L’euro: quale futuro

L’attuale dibattito sull’euro tende a concentrarsi, e non solo in Italia, sul rapporto fra moneta unica europea e crisi economica, spesso sbrigativamente collegando la seconda alla prima… post hoc, ergo propter hoc! Non si vogliono con ciò negare i nessi fra i due fenomeni, ma piuttosto richiamare l’esigenza di una analisi completa di eventi complessi, che interessano la storia e il futuro del nostro paese e dell’Europa.
La rinuncia da parte di un gruppo di paesi europei alle rispettive monete nazionali e la condivisione dell’euro e di una politica monetaria unica non sono state decisioni estemporanee e inconsapevoli del loro significato e delle loro implicazioni. L’euro è stato punto di arrivo di un lungo percorso di integrazione in Europa e non si affermerà, non sopravviverà, se non sarà stato anche vissuto come punto di partenza per ulteriori progressi di unione sociale, economica, politica.

Un po’ di storia
“Cosa offriamo ai giovani delusi dalle guerre, dai regimi crollati miseramente? Quale idea migliore se non il superamento degli interessi nazionali nella fraternità dei popoli europei uniti in una sola Patria?” [1].
“Tutte le condizioni… per il maturare di una terza guerra mondiale continuerebbero a sussistere anche dopo aver frustrato il tentativo nazista di instaurare un impero razzista tedesco un Europa, se si stabilisse un ordine di cose tale che ogni stato conservasse la sua sovranità assoluta”[2].
Colpisce l’identità di visione di due personaggi che avevano matrici culturali e politiche diverse: cattolica il primo, socialista il secondo. Certo, sono parole che risentono dell’esperienza viva delle guerre. Oggi l’ipotesi di un conflitto armato fra i paesi dell’Europa occidentale è impensabile. Ma altre guerre si combattono che in vario modo coinvolgono i nostri paesi. Altri conflitti, politici, economici, culturali agitano il mondo e rendono attuale la visione di un continente coeso, protagonista della storia.
Anche i due paesi al centro delle guerre della prima metà del 900 espressero grandi statisti convinti che il futuro dell’Europa fosse da ricercarsi nell’unione: pensiamo ad Adenauer, Schumann e Monnet. Fu quest’ultimo che elaborò un metodo di integrazione, che sarà chiamato funzionalismo, che prevedeva una crescita graduale del progetto di unione europea, funzione dopo funzione. Ed è proprio lo sviluppo di questo metodo che ha portato, nel gennaio 1999, alla nascita dell’euro.
Il Trattato che, nel 1957, istituì la Comunità economica europea dedicò scarsa attenzione ai problemi monetari e di cambio. Non per loro sottovalutazione, ma perché i paesi firmatari erano inseriti nel Sistema monetario internazionale nato a Bretton Woods, che prevedeva cambi fissi e regole simmetriche di disciplina. Crollato quel Sistema nel 1971, per la crescente insofferenza degli Stati Uniti, potenza dominante che si era fatta carico dell’onere della ricostruzione post-bellica, ad accettare una disciplina che limitava la sua libertà di azione, il mondo si trovò ad affrontare anni di turbolenze, alimentate inoltre dalla crisi energetica iniziata nel 1973-74.
Fu in quel contesto che i paesi della Comunità europea si resero conto che, per preservare i risultati raggiunti e per progredire nel loro disegno di integrazione, avrebbero dovuto proteggersi dalle potenziali ricadute negative di una incontrollata e incontrollabile variabilità del cambio del dollaro. Se si doveva convivere con un ”dollar standard” occorreva racchiudere le monete dei paesi della Comunità in un sistema regionale di cambio, stabile al suo interno, fluttuante verso l’esterno. Il Sistema monetario europeo (SME), nato nel 1979, contribuì ad accrescere il grado di disciplina e di omogeneità delle economie dei paesi partecipanti, fino alla crisi del 1992-93 che nuovamente pose in evidenza l’intrinseca debolezza dei sistemi a cambio fisso, per l’incompatibilità fra libertà di scambi con l’estero di merci, servizi, capitali, fissità del cambio, autonomia nazionale della politica monetaria.
L’Unione europea che, nel 1992, si era data, con il Trattato di Maastricht, l’obiettivo di una Unione economica e monetaria (UEM), della quale la moneta unica costituiva la novità più rilevante, fu posta dalla crisi dello SME davanti ad un bivio: archiviare Maastricht, con imprevedibili conseguenze sui complessivi rapporti infra-europei, oppure accelerarne l’attuazione. Come era accaduto altre volte nella storia dell’integrazione europea, la crisi fu levatrice di rinnovato impegno e di ambiziosi progetti.

