Riflessioni sull’Unione Bancaria Europea in una prospettiva di riforme

Sommario: 1. Premessa. – 2. L’opportunità di una programmazione interventistica. – 3. Uso improprio dei ‘derivati’ e necessità di più stringenti forme di supervisione. – 4. La riforma del capitale della Banca d’Italia e la specificità del suo nuovo assetto strutturale. – 5. Conclusioni ([1]).

 

1. A distanza di soli tre mesi dalla pubblicazione di un mio libro sull’UBE (cfr. L’Unione Bancaria Europea. Una sfida per un’Europa più unita, Torino, Utet, 2013) mi accorgo che le conclusioni in esso formulate appaiono già suscettibili di integrazioni dovute essenzialmente all’accelerazione dei processi di modifica (delle forme operative e della sistematica disciplinare) avviati a seguito della nota crisi finanziaria e dei debiti sovrani che, negli ultimi anni, ha colpito gran parte dei paesi UE.
L’analisi del complesso dispositivo che è a fondamento dell’UBE mi ha indotto a ricondurre la finalità del «meccanismo unico di vigilanza» – voluto dagli organi decisionali dell’Unione e da questi realizzato nell’arco temporale 2012/2013 – all’intento di segnare una svolta nelle modalità d’integrazione degli Stati membri. Più precisamente, l’affidamento alla BCE della supervisione sulle banche che, per dimensione operativa, sono in grado di incidere sugli equilibri sistemici della UE, rappresenta a mio avviso una coerente forma d’intervento per potenziare il livello di ‘omogeneizzazione’ tra gli appartenenti all’ordinamento finanziario europeo e, dunque, per dar vita ad un processo di coesione e di condivisione, che a tutt’oggi non ha trovato ancora adeguata affermazione. Non a caso, nel titolo del mio saggio, ricollego alla costituzione dell’UBE la proposizione di una «sfida per un’Europa più unita»!

