Intorno alla relazione della Commissione UE sulla corruzione
La Commissione Europea ha pubblicato pochi giorni fa una relazione sulla corruzione in Europa e quindi in Italia. La gravità del fenomeno è evidenziata da due cifre. Valore totale – presunto, ovviamente – del gettito della corruzione: 60 miliardi di euro. Rapporto di questo “reddito” rispetto al PIL: 4%. Sono numeri terrificanti.
La premessa metodologica della relazione è che “La credibilità di un piano anticorruzione efficace e dissuasivo dipende dalla capacità di perseguire i casi di corruzione. La percezione pubblica del fenomeno denuncia lo scarso effetto deterrente delle sanzioni applicate in questo settore. Secondo i dati dello speciale Eurobarometro sulla corruzione del 2013, appena il 27% dei rispondenti ritiene che il numero dei reati indagati ed accertati sia sufficiente a scoraggiare condotte corruttive attive o passive”. In effetti, tutta la relazione prosegue, riferendo delle iniziative assunte o da assumere per reprimere la corruzione attraverso la punizione dei corrotti: tipico è il caso dei controlli interni (dei quali pur si riconosce la scarsa efficacia).
Il problema è molto difficile. In termini generali, non c’è minaccia che dissuada dal vizio. Persino nel mondo islamico più duro, dove il furto è punito con il taglio della mano e gli adulteri vengono uccisi, un po’ di ladri e di adulteri ci sono. Si spera sempre di sfuggire alla denuncia, alla condanna, all’esecuzione. Così, di fronte alla prospettiva di poter ricevere soldi o beni altrimenti irraggiungibili, non c’è minaccia di pena che tenga persone fragili o avide lontane della corruzione.
Il parametro di riferimento per combatterla non può insomma essere la punizione dei corrotti, accompagnata dalla predisposizione di sistemi di controllo che consentano di intercettare la coppia corruttore-corrotto. Se i numeri sono quelli della relazione della Commissione UE, forse neppure un corrotto su mille può essere individuato, indagato ed effettivamente punito. Gocce in un lago, se non in un mare, è il caso di dire.
Occorre percorrere altre vie. Esse potrebbero essere due. La prima è quella dell’isolamento morale e sociale dei corrotti. La vicenda del fumo è molto significativa. Era un problema molto rilevante, con grandi costi sociali e sanitari. Lo Stato vendeva sigarette in concorrenza con i contrabbandieri, che naturalmente doveva combattere. Ebbene, un’accurata campagna di informazione, accompagnata a tempo debito da misure interdittive – divieto di fumare al cinema, nei luoghi pubblici, in treno etc. ad es. – conseguì in pochi anni il risultato di togliere al fumo quell’atmosfera di “vizio lecito” che lo accompagnava, rendendolo irrinunciabile. Caduta questa atmosfera, un grandissimo numero di persone smise di fumare. Centinaia di milioni, tra Europa ed America Settentrionale.
Una campagna di disprezzo per i corrotti, dunque, per cominciare.
Ma non si deve dimenticare perché e dove nasce la corruzione. Nasce per ottenere qualche cosa che potrebbe non spettare, in assoluto (ad es. un permesso) o in rapporto ad altri (un appalto ad es.). Per ottenere questo devono ricorrere due condizioni. La prima è che le norme applicabili devono essere oscure, equivoche, suscettibili di interpretazioni di ogni genere. Il “dono” stimola la capacità interpretativa di chi lo riceve. La seconda è che deve esserci un ambiente sufficientemente isolato e protetto, nel quale organizzare e gestire l’operazione. In altri termini, ci deve essere una situazione protetta da sguardi indiscreti.
Il primo punto ha un carattere oggettivo. Non si possono fare, e tenere un vita, norme che consentono manipolazioni, interpretazioni, spazi temporali incontrollabili. Un campagna contro la corruzione deve aggredire anzitutto le leggi, per semplificarle, renderle univoche, cancellando equivoci e procedure inutili.
Il secondo punto investe il sistema. Nel testo unico degli impiegati civili dello Stato del 1953 c’era una norma che vincolava i dipendenti al segreto d’ufficio. Era addirittura oggetto di giuramento. Nel corso degli anni, questa idea si è andata appannando. Oggi la legge anticorruzione ha quasi completamente demolito il segreto d’ufficio, consentendo a tutti l’accesso a tutti gli atti. Se è vero che la corruzione ha la perentoria, irrinunciabile necessità di essere gestita in segreto, la legge del 2012 dovrebbe averle assestato un colpo notevole.
Non ha ottenuto questo risultato. La ragione è molto chiara. Il segreto che deve essere rotto non è quello che riguarda atti già adottati – dunque procedure concluse, determinazioni discrezionali definite, etc. Il vero segreto è quello che riguarda la formazione degli atti, passo dopo passo, quando qualcuno deve valutare se è meglio la soluzione A o quella B; se è più o meno opportuno, in prospettiva, andare in un senso anziché un altro. Questo tipo di segreto deve cadere. La formazione in progress, come si dice, deve diventare pubblica. L’accesso successivo consente sì di vedere che cosa è accaduto, ma appunto ex post, a giochi fatti: non consente di seguire il gioco.
Difficile? Certo. Ma come ci insegnano le nuove direttive dell’Unione in materia di appalti, l’apporto dei privati alla concezione stessa delle opere da realizzare è determinante. Il dialogo diventerà la regola per lo sviluppo della progettazione e l’uso delle tecnologie più avanzate.
Potrebbe essere la regola per rendere tutto trasparente e mandare in pensione la corruzione.