Il divieto di mandato imperativo: tra cogenza, obsolescenza e convalescenza

1. Una breve premessa. – 2. Il cammino verso la cogenza. – 3. L’obsolescenza e l’eterogenesi dei fini. – 4. La convalescenza.

1.    Una breve premessa
Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, così recita l’art. 67 Cost., una disposizione carica di storia, ma che non è ancora giunto il tempo, almeno nel nostro ordinamento, di relegare alla storia.
Periodicamente, difatti, si riapre la polemica sulla sorte dell’art. 67: ma qual è il motivo di tanta attenzione per il divieto di mandato imperativo? Forse proprio la consapevolezza che l’istituto in questione è il “cuore” del mandato parlamentare, così come lo conosciamo – almeno in Europa continentale – dalla Rivoluzione francese.
Nel tentativo di dare conto dell’azione dell’istituto nella costruzione di una rappresentanza politica moderna e di diritto pubblico, questo breve contributo strutturerà le vicende del divieto di mandato imperativo in tre parti: il cammino verso la “cogenza”; la presunta “obsolescenza” all’indomani della nascita di partiti di massa; l’attuale fase di “convalescenza” dell’istituto tra “distrazione” della responsabilità politica e impieghi eterodossi.
Da ultimo, prima di entrare nel merito della riflessione, pare opportuna un’avvertenza preliminare: come sempre quando si è nel campo del diritto costituzionale il passaggio tra giuridico e politico è così rapido che si rischia di confondere le specifiche aree di competenza. Da questo punto di vista il tema del divieto di mandato imperativo è tra i più insidiosi perché ponendosi all’esatto crocevia tra politica e diritto, rischia di fuorviare gli osservatori nella comprensione delle specificità dell’istituto di diritto costituzionale. Onde evitare, dunque, l’attribuzione di effetti “impropri” è sempre bene precisare il piano che viene in attenzione, se il giuridico o il politico.

2.    Il cammino verso la cogenza
Sin dalle epoche più remote[1],i sovrani vollero convocare in “parlamenti”[2] l’aristocrazia laica ed ecclesiastica allo scopo di favorire lo scambio di idee o semplicemente per solennizzare le loro decisioni. Con il passare del tempo, questi incontri divennero la sede per decidere di nuove tasse, soprattutto per il finanziamento delle campagne militari. La qualità di contribuente, pertanto, divenne il titolo per sedere in assemblea: i sovrani, infatti, accanto ad un primo nucleo legittimato iure proprio a partecipare alle adunanze, riconobbero pari diritto anche a realtà socio-economiche molto importanti ai fini impositivi quali i borghi, le città, le corporazioni, i ceti, ecc.
Le convocazioni dei parlamenti erano di iniziativa regia e venivano comunicate a mezzo di lettere patenti[3], nelle quali le comunità destinatarie erano invitate a inviare i deputati di spettanza: questa vocatio, tra l’altro, permetteva di apprendere anticipatamente i temi che sarebbero stati discussi e quindi di redigere quello che in Francia prese il nome di “cahier de doléance”, ossia il mandato da svolgere nei parlamenti.
Il rapporto fra mandante e mandatario era di carattere squisitamente privatistico: non vi era quindi lo spazio né per una determinazione autonoma del mandatario, né per scopi ulteriori rispetto a quelli preventivati nell’atto di mandato. L’obbligo di fedele esecuzione del cahier costituiva al contempo l’assicurazione per il sovrano che le collettività si sarebbero sentite vincolate alle decisioni prese nei parlamenti. Non sempre, però, le fonti riferiscono di rappresentanti alle strette dipendenze dei mandanti: a volte, ad esempio, a causa della vaghezza della convocazione regia, venivano lasciati dei margini di autonomia ai delegati dei baillages. I sovrani, pertanto, per superare l’ulteriore problema della vincolatività delle decisioni prese extra mandato chiedevano che ai rappresentanti fosse riconosciuta plena potestas o omnimoda potestas,e che a ciò si aggiungesse il contestuale impegno delle comunità a ritenere vincolante quanto deciso nel parlamento[4]. Ad ogni modo, in epoca precedente alla Rivoluzione francese non è possibile sostenere la pacifica affermazione del divieto di mandato imperativo[5]: non esisteva né una esperienza unitaria, né una regola certa sulla natura del mandato.
Solo con la decisione dell’8 gennaio 1790 dell’Assemblea Costituente[6], l’opzione per un mandato libero, non revocabile, politico e non giuridico fu cosa certa, e così si consumarono i natali della moderna rappresentanza politica[7].
I rivoluzionari decisero proprio per il divieto di mandato imperativo non tanto per assicurare speditezza e tempestività alle decisioni dell’Assemblea rappresentativa[8], ma altresì perché esso appariva come un’opzione imprescindibile nella creazione della Nazione francese[9]. Più diffusamente, il divieto di mandato imperativo era il passaggio necessario affinché i membri dell’Assemblea nazionale potessero legittimarsi come rappresentanti della Nazione. Una volta proclamato che il deputato agisce nell’interesse della Nazione, difatti, egli non poteva continuare a ricevere istruzioni dal suo collegio. Nel nuovo schema di rappresentanza, infatti, questo collegio veniva sostituito, nella sua pozione di rappresentato, da un’entità astratta, sino ad allora politicamente sconosciuta: la Nazione[10]. La circoscrizione di elezione, dunque, cessava di essere il riflesso di un gruppo sociale, economico o politico con i suoi specifici interessi e diventava semplicemente una partizione geometrica del territorio dettata da ragioni pratiche.