2. Non voglio in questa sede ripercorrere le tappe dell’iter logico da me seguito nel tentativo di dare una congrua dimostrazione della tesi poc’anzi enunciata. Ritengo sufficiente, al riguardo, richiamare il ruolo decisivo svolto dalla BCE, con le sue operazioni ‘non convenzionali’, nel supportare i paesi in difficoltà e, dunque, nel facilitare il superamento della fase più buia della recente crisi. Non v’è dubbio che l’azione da essa svolta giustifica appieno la posizione di primario rilievo che le è stata assegnata in sede di definizione dell’apparato di vertice dell’UBE.
Come ho avuto modo di sottolineare nel mio saggio, si è in presenza di un riconoscimento che – nel recuperare, a livello logico sistematico, l’unitarietà del fenomeno moneta/credito – rimette la vigilanza sul settore bancario europeo all’autorità che, sul piano delle concretezze, è in grado di esercitare tale funzione in modalità ottimale. È stata privilegiata, quindi, la neutralità tecnica di detta istituzione, la cui legitimazione giuridico formale ad attivarsi nel nuovo ambito operativo è, del resto, riconducibile al disposto normativo del paragr. 6 dell’art. 127 del Trattato FUE (nel quale si prevede, per l’appunto, la possibilità di affidare alla BCE «compiti specifici» in materia di vigilanza prudenziale).
Più in generale, può dirsi che – attraverso un equilibrato contemperamento dell’originario compito della BCE di salvaguardare l’«equilibrio dei prezzi» con le «determinanti economiche» sottese alla funzione di controllo ora conferita – si ascrive rinnovata valenza all’intermediazione finanziaria (quale perno motore dello sviluppo economico), imponendone peraltro uno svolgimento conforme alle regole e, dunque, attento alla prevenzione dei rischi.
Ciò posto, sembra opportuno, tuttavia, formulare una considerazione di carattere generale con riguardo alle modalità di esercizio dei poteri previsti dal regolamento approvato dal Consiglio europeo sulla ‘vigilanza unica’. Come è dato evincere dalla tipologia e dal contenuto degli interventi di cui trattasi, l’attività di controllo per tal via dispiegata avviene in modalità che rimettono alle (autonome) valutazioni del vertice della BCE la realizzazione degli obiettivi che il regolatore europeo si è prefissato. In altri termini – ferma restando la conservazione alle autorità degli Stati membri di talune significative funzioni nel coadiuvare l’organismo titolare della supervisione bancaria -, viene in evidenza l’eventualità di un’azione centrale non adeguatamente propulsiva nella realizzazione delle forme di equiparazione e coordinamento necessarie affinchè il ‘meccanismo unico di vigilanza’ assolva con successo ai propri compiti.
Al riguardo, non può trascurarsi di osservare che la tempestiva assunzione dei provvedimenti indicati dalla normativa speciale e la stessa efficacia ai medesimi ascrivibile sono strettamente correlate alle capacità (rectius: al ruolo decisionale) di coloro che, di tempo in tempo, rivestono la carica di Presidente della BCE. È evidente come – in ragione della possibilità che abbiano a verificarsi improvvide alternanze nella ottimale gestione della funzione di controllo – la ‘discrezionalità tecnica’ (che connota l’agere della nominata autorità) potrebbe interagire negativamente in sede di svolgimento della supervisione bancaria, assurgendo a fattore di ‘discontinuità’ nel perseguimento di idonee politiche creditizie (cui, ovviamente, deve conformarsi una azione coerentemente preordinata alla stabilità del settore).
Da qui l’opportunità di ricercare rimedi in grado di assicurare al ‘meccanismo unico di vigilanza’ una funzionalità non soggetta ad ipotizzabili cambiamenti della linea decisionale (i.e. non ancorata alle scelte virtuose del Presidente pro tempore della BCE, come è dato riscontrare nel presente momento storico). A ciò si aggiunga anche la necessità di evitare linee comportamentali volte a favorire interessi particolari, talora divergenti rispetto a quelli generali riferibili all’Unione.
Tra le soluzioni ipotizzabili – tralasciando di prendere in considerazione eventuali modifiche del processo decisionale, attualmente seguito nell’UE, in grado di introdurre in subiecta materia adeguate forme di ‘controllo democratico’ – di certo va sottolineata quella rappresentata dalla definizione di un possibile ‘programma’ o ‘piano’ (se del caso pluriennale) degli interventi assumibili dall’autorità di vertice sopra menzionata. Ed invero, il ricorso ad una predeterminazione della linea operativa di quest’ultima, ne vincola l’attività sia sotto il profilo dell’an che del quando; viene, in tal modo, evitato il rischio che i risultati avuti di mira dal regolatore europeo possano subire ritardi a causa di processi esecutivi poco efficienti per carenza di adeguati input se non, addirittura, per deprecabili periodi di stasi operativa (contrari alla logica sottesa alla costruzione in esame).

