Stato ed economia andata e ritorno. Riflessioni a partire dal “caso Ilva”
Una dottrina autorevole ha ritenuto, invece, che il richiamo operato dalla Corte all’«autonomia» e alla «responsabilità» dell’Amministrazione», costituisca un’indicazione essenziale per un Paese bloccato dalla «deresponsabilizzazione» e dalle «inerzie» delle amministrazioni e in cui «il ricorso alle sedi giudiziarie», si profila come «l’unico rimedio possibile» (Onida, cit., p. 4). Si è sostenuto, pertanto, che la valutazione circa gli «effetti futuri di un’attività di per sé lecita», i «rischi […] collegati» e l’«equilibrio fra rischi e vantaggi», sia di natura «tipicamente discrezionale» e non possa essere, quindi, demandata in ultima istanza ai giudici «senza alterare l’equilibrio dei poteri» (Onida, cit., p. 3). Occorre osservare, tuttavia, come la forma di governo vigente imperniata sui valori del pluralismo sociale, politico e istituzionale, non attribuisca ad alcun organo costituzionale un “potere di ultima istanza”, ma prescriva, a ciascuno di essi, l’obbligo di concorrere – in modo coordinato e in base alle rispettive competenze – alla realizzazione dei fini della forma di stato democratico-sociale.
La Costituzione italiana ha regolato in modo nuovo il rapporto stato-industria (artt. 41 e 43 Cost.) e l’intreccio tra i suoi molteplici interessi (lavoro; produzione; salute; ambiente), non precludendo alla magistratura l’esercizio del potere di applicare le sanzioni previste dalla legge a tutela del territorio e della popolazione. La legislazione in materia di tutela ambientale, le ha attribuito, del resto, una serie di competenze finalizzate non solo «alla scoperta, alla persecuzione e all’accertamento di fatti illeciti già commessi», ma anche alla «difesa dei diritti e dei beni giuridici» dalle minacce che su di loro incombono, anche se «non […] ancora tradotte in danni» (Viganò, cit., p. 2; Pulitanò, in Dir. pen. cont., n. 1/2013, pp. 44 ss.).
A fronte delle argomentazioni “curialesche” utilizzate dalla Corte per motivare il rigetto delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla magistratura, si profila, pertanto, la necessità di valutare criticamente la sequenza delle vicende culminate nella sentenza della Corte, che ha misconosciuto la portata dei principi fondamentali della Costituzione. Analizzando la serie degli interventi legislativi e giurisprudenziali concernenti il caso Ilva, si può constatare, infatti, l’affermarsi di una prospettiva di intervento pubblico difforme da quella configurata dagli artt. 39-47 Cost. e, in specie, dagli artt. 41, 42 e 43 Cost.
Non si può non rilevare, del resto, come, da circa un trentennio, la concezione liberista che mira a restaurare un modello di stato subalterno agli interessi delle imprese monopolistiche private, abbia preso il sopravvento sulla concezione recepita dalla Costituzione imperniata sul controllo politico (e sociale) del sistema delle imprese (pubbliche e private). Questo processo involutivo – maturato in un contesto di rapporti dominati dalle “intese” fra i vertici dell’esecutivo, delle confederazioni industriali e delle confederazioni (cd. unitarie) dei lavoratori – risulta, oggi, potenziato dall’uso del marchingegno teorico dell’“interesse strategico nazionale”, con cui si persegue il fine di rilegittimare la “concezione liberista” e quella “corporativa” dei rapporti stato-mercato, contrassegnate ambedue dal nesso organico tra le politiche economiche dello “stato apparato” e gli interessi strategici delle imprese private.
Occorre interrogarsi, pertanto, sul ruolo che le “grandi imprese” (pubbliche e private) devono svolgere nell’ambito di una forma di stato democratico-sociale, anche per comprendere la differenza strutturale che intercorre tra le “soluzioni socialmente progressive” delle “crisi” industriali (art. 43 Cost.: “nazionalizzazioni”, “pubblicizzazioni”, “socializzazioni”) e le “soluzioni tampone”, che mirano a puntellare gli interessi contingenti degli “stabilimenti di interesse strategico nazionale” (d.l. n. 207/2012; cfr. Bin, cit., p. 5). Queste riflessioni consentiranno, inoltre, di individuare le ragioni che hanno provocato il declino delle imprese siderurgiche, specie a partire dalla fase delle c.d. privatizzazioni. Il Governo – pur consapevole del fatto che il suo intervento avrebbe provocato la reazione della magistratura – ha scelto, comunque, di adottare il d.l. n. 207/2012, perché ha considerato le “esigenze dell’attività produttiva” di “interesse strategico nazionale” e, quindi, prioritarie rispetto alle esigenze di “tutela dell’ambiente e della salute” evocate dall’art. 1 d.l. n. 207/2012. Ci troviamo, pertanto, non solo dinanzi alla questione dell’indebita sovrapposizione della normativa del governo ai provvedimenti (cautelari) della magistratura, ma anche di fronte ad una questione più ampia, ossia quella di stabilire se la categoria generica di “stabilimenti di interesse strategico nazionale” possa considerarsi un fondamento giuridicamente idoneo a legittimare una normativa in materia industriale di portata destabilizzante.
L’art. 1 d.l. n. 207/2012 adotta, infatti, dei criteri indeterminati per individuare le situazioni sussumibili nella categoria di “stabilimenti di interesse strategico nazionale”. Nel 1° co. non si specificano gli indici identificativi della categoria, ma si assegna al Presidente del Consiglio dei Ministri il compito di individuarli con apposito decreto. Non si comprende, pertanto, come, nel 1° co. dell’art. 3, si sia potuto statuire – sic et simpliciter – per diretta via legislativa, che: «l’impianto siderurgico della società ILVA S.p.A. di Taranto costituisce stabilimento di interesse strategico nazionale a norma dell’art. 1». I giudici costituzionali, in qualità non solo di “giurisperiti”, ma anche di studiosi, avrebbero dovuto fornire, pertanto, un’interpretazione costituzionalmente coerente della supposta “strategia nazionale” e indicarne, quindi, un uso coerente con il programma di trasformazione economico sociale recepito dalla Costituzione (art. 3, 2° co., Cost.). Questa chiarificazione si prospettava, infatti, necessaria, specie in considerazione del fatto che con l’uso di questa categoria si mira ad aprire una nuova fase nella storia di un’industria, inserita, dapprima, nel sistema delle partecipazioni “pubbliche” e divenuta, oggi, emblema del sistema monopolistico privato.
Le questioni teoriche di fondo non paiono, però, occupare il centro della riflessione giurisprudenziale, come dimostra il fatto che la Corte ha sottovalutato – agli inizi degli anni novanta del Novecento – la questione della coerenza tra le “privatizzazioni” e i Principî fondamentali concernenti i Rapporti economici e sociali (titolo II e III, Prima parte, Cost.) ed evita – oggi – di chiarire se gli artt. 41 e 43 Cost. possano – in virtù del mero richiamo operato nel preambolo e nel 6° co. dell’art. 3 d.l. n. 207/2012 – fornire fondamento costituzionale al tipo di previsioni contenute nel decreto governativo.