La consacrazione dell’unità della Nazione è finalizzata al perseguimento della esigenza politica di unirsi per vincere le forze esterne anti-rivoluzionarie, ma soprattutto costituisce lo strumento per affermare la discontinuità con la precedente epoca delle corporazioni[11]. La Nazione dei costituenti francesi si presenta come un insieme completo ed omogeneo di cittadini uguali, in antitesi alla società dei gruppi d’ancien régime. L’unità e l’identità nazionale muovono dalla représentation in ragione del suo momento istitutivo: la consultazione elettorale. In altre parole, se la legittimazione al voto è determinata dall’essere cittadini e quindi dell’essere parte della Nazione, il soggetto rappresentato cessa di essere chi materialmente esercita il diritto elettorale, ma diviene un’entità superiore ed indivisibile: la Nazione.
Eccettuata la parentesi giacobina dove l’esigenza ineliminabile del controllo dei mandanti sull’operato dei mandatari imponeva il ricorso ad una responsabilità di carattere giuridico che contemplava l’eventuale revoca dei rappresentanti[12], dunque, nell’Europa continentale, a seguito degli eventi rivoluzionari, la rappresentanza diviene “politica”.
La nuova rappresentanza politica tuttavia, come accennato, deve al divieto di mandato imperativo non solo il carattere “nazionale”, ma anche la soluzione del problema dello stallo decisionale. A ben guardare, difatti, l’elezione di un’assemblea deputata a trattare gli affari generali di uno Stato, che postuli la distinzione tra governanti e governati, può garantire un esercizio tempestivo delle sue funzioni solo ove i primi non siano vincolati alle istruzioni puntuali dei secondi.
Il principio del libero mandato parlamentare, così come elaborato durante la Rivoluzione francese, successivamente “è passato in tutte le costituzioni liberali dell’Ottocento”[13] e, in sinergia con l’istituto delle immunità, è divenuto il meccanismo giuridico di protezione del primato degli interessi comuni su quelli particolari[14]. Il rappresentante, infatti, pur essendo eletto da molti, è chiamato a governare “tutti” e “per tutti”: l’interesse nazionale, dunque, è sintesi della volontà dell’elettore che ha perso le elezioni e di quello che le ha vinte, così interpretato da ogni singolo rappresentante – che, pertanto, non può delegare il suo voto a un collega o a un terzo all’esito del dibattito parlamentare[15].
Una volta che la prerogativa legislativa delle assemblee elettive è divenuta pacifica, il divieto di mandato si palesa, nondimeno, come precondizione della discussione in Aula. Solo a partire dall’assenza di istruzioni vincolanti per il parlamentare sussiste la possibilità logica di giungere ad una decisione compromissoria, che non deve essere intesa in senso negativo o solo parzialmente satisfattivo: nel sistema parlamentare la discussione è la via attraverso la quale si può raggiungere un grado di ragionevole approssimazione alla verità, ossia alla decisione migliore per la Nazione. In quello che è stato chiamato il modello del governement by discussion[16], in altre parole, il deputato si presenta come un individuo che, sollecitato dalla discussione, dalla circolazione di tante opinioni diverse dalla sua, matura un convincimento diverso da quello che nutriva all’inizio della seduta, al quale non sarebbe mai giunto nella solitudine dei suoi uffici.
Veniamo quindi al profilo della responsabilità.
Il deputato non risponde giuridicamente della mancata osservanza delle istruzioni, non incorrendo in tal caso né nella revoca né nella decadenza dal mandato; egli però non è altrettanto immune dalla responsabilità “politica”. Gli elettori, difatti, hanno la possibilità di confermare o meno, periodicamente, il mandato rappresentativo con l’unico, ma micidiale strumento della mancata rielezione.
Proprio rispetto a tale ultimo aspetto si apprezza la diversità tra la rappresentanza politica “liberale” e quella delle democrazie pluralistiche. Mentre la prima si configura come una mera situazione di potere[17], la seconda si struttura anche come “rapporto”, ossia non trova legittimazione nel solo fatto dell’elezione alla carica, ma anche nella relazione continua tra rappresentante e rappresentato. Questo stato di cose è però coerente con l’esercizio dei diritti politici limitato alla sola classe borghese: l’appartenenza allo stesso blocco sociale, difatti, garantisce la rispondenza degli interessi tra eletti ed elettori: non è necessaria quindi una continua comunicazione tra i due termini del rapporto rappresentativo. Le cose si complicano, dunque, con l’allargamento del suffragio quando nella sfera della rilevanza politica fanno ingresso interessi e bisogni molto diversi.