3. Ritengo che ulteriore materia di riflessione in ordine alle modalità di esercizio della funzione di vigilanza (cui è protesa la realizzazione dell’UBE) sia offerta dalla individuazione di alcuni significativi problemi riconducibili vuoi alla realtà operativa del sistema finanziario europeo, vuoi a taluni provvedimenti normativi recentemente assunti in alcuni Stati dell’UE.
Volendo circoscrivere l’analisi agli accadimenti del nostro Paese, sotto il primo profilo viene in considerazione l’uso/abuso di strumenti finanziari derivati da parte di numerosi intermediari. Sono comunemente note le vicende del Monte dei Paschi dovute a condotte irregolari tuttora al vaglio dei competenti organi giudiziari;  tali condotte, oltre ad incidere sulla realtà economico patrimoniale della terza banca italiana, potrebbero avere gravi ripercussioni critiche sull’intero settore finanziario domestico (connesse al discredito reputazionale di cui sono portatrici). Da qui la prospettiva di difficoltà ulteriori rispetto a quelle indotte dalla recente crisi finanziaria e dei debiti sovrani.
Orbene, prassi operative di tal genere agiscono da catalizzatore nell’emersione di talune carenze disciplinari che caratterizzano l’apparato autoritativo realizzato col SEVIF, interagendo sulla sfera di competenze delle autorità di vigilanza che ne fanno parte. Ed invero, come meglio si specificherà qui di seguito, non sono stati previsti a livello normativo europeo puntuali meccanismi volti a prevenire le forme degenerative dell’operatività in derivati, le quali sono ovviamente destinate ad avere ripercussioni negative sugli equilibri sistemici degli ordinamenti finanziari nazionali.
Al riguardo, occorre far riferimento alla disciplina sugli strumenti derivati negoziati sui mercati OTC introdotta dal Regolamento (UE) n. 648/2012. Più precisamente, rilevano – ai nostri fini – le disposizioni nelle quali si fissano gli obblighi di compensazione (presso una controparte centrale) e di segnalazione (alle società denominate «repertori di dati») cui sono tenuti i soggetti finanziari (a fronte di un più circoscritto onere imposto a quelli non finanziari, tenuti agli adempimenti in parola nelle sole ipotesi operative che superino una determinata soglia monetaria).
In tale contesto disciplinare, l’intervento dell’Esma è circoscritto alla partecipazione al ‘collegio’ deputato ad emettere il parere cui è subordinato il rilascio dell’autorizzazione (da parte delle autorità nazionali competenti) che abilita ad operare come ‘controparte centrale’; attività consultiva cui si aggiunge, poi, la tenuta del particolare registro nel quale sono elencati tutti i ‘repertori di dati’ finalizzati alla raccolta ed alla conservazione (in modo centralizzato) delle registrazioni sui derivati.  All’Esma è, dunque, riconosciuta la facoltà di chiedere ai ‘repertori di dati’ (ed a terzi collegati) qualsivoglia informazione relativa alla loro attività, potendo procedere – ove lo ritenga opportuno – ad ispezioni in loco; quadro interventistico che si completa con l’esercizio di un potere sanzionatorio attivabile in presenza di violazioni tecniche.
A ben considerare, si è in presenza di un complesso potestativo che appare di certo molto limitato ed insufficiente ad impedire che l’operatività in derivati possa, a volte, produrre gli effetti negativi di cui sopra si è detto, con immancabili ricadute sulla stabilità dei sistemi finanziari di riferimento. È evidente come – a fronte della descritta realtà disciplinare – un’estensione della sfera d’attività del ‘meccanismo unico di vigilanza’ appare, oltre che logica, necessaria. Da qui la riproposizione di una problematica già esaminata dalla dottrina (cfr. tra gli altri GUARRACINO, Supervisione bancaria europea. Sistema delle fonti e modelli teorici, Padova, 2012) con riguardo alla delimitazione dei poteri dell’EBA, le cui funzioni – come viene sostenuto anche nel mio libro – sono destinate ad un progressivo ridimensionamento a seguito della creazione dell’UBE.
Non v’è dubbio, infatti, che l’EBA – nel difficile compito di conciliare gli interessi (spesso contrapposti) degli Stati dell’eurozona con quelli dei paesi che ne sono fuori –  potrà, nel tempo, orientarsi verso un ipotizzabile non facere, con sostanziale modifica dell’apparato interventistico del SEVIF. Verosimilmente – a fronte delle indicate carenze disciplinari nella materia dei derivati – appare necessario valutare, in chiave prospettica, la possibilità di traslazione in capo alla BCE delle forme di controllo di cui trattasi. Consegue l’esigenza di dover procedere, in un futuro non lontano, alla revisione dell’impianto ordinatorio del sistema finanziario europeo, sì da rendere le competenze demandate alle relative autorità di vertice coerenti con la realtà normativa e fattuale degli Stati membri.

