L’euro: quale futuro
Certo, un progetto in fieri e, per di più, un progetto non condiviso dai paesi membri con la stessa determinazione; circostanze che rafforzavano il convincimento degli scettici e acuivano le critiche di chi non avrebbe comunque visto con soddisfazione la piena affermazione del progetto stesso. Ma anche critiche, inadeguatezze, che non sfuggivano a personalità convinte, sul piano storico, prima ancora che su quello strettamente economico, che occorresse perseguire il disegno della piena integrazione europea. Penso al Presidente emerito Ciampi che ha spesso fatto riferimento alla “zoppìa dell’Europa”, cioè alla “mancata costituzione di un coordinamento effettivo delle politiche economiche degli Stati che accompagni la politica unitaria della moneta”[4]. Penso a Tommaso Padoa-Schioppa che, commentando gli sviluppi della crisi iniziata nel 2008, affermava che l’Europa è “un soggetto di politica economica, e di politica tout court, incompiuto e in parte inesistente”. E ancora che “l’Europa è ancora un cantiere aperto, un semilavorato… è ancora un oggetto, non un soggetto della storia”[5].
La crisi
La crisi finanziaria partita dagli Stati Uniti sul finire del 2007 diventa crisi dell’area dell’euro nel 2010. La Grecia, uno dei paesi più piccoli dell’area, svela le condizioni della sua finanza pubblica: esse sono ben più dissestate di quanto si sapesse. Il governo greco ammette che, con le sue sole forze, non è in grado di gestire il debito pubblico, di finanziare il disavanzo. Non ha una banca centrale alla quale ordinare di “monetizzare” il debito; né può chiedere che sia la BCE a farlo o che sia l’Unione a farsi carico delle sue obbligazioni, interventi vietati dagli articoli 123 e 125 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
I Governi dei paesi dell’area dell’euro reagiscono lentamente e disordinatamente; forse all’inizio sottovalutano l’ampiezza della crisi e, soprattutto, le conseguenze che interventi tardivi e parziali possono avere sull’intera area. Per molti mesi si ha l’impressione che l’area dell’euro sia una somma di paesi e non un’Unione coesa, con obiettivi condivisi.[6] Dalla Grecia, per contagio, assente o gravemente carente una adeguata profilassi, la crisi, la sfiducia si estendono a Irlanda, Portogallo, Spagna e, finalmente, Italia. Lo “spread”, il differenziale di rendimento fra i titoli di Stato dei paesi in crisi e quelli della Germania, diventa il termometro che misura la febbre degli ammalati e la fiducia dei sani nelle prospettive di guarigione. Più precisamente, lo “spread” incorpora due rischi: il “default”, il ripudio del debito pubblico, o l’uscita dall’euro, con conseguente ridenominazione del debito in una moneta candidata alla svalutazione.
La crisi rivela l’incompiutezza del Trattato di Maastricht, la “zoppìa” prima ricordata. Le politiche economiche sono ancora troppo nazionali, troppo poco coordinate; sono carenti, pressoché inesistenti, investimenti in infrastrutture europee, finanziati dall’Unione. Non vi sono procedure per la gestione comune di crisi, riguardino il debito pubblico o i sistemi bancari. Ci si rende conto che l’area dell’euro non è governata. L’unica istituzione federale, la BCE, è sballottata fra la Scilla del suo mandato, che le assegna l’obiettivo primario della stabilità dei prezzi, e la Cariddi delle esigenze di governo economico complessivo dell’area dell’euro, delle quali i Governi stentano a farsi carico.
E tuttavia, come in altre occasioni, l’area dell’euro reagisce. La BCE pone in essere “politiche non convenzionali” che contribuiscono a riportare calma nei mercati finanziari, che offrono alle banche ampia liquidità. La sua azione è criticata, da alcuni come parziale e tardiva, da altri come non conforme al mandato. Il progetto di Unione bancaria si fa strada, anche se con tempi di attuazione ancora troppo lenti[7]. Vengono definiti meccanismi comunitari che, con adeguata condizionalità, possono intervenire a sostegno di paesi in crisi. Nei programmi di risanamento delle finanze pubbliche, che i singoli paesi devono concordare in ambito comunitario, si inseriscono elementi di flessibilità, che dovranno essere ampliati, migliorati, suscettibili di creare spazio addizionale per investimenti produttivi. Cresce l’interesse e l’attenzione in tutti i Governi per la ripresa della crescita e dell’occupazione, in assenza della quale le politiche di risanamento della finanza pubblica finiscono col generare, alimentare una spirale perversa.
Il futuro
La lunghezza e la profondità della crisi, la difficoltà di tarare la politica monetaria della BCE sulla base delle preferenze e delle esigenze di tutti i paesi dell’area dell’euro, le misure di restrizione fiscale occorrenti a ripristinare condizioni più sane e sostenibili della finanza pubblica, la tentazione che ogni tanto fa capolino in alcuni paesi di risolvere il problema del debito pubblico facendo ricorso a forme più o meno aggressive di consolidamento, una classe politica europea troppo spesso ripiegata su se stessa e incapace di disegnare e proporre al proprio elettorato visioni di lungo termine, hanno stimolato la nascita, lo sviluppo di movimenti che vedono nell’uscita dall’euro di uno o più paesi o, addirittura, nella disintegrazione dell’area, la via d’uscita da una crisi che si presenta di difficile gestione. Nei paesi più solidi, l’uscita dall’euro è vista, da queste correnti di opinione e di azione politica, come la strada più semplice per non essere chiamati a pagare per la prodigalità e l’indisciplina altrui. Nei paesi più deboli, come la riconquista di una libertà di azione necessaria per rimettere in corsa economie finora “frenate dall’Europa”. Nel dibattito, si omette spesso di ricordare che la pura e semplice uscita dall’euro non è contemplata dal Trattato sull’Unione europea. In base all’articolo 50 uno Stato membro può decidere di recedere dall’Unione, la quale “negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso”. Immaginare, come pure da taluni si fa, che il ritorno alla lira possa avvenire di sorpresa, in un week-end, significa o ignorare le prescrizioni del Trattato o pensare che un paese possa platealmente decidere di non rispettarlo, senza chiedersi quali sarebbero le reazioni degli altri.
Soffermiamoci sul nostro paese, nel quale settori non trascurabili dell’opinione pubblica e delle forze politiche ritengono l’uscita dall’euro una panacea per i mali dell’Italia.
Note
4. Carlo A. Ciampi, Non è il paese che sognavo. Taccuino laico per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Colloquio con Alberto Orioli. Il Saggiatore, 2010, pag.117. ↑
5. Tommaso Padoa-Schioppa, La veduta corta. Conversazione con Beda Romano sul Grande Crollo della Finanza. Il Mulino, 2009, pagg.120-121. ↑
6. Una ricostruzione di quei mesi convulsi è stata fatta da Lorenzo Bini Smaghi, Morire di austerità. Democrazie europee con le spalle al muro. Il Mulino, 2013. ↑
7. Francesco Capriglione, L’Unione bancaria europea. Una sfida per un’Europa più unita. UTET, 2013. ↑