3.    L’obsolescenza e la rinascita nell’eterogenesi dei fini.
Tra le trasformazioni sociali che portarono alla crisi dello Stato liberale, un ruolo determinate è sicuramente da riconoscersi nella nascita dei partiti, i quali all’esito del consolidamento in senso democratico del governo rappresentativo divennero i principali attori del sistema politico[18].
L’affacciarsi sulla scena politica dei partiti che rappresentano le masse popolari comportò, come si diceva, la complicazione del circuito politico, anzitutto perché in Parlamento, da questo momento in poi, siederanno i rappresentanti di un tessuto sociale conflittuale e diversificato, ossia pluralistico. Il progressivo consolidamento dei partiti sul territorio rese necessaria la creazione di un apparato burocratizzato e professionalizzato, capace di aggregare e mobilitare le masse, ma soprattutto di esercitare un controllo penetrante sui propri parlamentari.Il partito divenne dunque, a tutti gli effetti, l’intermediario tra la domanda sociale e le aule parlamentari.
Queste modificazioni dell’istituto della rappresentanza politica aprirono i nuovi orizzonti del mandato di partito.

Più in generale, la nuova rappresentanza vive un rapporto ambivalente con la tradizionale liberale. Se, per un verso, rompe con il vecchio “nesso funzionale fra rappresentanza e sfera pubblica borghese[19]”,per l’altro, conserva il metodo del sistema del government by discussion[20], anche se le aspettative compromissorie sono più ridotte.
Ma a tutto ciò si arriva per gradi. La dottrina del primo dopoguerra, invero, si divise sensibilmente sulla sorte del divieto di mandato imperativo nello Stato di partiti.
Se da una parte vi era chi, come Leibholz,[21] negava la compatibilità della democrazia fondata sui partiti con il sistema di mandato rappresentativo classico, argomentando che le elezioni erano, nella sostanza, un plebiscito a favore dei partiti, e quindi lo Stato di partiti era una forma razionalizzata di democrazia plebiscitaria[22], o meglio, una nuova forma di democrazia diretta[23]; oppure chi come Schmitt, più pungentemente, osservava che confidare che i partiti perseguissero l’interesse generale attraverso i metodi parlamentari “è credenza antica, veramente più liberale che democratica”[24]; dall’altra, taluni, come Kelsen, non si arrendevano davanti a quella che poteva apparire come la “capitolazione del libero mandato parlamentare”, senza con ciò arroccarsi sui principi classici del governo rappresentativo, ma ripensando l’istituto alla luce della novità dei “Partiti in Parlamento”. Kelsen, infatti, credeva che i problemi di convivenza tra “vecchio” e “nuovo” dovessero essere risolti adattando “l’ordinamento giuridico e gli istituti parlamentari al potere di fatto assunto dai partiti politici”, avendo sempre come obiettivo la massimizzazione della democraticità del sistema. In altre parole, egli non solo considerava le istituzioni del parlamentarismo classico compatibili con la presenza dei partiti, ma reputava addirittura necessaria l’interazione dei due elementi: se per un verso, la nascita dei partiti permetteva a tutte le componenti della società civile di partecipare alla vita politica; dall’altro, l’adozione degli schemi rappresentativi classici consentiva di imbrigliare i partiti entro certi limiti, sì da impedire eventuali dittature del partito – dentro e fuori di esso[25].
A ben guardare, dunque, nello Stato di partiti il contenuto giuridico del divieto di mandato imperativo si traduce nell’inefficacia dell’eventuale patto stipulato tra eletto e partito al pari di quanto accade tra eletto ed elettori. Di conseguenza, l’accordo con il deputato, in ordine ad un certo contegno parlamentare, vi può pure essere, ma il suo rispetto è rimesso esclusivamente alla volontà del “mandatario”, non avendo i mandanti mezzi giuridici per pretendere l’adempimento.