4. Da ultimo, la tematica concernente i condizionamenti posti dalle realtà nazionali alla perseguibilità degli obiettivi cui è finalizzata la creazione dell’UBE, deve tener conto – per quanto riguarda il nostro Paese – di un importante evento normativo in via di definizione. Mi riferisco alla conversione (prevista per la fine del presente mese di gennaio) di un decreto legge (cfr. d.l. 30 novembre 2013, n. 133) nel quale, tra l’altro, è disciplinata la rivalutazione delle quote del capitale della Banca d’Italia, mediante utilizzo delle riserve statutarie sino a euro 7.500.000.000.
Non intendo in questa sede soffermarmi sull’esame delle motivazioni che possano aver indotto, solo oggi, l’autorità politica a rivedere (in aumento) la consistenza dell’asset patrimoniale della nostra banca centrale, motivazioni valutate criticamente da alcuni comparti della stampa specializzata (cfr. tra gli altri Baglioni, Quote Banca d’Italia: la Bce bacchetta il Governo, reperibile su www. ilfattoquotidiano.it) che hanno evidenziato le variegate implicazioni negative di siffatta modifica strutturale della Banca d’Italia. Del pari, tralascio di prendere in considerazione l’interesse del Governo alla pronta realizzazione di tale operazione dalla quale derivano plusvalenze alle banche tassabili per oltre un miliardo di euro (cfr. sul punto, tra i numerosi articoli di stampa, Saccomanni: Bankitalia, possibile calo quota soci al 3%. Non escluso obbligo quotisti solo italiani, su www.ilsole24ore.it).
Per converso, ritengo opportuno richiamare l’attenzione sulla valutazione degli effetti di tale operazione in quanto, a seguito di essa, risulteranno profondamente innovati non solo il contesto strutturale della Banca d’Italia, ma anche le modalità con cui quest’ultima interagisce con gli appartenenti al settore creditizio. In particolare, rilevano le numerose questioni poste dalla situazione relazionale (significativamente diversa rispetto al passato) che la nostra banca centrale dovrà gestire nel rispetto delle regole fissate dalla legge di conversione, tuttora in itinere.