L’area dell’euro
Con l’introduzione dell’euro, l’Europa ha compiuto un atto unico nella storia delle relazioni internazionali. Un gruppo di paesi ha rinunciato alla propria sovranità monetaria e l’ha conferita ad una istituzione sovranazionale, la Banca centrale europea, dandosi una configurazione, per quanto attiene la moneta, da stato federale. Non vi è stata però un’analoga devoluzione di tipo federale degli altri strumenti della politica economica, in primis quella fiscale e di bilancio. I parametri di Maastricht sono stati il tentativo di vincolare i paesi dell’euro con regole fiscali che prevenissero il rischio che l’indisciplina di un paese fosse sopportata dai contribuenti degli altri. Quei parametri furono pensati come una protezione, una rete di sicurezza eretta fra paesi che, a torto o a ragione, erano sospettosi l’uno degli altri. Guido Carli, che pur li criticò, per la rigidità implicita in un rapporto numerico fisso, come “abominevoli dal punto di vista della teoria e della logica”, li accettò, nella sua veste di Ministro del Tesoro che partecipò alle trattative, ritenendo che “per il nostro paese la presenza di un vincolo giuridico internazionale avesse una funzione positiva agli effetti del ripristino di una sana finanza pubblica”[3].
La creazione dell’area dell’euro fu ampiamente criticata, soprattutto nel mondo anglosassone, e ritenuta incapace di sopravvivenza, in quanto i paesi che la componevano non presentavano le caratteristiche di una “area valutaria ottimale”, per la mancanza di flessibilità dei salari e di mobilità del lavoro. Critica non priva di fondamento, ma parziale, non prendendo in considerazione il vasto “acquis communautaire” e non inserendo il passaggio all’euro nella prospettiva del progetto di crescente integrazione, economica e politica.

Certo, un progetto in fieri e, per di più, un progetto non condiviso dai paesi membri con la stessa determinazione; circostanze che rafforzavano il convincimento degli scettici e acuivano le critiche di chi non avrebbe comunque visto con soddisfazione la piena affermazione del progetto stesso. Ma anche critiche, inadeguatezze, che non sfuggivano a personalità convinte, sul piano storico, prima ancora che su quello strettamente economico, che occorresse perseguire il disegno della piena integrazione europea. Penso al Presidente emerito Ciampi che ha spesso fatto riferimento alla “zoppìa dell’Europa”, cioè alla “mancata costituzione di un coordinamento effettivo delle politiche economiche degli Stati che accompagni la politica unitaria della moneta”[4]. Penso a Tommaso Padoa-Schioppa che, commentando gli sviluppi della crisi iniziata nel 2008, affermava che l’Europa è “un soggetto di politica economica, e di politica tout court, incompiuto e in parte inesistente”. E ancora che “l’Europa è ancora un cantiere aperto, un semilavorato… è ancora un oggetto, non un soggetto della storia”[5].