Il rappresentante, in altre parole, ben potrà optare per le dimissioni ove ritenga di non avere adempiuto alle direttive impartitegli, ma è sua scelta spontanea. Peraltro, le dimissioni non sono neppure un suo diritto potestativo, sicché l’assemblea di appartenenza può anche pronunciarsi per la loro irricevibilità.
Per dirla diversamente, l’extragiuridicità del legame tra elettori, tra eletto e partito e la responsabilità squisitamente politica sono fattori incontrovertibili dell’istituto[26] in assenza di meccanismi sanzionatori come la revoca del mandato rappresentativo e nell’impossibilità di adire l’autorità giudiziaria per l’accertamento dell’inadempimento degli impegni assunti con l’elettorato e/o con il partito[27].
Ai Costituenti neppure sfuggì che il baricentro della riflessione sulla rappresentanza politica si era ormai spostato dal rapporto elettori-eletti a quello partiti-eletti[28].Tuttavia, benché alcuni auspicassero il mandato di partito per dare soluzione a quegli episodi di mal costume politico che avevano dato tanto scandalo nel periodo statutario (il c.d. “trasformismo”)[29], alla fine si ritenne poco realistico pretendere di razionalizzare sino a tal segno i rapporti tra parlamentari e partiti. I Costituenti, dunque, lasciarono alla politica il compito di gestire i rapporti tra partito ed eletto, formalizzando il solo limite estremo del mandato rappresentativo nell’irrilevanza giuridica dei patti elettorali.
Ma per ogni scelta, come noto, c’è sempre un prezzo da pagare, e l’opzione per il divieto di mandato imperativo pare testimoniare l’accettazione del rischio della instabilità di governo a fronte del contenimento del controllo partitico sulla vita parlamentare, e nondimeno di un maggior spazio per il pluralismo sociale da rappresentare[30].
Ad ogni modo pare verosimile che i Costituenti abbiano ritenuto che si fosse realizzata quella “eterogenesi dei fini” dell’istituto che Kelsen aveva teorizzato. Come è stato osservato, in effetti, nell’art. 67 sembra potersi leggere una “doppia valenza” digaranzia: “da un lato, a favore del singolo rappresentante,il quale può far valere la sua autonomia dal rappresentato, ed ora anche dagli altri soggetti(i partiti) partecipi del circuito della rappresentanza; d’altro lato, a favore dell’organorappresentativo, non limitato nella sua «sovranità» da soggetti esterni in grado di impedirne decisioni o funzioni”[31]. Ne segue che in caso di divergenza insanabile con la linea del partito e del gruppo parlamentare con conseguente abbandono della formazione politica che ha espresso la candidatura, non vi sia l’automatica destituzione dall’incarico. D’altra parte, però, l’art. 67, sebbene neghi rilevanza giuridica alle direttive di partito, non sanziona neppure l’illiceità degli strumenti di cui si serve il partito medesimo per imporre la propria linea politica, primo tra tutti la designazione delle candidature.

4.    La convalescenza
Il principio rappresentativo non chiede al rappresentante di agire nel nome e per conto di un popolo incapace[32], bensì gli affida la missione di rendere presente questo “popolo”, permettendo, altresì, lo svolgimento ordinato e tempestivo dell’attività legislativa. Il compito del rappresentante, invero, sarebbe quello di “promuovere l’interesse di un rappresentato capace di scegliere”[33]: dunque è proprio nella possibilità di scegliere che si esprime il potere del rappresentato.

Le esigenze di “responsività” dell’eletto all’elettore, ossia la corrispondenza degli interessi dei secondi all’azione politica dei primi, non si accontentano di un potere di controllo limitato alle cadenze elettorali. Parlare di responsività nei confronti degli elettori, infatti, significa legittimare il governo rappresentativo sulla base della promessa che i governati non subiscano passivamente l’operato dei governanti attraverso la creazione di meccanismi che permettano la comunicazione costante della domanda politica. La funzione rappresentativa, quindi, vive “della” e “nella” tensione dialettica dell’essere rappresentante della Nazione, ma eletto in un singolo collegio[34].
“Malgrado” si tratti del rappresentante della Nazione, la consultazione elettorale “punisce”, con la mancata rielezione, i rappresentanti che non hanno riprodotto gli interessi degli elettori, e “premia” chi invece li ha ascoltati. Non sempre però ciò accade; molteplici, infatti, possono essere i fattori di distorsione, dai sistemi elettorali alle asimmetrie informative[35]. Come ciò possa avvenire è di facile constatazione: basti pensare alle soluzioni elettorali che non consentono all’elettore di esprimere un giudizio politico sull’eligendo, ad esempio costringendo la scelta all’interno di una lista bloccata e/o, addirittura, rendendo impossibile, prima del conteggio dei voti, la previsione dell’ordine delle candidature, come accade nella legge n. 270 del 2005 appena colpita dalla declaratoria di incostituzionalità proprio per questo profilo[36].
Per altro verso, a prescindere dalle formule elettorali, se è il partito a decidere le candidature e, più in generale, a permettere ai cittadini di concorrere alla determinazione della politica nazionale (art. 49 Cost.), non è del tutto peregrino affermare che nelle democrazie pluraliste il soggetto chiamato a rispondere e corrispondere agli elettori sia diventato proprio il partito.
Per dirla diversamente, poiché il voto è deciso sostanzialmente dall’appartenenza partitica, è il consenso o il dissenso nei confronti dell’ideologia di fondo di un partito, oppure il suo comportamento nella legislatura conclusasi, che in via principale determinano positivamente o meno gli elettori[37].
Ebbene, proprio alla luce di quanto appena detto, si ricava che se non viene garantita la democrazia interna ai partiti comandata dall’art. 49 Cost., allora il divieto di mandato imperativo si offre agli impieghi più vari[38]. Soprattutto quando la motivazione dell’appartenenza partitica sbiadisce di connotazione ideologica esso sarà maggiormente permeabile alle ragioni delle lobbies economiche, sociali, culturali[39].
Malgrado ciò è comunque necessario difendere l’art. 67 così come è. Il partito non può essere il rappresentante della Nazione: esso, infatti, registra i bisogni di quella parte della società che esprime per poi consegnarli al suo gruppo parlamentare e ai suoi eletti per la sintesi con gli interessi degli altri (partigiani anch’essi). L’interesse del partito è infatti sempre partigiano, mentre quello dell’Aula è l’interesse della Nazione.
Come rilanciare quindi la rappresentanza? Molti guardano alla riforma elettorale, ma forse non è una soluzione che da sola è sufficiente. Il rilancio del principio rappresentativo, infatti, deve muovere anzitutto dal rilancio dei partiti, per evitare che essi siano sostituiti da altri soggetti dalle discutibili priorità democratiche, portatori di interessi settoriali (come possono essere i gruppi di pressione o i partiti-azienda[40], o i movimenti populistici).
Una soluzione, forse, si potrebbe trovare in quel “metodo democratico” (interno) indicato dall’art. 49 Cost[41]. Orbene, se per preservare l’autonomia dell’associazione partitica si è preferito non intervenire con una legge sui partiti, forse, davanti a fenomeni sempre più dilaganti di corruzione[42], sarebbe auspicabile un intervento del legislatore ordinario, che, rispettoso dell’autonomia statutaria e organizzatoria riconosciuta ai partiti, comunque intervenisse almeno per garantire una soglia minima indispensabile di democrazia interna agli stessi e almeno l’obbligo di rendicontazione pubblica dei flussi di denaro (pubblico e privato) percepiti [43]. Tali obiettivi, peraltro, non paiono perseguibili con la semplice abolizione del finanziamento pubblico, scelta questa molto mediatica, ma poco rispettosa dei diritti di partecipazione politica dei ceti meno privilegiati[44].
Garantire la democraticità interna dei partiti significa, tra le altre cose, assicurare al parlamentare la possibilità che la minoranza (nel partito) possa in ogni momento divenire maggioranza[45], sicché essa ben può costituire l’incentivo ad un discostamento non opportunistico dalla disciplina di partito, o di gruppo (parlamentare). Solo la democraticità decisionale, infatti, permette di non avvertire la disciplina di partito o di gruppo come una tirannia dei vertici, bensì come un male necessario per la governabilità del partito e, in generale, del Paese.
Una regolamentazione “a tutto tondo” dell’associazione partitica, invece, permetterebbe di incidere significativamente sul grado di responsività dei partiti nonché sulla genuinità del pluralismo eventualmente espresso dall’eletto, e comunque, almeno nell’immediato, potrebbe riaccendere la fiammella della fiducia nella politica[46].
La realtà, per il momento, ci rappresenta il contrario.