Occorre premettere che non intendo sollevare dubbi sulla piena legittimità di detto aumento di capitale – stante, tra l’altro, la positiva valutazione espressa al riguardo dalla stessa BCE (cfr. il parere in data 27 dicembre 2013), la quale ha dato il nulla osta alla modifica del valore delle quote di Banca d’Italia, subordinandola peraltro alla necessità di «preservare un adeguato livello di capitalizzazione» – e sulla congruità delle stime di valore, affidate a tre saggi (Franco Gallo, Lucas Papademos e Andrea Sironi) che ne hanno fissato la capienza in una forbice compresa tra 5 e 7 miliardi e mezzo; per tal via superando la anacronistica riferibilità al valore simbolico di 156 mila euro (riveniente dalla conversione di 300 milioni di lire), stabilito negli anni trenta del novecento.
Del pari, non sembra sussistano perplessità con riguardo all’esclusione di qualsivoglia influenza futura (da parte dei titolari di quote di capitale) «sulle decisioni che riguardano le attività istituzionali della Banca d’Italia» (cfr. Senato della Rep., VI Commissione, Audizione del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nell’«Indagine conoscitiva per l’istruttoria legislativa sul disegno di legge n. 1188», Roma, 12 dicembre 2013); orienta in tal senso la chiara limitazione dei diritti dei ‘partecipanti’ (prevista dallo statuto della BI e dal d.l. n. 133/2013) circoscritti a quelli di natura patrimoniale, nonchè all’approvazione del bilancio ed all’elezione dei membri del Consiglio superiore.
Per converso, appare opportuno aver riguardo alla circostanza che il complesso normativo destinato a disciplinare la materia in esame prevede puntuali regole con riguardo all’ammontare della partecipazione detenibile e del dividendo distribuibile, all’uopo imponendo un obbligo di cessione delle quote in eccedenza (le quali ‘temporaneamente’ possono essere assunte dalla stessa Banca d’Italia). A ben considerare, si individuano i presupposti di un impianto ordinatorio riguardante il mercato delle quote del capitale della nostra banca centrale; a tale mercato sono ammesse – come ha precisato lo stesso Governatore Visco – «tutte le banche italiane», nonché «altre categorie di investitori istituzionali, sottoposti a regimi di vigilanza» (cfr. Senato della Rep., VI Commissione, Audizione del Governatore…, cit.).
Orbene, mentre ogni valutazione riguardante il vantaggio patrimoniale riconosciuto ai soggetti creditizi (cfr. l’editoriale Banche, il governo prepara un regalo fino a 4 miliardi per Intesa e Unicredit, pubblicato in ilfattoquotidiano.it in data 27 novembre 2013) appare riconducibile alle motivazioni politiche sottese al provvedimento normativo in esame, di certo destinato ad una futura specificazione si configura il ‘nuovo intreccio di interessi’ tra la Banca d’Italia e gli operatori del mercato bancario. Tale intreccio segna una netta ‘progressione’ rispetto ai livelli relazionali, riscontrabili fino ad oggi, tra l’Istituto in parola ed i titolari delle quote di partecipazione al suo capitale;  ora più che nel passato si individuano, sul piano sistemico, i presupposti idonei a legittimare  l’inquadramento della nostra banca centrale alla stregua di ente ‘esponenziale’ del settore creditizio, qualifica in tempi lontani ad essa attribuita dalla dottrina (cfr. per tutti DE VECCHIS, Commento sub artt. 20 ss l.b., in AA.VV., Codice commentato della banca, Milano, 1990. Tomo I, p. 197 ss) che, in ragione della sua posizione istituzionale, la considerò portatrice degli interessi della categoria di riferimento.
Indubbiamente, il delineato modello partecipativo previsto dalla normativa italiana identifica uno ‘schema ordinatorio’ particolare, tale da differenziare la nostra banca centrale rispetto alle altre del SEBC. Detta peculiarità del ‘sistema Italia’ potrebbe essere considerata contraria al processo di omogeneizzazione voluto dal legislatore europeo con la creazione dell’UBE; ciò, fermo restando che il rafforzamento del nesso controllante/controllati (riveniente dal legame patrimoniale ora ridisegnato dal d.l. n. 133/ 2013 e specificato dallo statuto della Banca d’Italia) dovrebbe interagire positivamente ai fini di un migliore e più coeso svolgimento dell’attività bancaria e finanziaria (stante il reciproco interesse, anche di carattere economico, ad un’azione efficiente, in grado di ottimizzare le risorse disponibili).

5. Concludendo e ritornando alle premesse di questo discorso, ritengo che la creazione dell’UBE evidenzi un importante passo nella direzione di un sistema finanziario europeo maggiormente integrato, grazie al miglioramento delle forme di coordinamento e cooperazione tra gli Stati membri, cui è preordinato il ‘meccanismo unico di vigilanza’.
Naturalmente, altri interventi disciplinari si rendono necessari al fine di dare concretezza al ‘sogno europeo’. Si dovrà, quindi, provvedere (in un futuro non lontano) ad un potenziamento dell’azione riformatrice avviata, nell’ultimo biennio, in ambito UE; intervento che sarebbe opportuno orientare vuoi alla ridefinizione dei parametri della ‘stabilità’ fissati nel Trattato di Maastricht, vuoi alla rivisitazione del quadro potestativo degli organi europei. Ciò, dovrà comportare un maggior impegno della politica italiana, volto giustamente a rivendicare un ridimensionamento delle tendenze egemoniche dei Paesi europei che dalla crisi finanziaria hanno tratto vantaggi competitivi (come la Germania) ed un più significativo coinvolgimento di quelli che, nel tempo, hanno dimostrato scarsa propensione per l’interesse comune (come il Regno Unito).

Note

1.  Si riproduce il testo di un intervento svolto al Seminario organizzato, in data 15 gennaio 2014, dal Collegio dei docenti del Dottorato in ‘Sistemi Finanziari, Gestione e Regolazione dei Rischi’ dell’Università G. Marconi di Roma in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma.