Stato ed economia andata e ritorno. Riflessioni a partire dal “caso Ilva”
La Corte chiarisce, in premessa, come le prescrizioni contenute nell’AIA già rilasciata «possano rivelarsi inefficaci, sia per responsabilità dei gestori, sia indipendentemente da ogni responsabilità oggettiva» e come, in questo caso, debba applicarsi la previsione contenuta nell’«art. 29 octies, comma 4, del Codice dell’Ambiente», che impone, all’Amministrazione, l’obbligo di «aprire il procedimento di riesame». La previsione dell’art. 1, 1° co., d.l. n. 207/2012 prende le mosse, quindi, «da questo momento critico che può aver giustificato l’adozione di provvedimenti giudiziari di sequestro» e prescrive, di conseguenza, l’obbligo di avviare «un secondo procedimento, che sfocia nel rilascio di un’AIA “riesaminata”, nella quale […] sono valutate le insufficienze delle precedenti prescrizioni e si provvede a dettarne di nuove, maggiormente idonee […] ad evitare il ripetersi di fenomeni di inquinamento che hanno portato all’apertura del procedimento di riesame». L’AIA “riesaminata” indica, quindi, «un nuovo punto di equilibrio», che consente «la prosecuzione dell’attività produttiva a diverse condizioni, nell’ambito delle quali l’attività stessa deve essere ritenuta lecita nello spazio temporale massimo (36 mesi), considerato dal legislatore necessario e sufficiente a rimuovere […] le cause dell’inquinamento ambientale e dei pericoli conseguenti per la salute delle popolazioni». La Corte ammette, in generale, che l’«equilibrio» individuato dall’AIA “riesaminata”, possa non essere «il migliore in assoluto», ma lo considera, comunque, «ragionevole», avuto riguardo «alle garanzie predisposte e all’iter amministrativo previsto» (Onida, cit., p. 3 e sent. n. 85/2013, parr. 10.2 e 10.3 del cons. in dir.). Secondo la Corte, il meccanismo imperniato sulla «combinazione tra un atto amministrativo (AIA) e una previsione legislativa (art. 1 d.l. n. 207/2012)», risulta adeguato per individuare «le condizioni e i limiti della liceità della prosecuzione di un’attività produttiva per un tempo definito». Si evidenzia, infatti, come l’art. 1 d.l. n. 207/2012 non preveda «la continuazione pura e semplice dell’attività produttiva alle medesime condizioni che avevano reso necessario l’intervento repressivo dell’autorità giudiziaria, ma imponga nuove condizioni la cui osservanza deve essere continuamente controllata, con tutte le conseguenze giuridiche previste in generale dalle leggi vigenti per i comportamenti illecitamente lesivi della natura e dell’ambiente».
Sulla base di queste premesse, si è ritenuto che la normativa del Governo pone le premesse per «un non irragionevole bilanciamento tra i principi della tutela della salute e quelli della tutela dell’occupazione» (sent. n. 85/2013, par. 10 del cons. in dir.). Per queste ragioni, la Corte ha sostenuto che «non rientra nelle attribuzioni del giudice una sorta di “riesame del riesame” circa il merito dell’AIA, sul presupposto […] che le prescrizioni dettate dall’autorità competente siano insufficienti e sicuramente inefficaci nel futuro». Si è evidenziato, infatti, come «le opinioni del giudice, anche se fondate su particolari interpretazioni dei dati tecnici a sua disposizione», non possano sostituirsi «alle valutazioni dell’Amministrazione […] rispetto alla futura attività dell’azienda, attribuendo, in partenza, una qualificazione negativa alle condizioni poste per l’esercizio dell’attività stessa, neppure ancora verificate nella loro concreta efficacia» (sent. n. 85/2013, par. 10.3 del cons. in dir.). Non è sembrato plausibile, pertanto, che un giudice possa ritenere «illegittima la nuova normativa in forza di una valutazione di merito di inadeguatezza della stessa […], sovrapponendo le proprie valutazioni discrezionali a quelle del legislatore o delle amministrazioni competenti». Questo tipo di sindacato potrebbe giustificarsi «solo in presenza di una manifesta irragionevolezza della nuova disciplina dettata dal legislatore e delle nuove prescrizioni contenute nell’AIA riesaminata» (sent. n. 85/2013, par. 12.6 del cons. in dir.).
Con il d.l. n. 207/2012 non si è provveduto, tuttavia, a disciplinare «il rapporto tra provvedimenti cautelari del giudice penale e l’assunzione dell’onere di affrontare il rischio da parte della pubblica amministrazione», ma si è perseguito, invece, il fine di neutralizzare «l’efficacia dei provvedimenti assunti dal giudice» (Bin, in Dir. pen. cont., n. 1/2013, p. 5). Si può comprendere, pertanto, come i giudici abbiano deciso di promuovere il giudizio dinanzi alla Corte a difesa delle proprie prerogative e, più in generale, del principio della separazione di poteri. La Corte costituzionale non si è pronunciata, però, sul merito di tali rilevanti questioni, optando «per la strada prudente della sterilizzazione in via ermeneutica del conflitto». Le disposizioni impugnate sono state rilette «come se avessero inteso non già caducare ipso iure i provvedimenti di sequestro della magistratura», ma «modificare il quadro normativo preesistente sulla cui base i provvedimenti in questione si fondavano, creando così un consequenziale obbligo per il giudice di provvedere in conformità al mutato quadro normativo» (Viganò, in Dir. pen. cont., n. 1/2013, p. 3).
Per la Corte, la previsione contenuta nel 3° co. dell’art. 3 d.l. n. 207/2012 (immissione dell’impresa nel possesso dei beni e autorizzazione al proseguimento dell’attività produttiva), non lede la sfera di competenza dell’Autorità giudiziaria e, quindi, il principio della separazione dei poteri, perché non mira a travolgere «un “giudicato” nel senso tecnico processuale del termine», ma a modificare «il quadro normativo sulla cui base erano stati emessi alcuni provvedimenti cautelari». Essa crea, cioè, «una nuova situazione di fatto e di diritto» che consente la ripresa della produzione, non già «con le modalità precedenti (che avevano dato luogo all’intervento dell’autorità giudiziaria), ma con modalità nuove e parzialmente diverse», suscettibili di porre le premesse per la produzione di nuovi fatti e di nuove situazioni, «che dovranno essere valutati nuovamente dai giudici, ove aditi nelle forme rituali» (sent. n. 85/2013, par. 12.4 del cons. in dir.).
La disciplina concernente gli “stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale” e la sua applicazione agli stabilimenti Ilva di Taranto, inoltre, non sono state considerate viziate da irragionevolezza, perché motivate da una “situazione di emergenza” che imponeva, appunto, l’adozione di “una legge-provvedimento” capace di «scongiurare una gravissima crisi occupazionale» e di fronteggiare le questioni connesse alla «compromissione della salubrità ambientale e, quindi, della salute delle popolazioni» (sent. n. 85/2013, par. 12.2 del cons. in dir.). Resta da chiedersi, tuttavia, se un ordinamento democratico possa tollerare – sia pur in nome della “necessità” di garantire la produzione e l’occupazione – «un vulnus tanto dirompente per tutta una serie di principi-cardine dell’organizzazione dello Stato di diritto costituzionale, quali il rispetto della funzione giurisdizionale, del giusto processo e della separazione dei poteri» (Morelli, in Dir. pen. cont., n. 1/2013, p. 11).