Note

1.  In Inghilterra, ad esempio, già in epoca anglo-sassone (800-1066), l’Assemblea degli Ottimati (Witanemagemote) affiancava il re nella funzione di governo; successivamente i Normanni, i primi veri artefici dell’accentramento del potere regio, sostituirono l’antica Assemblea con il Concilium Civium, composto dai nobili laici ed ecclesiastici più potenti, che poi si trasformò, con i Plantageneti, nel Magnum Concilium al quale partecipavano pure i feudatari minori; C. MORTATI, Lezioni sulle forme di stato e di governo, Padova, 1972, 95 s; A. MARONGIU, Parlamento (storia) in Enc. dir.; XXXI, 1981, 725 ss.

2.  Le assemblee medioevali, pur essendo la sede per le decisioni sui tributi, a differenza delle assemblee moderne, avevano essenzialmente funzioni consultive e in ogni caso non rappresentavano il fulcro della vita dello Stato. Questo ruolo infatti era proprio della “Corona”, unica titolare del potere legislativo; T. PERASSI, Parlamenti medioevali e Parlamenti moderni, contenuto e limiti della distinzione, in Scritti giuridici, I, Milano, 1958, 70.

3.  T. PERASSI, op. cit., 57.

4.  Con la fine del particolarismo medioevale e la formazione degli Stati nazionali, in realtà, furono le monarchie a spingere per un mutamento nel vincolo rappresentativo di modo che i delegati si sentissero vincolati al re prima che alle comunità d’origine; V. MICELI, Il concetto giuridico moderno della rappresentanza politica, Perugia, 1892, 80 s.

5.  Anche in epoca successiva al consolidamento delle monarchie europee poteva comunque accadere che i delegati fossero costretti a tornare ad referendum al proprio baillage, se, in sede di parlamento, fossero state sollevate questioni estranee ai poteri conferiti con il mandato; R. SCARCIGLIA, Divieto di mandato imperativo. Contributo ad uno Studio di diritto comparato, Padova, 2005, 51.

6.  Con la decisione dell’8 gennaio 1790, l’Assemblea Costituente, affermando solennemente che “Les mandates impératifs étants contraires à la nature du Corps lègislatif qui est essentialment délibérant, à la libertè des suffrages dont chacun de ses membres doit jouir pour l’intérêt général”, operò una scelta netta, opposta all’esperienza d’ancien régime, nel segno di un mandato rappresentativo libero da ogni influenza da parte dei rappresentati. Tale scelta venne ribadita con l’art. 7, titolo III, della costituzione francese del 3 settembre 1791: “Les représentants nommés dans les départements ne seront pas représentants d’un département particuleier, mais de la nation entière, et il ne pourra leur être donnè aucun mandat”.

7.  La moderna rappresentanza politica si caratterizza, altresì, per la professionalizzazione del corpo dei rappresentanti, circostanza pienamente rispondente all’interesse della classe borghese alla divisione del lavoro: solo alcuni debbono occuparsi della Res publica cosicché gli altri possano dedicarsi ai commerci. Il complicarsi, dunque, del ruolo decisionale dei rappresentanti rese necessaria la nascita di una classe politica specializzata a ben guardare, solo in una “convivenza primitiva” è possibile la rinunzia alla differenziazione dei ruoli, in ragione dei compiti decisionali relativamente semplici e generici; M. LUCIANI, Art. 75, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 2006, 69.

8.  Il mandato imperativo d’ancien régime era lo specchio di una società profondamente immobilista dove i rapporti e i bisogni erano immutati nel tempo e potevano essere facilmente individuabili a priori: quando dunque quegli equilibri millenari vennero meno, fu necessario abbandonare il mandato di diritto privato per un mandato di diritto pubblico che non incontrasse gli stessi problemi a fronte dell’indeterminatezza delle istruzioni;N. ZANON, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art. 67, Milano, 1991, 53 s.

9.  Cfr. L. PRINCIPATO, Il divieto di mandato imperativo da prerogativa regia a garanzia della sovranità assembleare, in Rivista AIC, 2012, 4, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

10.  R. CARRÉ DE MALBERG, Contribution à la théorie générale de l’Etat (1922), II, rist., Paris, 1962, 239.

11.  Il principio di unità è l’unico in grado di rovesciare quello che viene suggestivamente chiamato da Bureaux de Puzy “il colosso gotico dell’antica costituzione”; P. ROSANVALLON, Le peuple introuvable. Histoire de la représentation démocratique en France, Paris, 1998, 34.

12.  Sul giudizio sulla posizione montagnarda sul mandato rappresentativo si vd. G. Azzariti, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari: esiste ancora il divieto di mandato imperativo?, in www.costituzionalismi.it.,il quale rileva che “solo dopo aver colto l’essenza del cambiamento di prospettiva – si possono considerare i modi di definizione del progetto giacobino, ovvero esaminare le questioni specifiche, che in questo insieme politico e teorico servono a definire l’immagine, ma non a crearla”.

