tra pari. Solo in questo ultimo ambito problematico si colloca il suum cuique tribuere.
Ma la misurazione della giustizia politica “circoscritta” all’interno della polis rimane, a differenza di quello sinallagmatica, un problema posto ma ancora non risolto nell’Etica Nicomachea.
Appare irrisolto il quesito sulla commisurazione ritenuta socialmente equa del riparto di quanto deve essere attribuito tra i cittadini.
Nell’opera di Aristotele la struttura logico-giuridica del suum unicuique tribuere non sembra differire sostanzialmente da quella che abbiamo visto emergere dal poema omerico.
È sempre lo scioglimento del nesso problematico costitutivo del potere politico che emerge al fondo del quesito. La ricerca della “giustezza” – quindi dei criteri del riparto politico e circoscritto tra i cittadini – è ora posta esplicitamente dal filosofo greco.
È preferibile parlare di “giustezza”, secondo il significato desumibile nell’etica Nicomachea, più che di giustizia in quanto per Aristotele non si tratta tanto di stabilire in astratto quale debba essere il comportamento giusto derivante dall’esercizio della virtù nella sua completezza[6], quanto piuttosto di misurare, sulla base di parametri che emergono dalle concrete circostanze, quanto dovuto ad ognuno di quelli che hanno titolo, in quanto cittadini, a partecipare alla distribuzione.
Per Aristotele “il rapporto tra le cose deve essere lo stesso di quello (che intercorre) tra le persone. Se infatti (le persone) non sono uguali non avranno cose uguali”.
Ma come trovare il punto di equilibrio?
La scelta del criterio di riparto rimanda ancora al conflitto di potere. Siamo all’interno della giustizia circoscritta ed in senso limitativo. Il punto di equilibrio si deve cercare entro rapporti di forza pre-determinati. Il punto mediano non è perciò, quasi mai, la divisione delle cose in parti uguali.
Il raggiungimento di un qualche equilibrio è cruciale per il bene della città. Bisogna dunque, all’interno di una plurilaterale correlazione già sussistente tra cose e persone, stabilire la giusta proporzione. Altrimenti, osserva il filosofo greco, “le lotte e le recriminazioni allora sorgono: quando persone uguali ricevono cose disuguali o quando persone disuguali hanno o ricevono cose uguali”[7]. È necessario che la proporzionalità, nella distribuzione dei beni comuni, avvenga secondo “il medesimo rapporto in cui si trovano, l’uno nei riguardi dell’altro, i diversi contributi originariamente apportati”.
Il discorso sul merito diventa così esplicitamente politico e risultato di una comune percezione del punto di equilibrio nel dare e nell’avere reciproco tra i cittadini tutti, che parifichi e risolva il virtuale conflitto intestino di interessi nella città.
Note
2. Aristotele, Etica Nicomachea, Milano, 2007, p. 201. ↑
3. G. Di Gaspare, Diritto dell’economia e dinamiche istituzionali, Padova, 2003, p. 17. ↑
4. B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni,Torino,2003, p.10. ↑
5. Aristotele, Ibidem, p. 195. ↑
6. ] Aristotele, Ibidem, p. 191. ↑