La crisi
La crisi finanziaria partita dagli Stati Uniti sul finire del 2007 diventa crisi dell’area dell’euro nel 2010. La Grecia, uno dei paesi più piccoli dell’area, svela le condizioni della sua finanza pubblica: esse sono ben più dissestate di quanto si sapesse. Il governo greco ammette che, con le sue sole forze, non è in grado di gestire il debito pubblico, di finanziare il disavanzo. Non ha una banca centrale alla quale ordinare di “monetizzare” il debito; né può chiedere che sia la BCE a farlo o che sia l’Unione a farsi carico delle sue obbligazioni, interventi vietati dagli articoli 123 e 125 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
I Governi dei paesi dell’area dell’euro reagiscono lentamente e disordinatamente; forse all’inizio sottovalutano l’ampiezza della crisi e, soprattutto, le conseguenze che interventi tardivi e parziali possono avere sull’intera area. Per molti mesi si ha l’impressione che l’area dell’euro sia una somma di paesi e non un’Unione coesa, con obiettivi condivisi.[6] Dalla Grecia, per contagio, assente o gravemente carente una adeguata profilassi, la crisi, la sfiducia si estendono a Irlanda, Portogallo, Spagna e, finalmente, Italia. Lo “spread”, il differenziale di rendimento fra i titoli di Stato dei paesi in crisi e quelli della Germania, diventa il termometro che misura la febbre degli ammalati e la fiducia dei sani nelle prospettive di guarigione. Più precisamente, lo “spread” incorpora due rischi: il “default”, il ripudio del debito pubblico, o l’uscita dall’euro, con conseguente ridenominazione del debito in una moneta candidata alla svalutazione.
La crisi rivela l’incompiutezza del Trattato di Maastricht, la “zoppìa” prima ricordata. Le politiche economiche sono ancora troppo nazionali, troppo poco coordinate; sono carenti, pressoché inesistenti, investimenti in infrastrutture europee, finanziati dall’Unione. Non vi sono procedure per la gestione comune di crisi, riguardino il debito pubblico o i sistemi bancari. Ci si rende conto che l’area dell’euro non è governata. L’unica istituzione federale, la BCE, è sballottata fra la Scilla del suo mandato, che le assegna l’obiettivo primario della stabilità dei prezzi, e la Cariddi delle esigenze di governo economico complessivo dell’area dell’euro, delle quali i Governi stentano a farsi carico.
E tuttavia, come in altre occasioni, l’area dell’euro reagisce. La BCE pone in essere “politiche non convenzionali” che contribuiscono a riportare calma nei mercati finanziari, che offrono alle banche ampia liquidità. La sua azione è criticata, da alcuni come parziale e tardiva, da altri come non conforme al mandato. Il progetto di Unione bancaria si fa strada, anche se con tempi di attuazione ancora troppo lenti[7]. Vengono definiti meccanismi comunitari che, con adeguata condizionalità, possono intervenire a sostegno di paesi in crisi. Nei programmi di risanamento delle finanze pubbliche, che i singoli paesi devono concordare in ambito comunitario, si inseriscono elementi di flessibilità, che dovranno essere ampliati, migliorati, suscettibili di creare spazio addizionale per investimenti produttivi. Cresce l’interesse e l’attenzione in tutti i Governi per la ripresa della crescita e dell’occupazione, in assenza della quale le politiche di risanamento della finanza pubblica finiscono col generare, alimentare una spirale perversa.

Il futuro
La lunghezza e la profondità della crisi, la difficoltà di tarare la politica monetaria della BCE sulla base delle preferenze e delle esigenze di tutti i paesi dell’area dell’euro, le misure di restrizione fiscale occorrenti a ripristinare condizioni più sane e sostenibili della finanza pubblica, la tentazione che ogni tanto fa capolino in alcuni paesi di risolvere il problema del debito pubblico facendo ricorso a forme più o meno aggressive di consolidamento, una classe politica europea troppo spesso ripiegata su se stessa e incapace di disegnare e proporre al proprio elettorato visioni di lungo termine, hanno stimolato la nascita, lo sviluppo di movimenti che vedono nell’uscita dall’euro di uno o più paesi o, addirittura, nella disintegrazione dell’area, la via d’uscita da una crisi che si presenta di difficile gestione. Nei paesi più solidi, l’uscita dall’euro è vista, da queste correnti di opinione e di azione politica, come la strada più semplice per non essere chiamati a pagare per la prodigalità e l’indisciplina altrui. Nei paesi più deboli, come la riconquista di una libertà di azione necessaria per rimettere in corsa economie finora “frenate dall’Europa”. Nel dibattito, si omette spesso di ricordare che la pura e semplice uscita dall’euro non è contemplata dal Trattato sull’Unione europea. In base all’articolo 50 uno Stato membro può decidere di recedere dall’Unione, la quale “negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso”. Immaginare, come pure da taluni si fa, che il ritorno alla lira possa avvenire di sorpresa, in un week-end, significa o ignorare le prescrizioni del Trattato o pensare che un paese possa platealmente decidere di non rispettarlo, senza chiedersi quali sarebbero le reazioni degli altri.
Soffermiamoci sul nostro paese, nel quale settori non trascurabili dell’opinione pubblica e delle forze politiche ritengono l’uscita dall’euro una panacea per i mali dell’Italia.