13.  M. MAZZIOTTI DI CELSO, Parlamento (funzioni), in Enc. dir., XXXI, 1981, 772.

14.  Celebre opera sul tema del rapporto tra eletti ed elettori è Il discorso agli elettori di Bristol del 3 novembre 1774 di EDMUND BURKE (in Discorso agli elettori di Bristol, in Works, I, London, 1834, 180 ss.), dove viene sostenuto che seppure il rappresentante debba tenere in gran conto i desideri degli elettori, fino al punto di preferire il loro bene al proprio, allo stesso modo egli non deve sacrificare la propria imparzialità e la propria coscienza agli umori del corpo elettorale o dei sottogruppi che lo costituiscono.

15.  Difatti “il Parlamento è il luogo dove si parla, si discute, e con le ragioni si cerca di convincere i contrari, di isolare ed evocare fra le angolosità di cento opinioni diverse, quella che meglio corrisponde allo stato d’animo del tempo e del luogo”; così F. Raccioppi – I. Brunelli, Commento allo Statuto del Regno, II, Torino, 1909, 491.

16.  La dottrina ha segnalato una diversità tra la posizione dei teorici francesi e quella degli inglesi in merito alla funzione del mandato libero: mentre per i primi l’istituto in specie costituisce lo strumento per garantire “la razionalità della discussione”; per i secondi, il mandato libero è il presupposto per una discussione che tenga conto di tutti gli interessi rilevanti; P. RIDOLA, La rappresentanza parlamentare fra unità politica e pluralismo, in Studi in onore di Manlio Mazziotti di Celso, II, Padova, 1995, 453 s., spec. nota 31.

17.  D. NOCILLA-L. CIAURRO, Rappresentanza politica, in Enc. dir., XXXVIII, 1981, 560 ss.

18.  La dottrina ha individuato quattro differenti tappe nel cammino del pieno riconoscimento costituzionale dei partiti politici (la fase della Bekämpfung, caratterizzata dalla ostilità dello Stato nei confronti delle organizzazioni partitiche, quella dell’Ignorierung,ove le istituzioni erano sostanzialmente indifferenti al fenomeno, quella dell’Anerkennung und Legalisierung,  che segna il momento del riconoscimento giuridico dei partiti, e infine la fase dell’Inkorporation,ossia quella del loro vero e proprio inserimento nella struttura costituzionale); H. TRIEPEL, Die Staatsverfassung und die politischen Parteien, Berlin, 1930, 12 s., ripreso da P. RIDOLA, Partiti politici, in Enc. dir., XXXII, 67 s. Ciò però non sta a significare che prima della nascita dei partiti di massa non vi fossero “partiti”, ma essi però altro non erano che il riflesso delle semplici divisioni endoparlamentari, identificabili con i moderni gruppi parlamentari, mancava invero un associazionismo partitico non istituzionale.

19.  P. RIDOLA, Divieto di mandato imperativo e pluralismo politico, in Studi in onore di Vezio Crisafulli, II, Padova, 1995, 684.

20.  Come peraltro confermato dalla sentenza n. 225 del 2001 della Corte costituzionale.

21.  G. LEIBHOLZ, La rappresentazione nella democrazia a cura di Simona Forti, Milano, 1989, 213 ss.; 322 ss..

22.  Cfr. E. FRAENKEL, La componente rappresentativa e plebiscitaria nello Stato costituzionale democratico, a cura di L. Ciaurro e C. Forte, Torino, rist. 2009.

23.  G. LEIBHOLZ, “Intervista a Leibholz”, a cura di F. Lanchester, in Quaderni Costituzionali, 1981, III, 480.

24.  K. SCHMITT, Il custode della Costituzione (1931), Milano, 1981, 137.

25.  I problemi suscitati dalla riflessione kelseniana sono ancora di stretta attualità (seppur suscitati in tempi molto diversi dai nostri); egli, infatti, sin dagli anni ’30, aveva intuito quelli che sarebbero stati gli equilibri costituzionali alla base delle democrazie moderne; vd. in particolare H. KELSEN, La democrazia a cura di M. Barberis, Bologna, 1995, 73 ss.

26.  Quando un ordinamento si determina positivamente per il divieto di mandato, non ne riconosce in alcun caso gli effetti, né mai obbligherà il deputato a riconoscerli, né, infine, concederà agli elettori degli strumenti processuali per reagire contro un’eventuale violazione degli impegni presi: N. ZANON, Il libero mandato…, cit., 295; cfr. L. PRINCIPATO, Il divieto di mandato imperativo…, cit. Se il regime è quello dell’inefficacia del mandato elettorale o di partito, a rovescio, l’osservanza di questo mandato non potrà determinare la decadenza dal mandato parlamentare; di avviso contrario G. SARTORI, Una violazione macroscopica, in Corriere della sera del 6.11.2013, accessibile sul sito: http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_06/grilliscmo-costituzione-violazione-432b1068-46ac-11e3-a177-8913f7fc280b.shtml. D’altronde, la stessa legge elettorale parrebbe presupporre la vincolatività di quel programma elettorale che “i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare” sono obbligati a depositare contestualmente al contrassegno, ai sensi dell’art. 14-bis della legge n. 270 del 2005: tuttavia anche questo vincolo è destinato all’inefficacia. Sul punto, se si vuole, F. GRANDI, Programma elettorale versus indirizzo ideologico, in Pol. dir., 2009, 4, 691 ss.

27.  N. ZANON, Il libero mandato…, cit., 295.

28.  G. FERRARA, Art. 55, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 10 ss.

29.  ASSEMBLEA COSTITUENTE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, 1970-71, IV, II Sottocommissione, 1043.

30.  P. RIDOLA, Divieto di mandato imperativo e pluralismo politico, cit., 688.

31.  G. AZZARITI, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari…, cit.

32.  H. FENICHEL-PITKIN, I due volti della rappresentanza, in D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, Milano, 1983, 213.

33.  H. FENICHEL-PITKIN, I due volti della rappresentanza, cit., 194.

34.  Solo così la volonté générale non è volontà de tous: E. W. BÖCKENFÖRDE, Democrazia e rappresentanza, in Quad. cost., II, 1985, 227 ss.

35.  G.U. RESCIGNO, La responsabilità politica, Milano, 1967, 63; 124.

36.  Si vd. il comunicato stampa della Corte costituzionale del 4 dicembre 2013 “Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005” su: http://www.cortecostituzionale.it. La sentenza, peraltro, non travolgerebbe solo la previsione delle “liste elettorali «bloccate», nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza” liste bloccate ma prima ancora il premio di maggioranza.

37.  S. PALMA, L’identificazione di un partito in Italia. Due indici a confronto, in Riv. It. Sc. Pol., 1993, III, 349 ss.

38.  Si pensi al transfug(h)ismo: la mobilità parlamentare non necessariamente è espressione di genuino pluralismo, essa infatti può degenerare in forme di mal costume politico, come l’individualismo senza legittimazione elettorale, o il trasformismo parlamentare che privilegi l’interesse personale a quello generale. D’altra parte non è possibile avere sicurezza del fatto che dietro ad ogni ripensamento rispetto alle scelte elettorali vi sia, per così dire, mala fede. In realtà: “La natura strumentale delle modalità di svolgimento del mandato comporta che non può essere predeterminata l’utilizzazione della libertà del rappresentante” (così G. Azzariti, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari…, cit.)

39.  M. LUCIANI, Danaro, politica e diritto, in www.costituzionalismo.it.

40.  A. COLAVITTI, in N. ZANON – F. BIONDI, Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, Milano, 2001,122.

41.  Cfr. P. MARSOCCI, Le “primarie”: i partiti italiani alle prese con il metodo democratico, in RIVISTA AIC, 2011, 2, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

42.  Per approfondimenti sulla risposta dei partiti ai “cattivi costumi” degli iscritti si vd. P. MARSOCCI, L’etica politica nella disciplina interna dei partiti, in RIVISTA AIC, 2012, 2, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

43.  Per approfondimenti si vd. E. PIZZIMENTI – P. IGNAZI, Finanziamento pubblico e mutamenti organizzativi nei partiti italiani, in Riv. It. Sc. Pol., 2011, 2, 199 ss.

44.  In tal senso: M. LUCIANI, La Costituzione e i soldi ai partiti, in L’Unità dell’11.07.2013.

45.  H. KELSen, La democrazia, cit., 151.

46.  Il problema della responsività sembrerebbe riproporre l’antico dilemma del rendimento democratico nelle vesti della duplice questione della legittimazione delle istituzioni e dell’effettiva utilità della classe politica. Infatti, ove sia discutibile il legame con l’effettivo titolare del potere sovrano e chi è chiamato ad esercitare tale potere non lo faccia in maniera professionale, ossia in vista dell’interesse generale, il sentimento di riconoscimento dei governati nei governanti si affievolisce. In altre parole, la finzione rappresentativa viene percepita sempre meno come un espediente tecnico, sempre più come un governo lobbysticamente orientato.