L’Italia soffre di un problema di crescita che precede il passaggio all’euro. Nel decennio 1991-2000 il suo PIL è cresciuto meno di quello della Francia, della Germania, della Spagna. Ha fatto difetto la crescita della produttività[8]. Proprio con riferimento all’Italia è stato scritto: “ E’ raro nella storia del capitalismo, quanto meno delle grandi economie capitalistiche, un numero di anni talmente lungo con una produttività totale dei fattori negativa”[9]. Sono stati di recente ripubblicati alcuni scritti di Giorgio Fuà, risalenti a circa 30 anni fa[10]. I curatori del libro rilevano l’importanza che tuttora rivestono per l’Italia e per le sue prospettive di crescita condizioni già analizzate da Fuà e da lui definite “fattore O-I” (Organizzativo-Imprenditoriale, con ciò intendendo sia la cornice esterna alle imprese, dal sistema fiscale alle relazioni sindacali, dalla burocrazia alle difficoltà di finanziamento, sia quella interna, dalla struttura familiare, all’inadeguatezza del management) e “social capability” (cioè il quadro politico e giuridico, il sistema dei valori della comunità, la mobilità sociale, l’istruzione, la disponibilità di infrastrutture).
Cosa ci fa ritenere che, abbandonando l’euro e la stessa piena partecipazione all’Unione europea e ritornando alla lira, l’inadeguatezza della produttività del sistema economico italiano sarà colmata? Attraverso quale meccanismo ciò potrebbe accadere? Forse con successive svalutazioni della lira, che però per essere efficaci dovrebbero essere “reali”, non compensate cioè da maggiore inflazione? Sarebbe cioè l’Italia disciplinatamente pronta in tutte le sue componenti sociali, ad accettare l’impoverimento prodotto dal deterioramento delle ragioni di scambio? La svalutazione della lira è stata a lungo praticata per ridare competitività al sistema produttivo italiano. Ricordo che, quando a fine 1958 l’Italia e gli altri paesi dell’Europa occidentale dichiararono la convertibilità esterna delle rispettive monete e fissarono la parità di cambio col dollaro, per acquistare un marco tedesco occorrevano 148 lire, salite a circa 170 alla vigilia della caduta di Bretton Woods. Ma, meno di 30 anni dopo, all’atto dell’ingresso nell’euro, ne occorrevano 990. Eppure la crescita del reddito e dell’occupazione non è stata, nella media di quel lungo periodo, maggiore che in Germania. La svalutazione fu spesso equiparata alla droga: nascondeva il disagio per un po’, non ne eliminava le cause. Fuor di metafora, ripristinava la competitività temporaneamente; l’esigenza di stimolare la crescita della produttività passava in secondo piano, l’inflazione annullava in breve i guadagni di competitività. Si creavano le condizioni per un nuovo giro.
Qualcuno ritiene che le riforme, delle quali si parla da decenni, da tutti ritenute, a parole, di grande efficacia sulla produttività totale dei fattori, troverebbero, uscendo dall’euro, quella realizzazione che non hanno avuto in questi anni di moneta unica? O non è forse vero che il ritorno alla lira è accarezzato da molti come la comoda via d’uscita “perché nulla cambi”?
Senza disconoscere le inadeguatezze e i ritardi dell’Europa (la zoppìa più volte ricordata) bisogna rilevare che l’Italia (uso volutamente l’aggregato più ampio, ricordandomi dell’evangelico “chi è senza peccato scagli la prima pietra”) non ha colto l’opportunità che l’ingresso nell’euro offriva, l’impegno che richiedeva, di imprimere una svolta strutturale alle istituzioni, all’organizzazione dell’economia. Il vincolo giuridico internazionale evocato da Guido Carli è stato trascurato. Per molti aspetti, l’Italia è stato un caso da manuale di “moral hazard”. All’ombra dell’euro abbiamo goduto per anni di bassi tassi di interesse, un grande vantaggio per un paese con elevato debito pubblico. La spesa per interessi sul debito pubblico in rapporto al PIL toccò il picco nel 1993, col 12,6 per cento; era scesa al 6,2 per cento nel 2000 e ha oscillato fra il 4,6 e il 5,6 negli anni successivi. La minor spesa che ne è derivata non è andata a risanare la finanza pubblica, a sostenere investimenti produttivi, a ridurre l’imposizione fiscale, ma si è trasformata in spesa corrente aggiuntiva, e il rapporto fra debito pubblico e PIL, in flessione dall’ultima parte degli anni 90 del novecento, ha ripreso a crescere. L’intensità del dibattito sulle riforme, sugli interventi di struttura, si è rivelata inversamente correlata alla realizzazione delle riforme. In un mondo posto di fronte alla rivoluzione rappresentata dalla globalizzazione e dal progresso della tecnologia informatica, l’Italia è rimasta addormentata, in crescente ritardo nell’adeguare le sue istituzioni, il suo assetto normativo, la sua imprenditorialità, la valorizzazione delle sue risorse. E’ mio convincimento che sia altrettanto inadeguato considerare l’euro “le vilain de la pièce”, e quindi auspicarne l’uscita dell’Italia, come un movimento liberatorio, o rinnovare la propria fede nell’Europa, continuando a non agire coerentemente con questa collocazione dell’Italia e, più in generale, con l’adeguamento del nostro paese alle esigenze del mondo contemporaneo.
L’uscita dall’euro, dalla stessa Unione europea, ci darebbe un’Italia migliore, più avanzata, più autorevole in Europa e nel mondo? Alberto Bagnai nel suo libro “Il tramonto dell’euro”[11] elabora uno scenario successivo alla reintroduzione della lira. Sostiene, tra l’altro, che ne deriverebbe un “sensibile risparmio della spesa per interessi sul debito pubblico”. Questa apparente incongruenza, visto che il debito verrebbe denominato in una valuta aperta alla svalutazione, è spiegata perché la Banca centrale tornerebbe ad essere “uno strumento nelle mani del Tesoro” che imporrebbe la “monetizzazione parziale del fabbisogno”; altri acquisti di titoli del Tesoro verrebbero effettuati dalle aziende di credito “tramite l’imposizione di un vincolo di portafoglio”. Non manca, nello scenario, la reintroduzione di controlli sui movimenti di capitali con l’estero. Mi è difficile credere che ad un’Italia isolata in un mondo sempre più aperto e articolato, con assetti istituzionali da economia di comando, possa arridere un futuro di crescita del PIL e dei vari indicatori di benessere e di felicità tanto studiati ed elaborati.
Se l’attuale configurazione dell’Unione europea e, più in particolare, dell’area dell’euro presenta, come in effetti presenta, carenze e difetti che ritardano, o in talune circostanze bloccano, il pieno conseguimento dei grandi obiettivi politici, economici, sociali fissati dall’articolo 3 del Trattato sull’Unione europea, la miglior risposta è quella di lavorare per rimuovere gli ostacoli, migliorare le regole di governo dell’Unione, proseguire il cammino dell’integrazione. Un’Italia che finalmente cominciasse a liberarsi delle sue arretratezze potrebbe riprendere con vigore sia nelle sedi istituzionali dell’Europa, dal Parlamento ai Consigli europei, sia in quella che siamo soliti chiamare “società civile”, che racchiude tutte le doti di cultura, di ingegnosità, di amore per il lavoro del popolo italiano, un ruolo primario per il consolidamento del progetto di Unione europea.

Note

1.  Così Alcide De Gasperi nell’immediato dopoguerra. Riportato da Maria Romana Catti De Gasperi, De Gasperi, uomo solo, Mondadori, 1964.

2.  Parole di Altiero Spinelli, scritte nel 1943 nel suo Manifesto di Ventotene. In Luciano Angelino, Le forme dell’Europa. Spinelli o della federazione, il melangolo, 2003.

3.  Guido Carli, in collaborazione con Paolo Peluffo, Cinquant’anni di vita italiana, editori Laterza, 1993, pag.406.

4.  Carlo A. Ciampi, Non è il paese che sognavo. Taccuino laico per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Colloquio con Alberto Orioli. Il Saggiatore, 2010, pag.117.

5.  Tommaso Padoa-Schioppa, La veduta corta. Conversazione con Beda Romano sul Grande Crollo della Finanza. Il Mulino, 2009, pagg.120-121.

6.  Una ricostruzione di quei mesi convulsi è stata fatta da Lorenzo Bini Smaghi, Morire di austerità. Democrazie europee con le spalle al muro. Il Mulino, 2013.

7.  Francesco Capriglione, L’Unione bancaria europea. Una sfida per un’Europa più unita. UTET, 2013.

8.  Salvatore Rossi, La regina e il cavallo. Quattro mosse contro il declino. Editori Laterza, 2006, pagg.69 ss.; Pierluigi Ciocca, Ricchi per sempre? Bollati Boringhieri, 2007, cap.12.

9.  Pierluigi Ciocca e altri, in Uscire dalla crisi. Riprendere la crescita. Come? Quando? Economia Reale, 2013, pagg.79-80.

10.  Giorgio Fuà, Un’agenda non conformista per la crescita economica. Edizione a cura di V.Balloni, M. Crivellini e P. Pettenati. Il Mulino, 2013.

11.  Alberto Bagnai, Il tramonto dell’EURO, Imprimatur editore, 2013.