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Il divieto di mandato imperativo: tra cogenza, obsolescenza e convalescenza

di - 9 Gennaio 2014
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Più in generale, la nuova rappresentanza vive un rapporto ambivalente con la tradizionale liberale. Se, per un verso, rompe con il vecchio “nesso funzionale fra rappresentanza e sfera pubblica borghese[19]”,per l’altro, conserva il metodo del sistema del government by discussion[20], anche se le aspettative compromissorie sono più ridotte.
Ma a tutto ciò si arriva per gradi. La dottrina del primo dopoguerra, invero, si divise sensibilmente sulla sorte del divieto di mandato imperativo nello Stato di partiti.
Se da una parte vi era chi, come Leibholz,[21] negava la compatibilità della democrazia fondata sui partiti con il sistema di mandato rappresentativo classico, argomentando che le elezioni erano, nella sostanza, un plebiscito a favore dei partiti, e quindi lo Stato di partiti era una forma razionalizzata di democrazia plebiscitaria[22], o meglio, una nuova forma di democrazia diretta[23]; oppure chi come Schmitt, più pungentemente, osservava che confidare che i partiti perseguissero l’interesse generale attraverso i metodi parlamentari “è credenza antica, veramente più liberale che democratica”[24]; dall’altra, taluni, come Kelsen, non si arrendevano davanti a quella che poteva apparire come la “capitolazione del libero mandato parlamentare”, senza con ciò arroccarsi sui principi classici del governo rappresentativo, ma ripensando l’istituto alla luce della novità dei “Partiti in Parlamento”. Kelsen, infatti, credeva che i problemi di convivenza tra “vecchio” e “nuovo” dovessero essere risolti adattando “l’ordinamento giuridico e gli istituti parlamentari al potere di fatto assunto dai partiti politici”, avendo sempre come obiettivo la massimizzazione della democraticità del sistema. In altre parole, egli non solo considerava le istituzioni del parlamentarismo classico compatibili con la presenza dei partiti, ma reputava addirittura necessaria l’interazione dei due elementi: se per un verso, la nascita dei partiti permetteva a tutte le componenti della società civile di partecipare alla vita politica; dall’altro, l’adozione degli schemi rappresentativi classici consentiva di imbrigliare i partiti entro certi limiti, sì da impedire eventuali dittature del partito – dentro e fuori di esso[25].
A ben guardare, dunque, nello Stato di partiti il contenuto giuridico del divieto di mandato imperativo si traduce nell’inefficacia dell’eventuale patto stipulato tra eletto e partito al pari di quanto accade tra eletto ed elettori. Di conseguenza, l’accordo con il deputato, in ordine ad un certo contegno parlamentare, vi può pure essere, ma il suo rispetto è rimesso esclusivamente alla volontà del “mandatario”, non avendo i mandanti mezzi giuridici per pretendere l’adempimento.
Il rappresentante, in altre parole, ben potrà optare per le dimissioni ove ritenga di non avere adempiuto alle direttive impartitegli, ma è sua scelta spontanea. Peraltro, le dimissioni non sono neppure un suo diritto potestativo, sicché l’assemblea di appartenenza può anche pronunciarsi per la loro irricevibilità.
Per dirla diversamente, l’extragiuridicità del legame tra elettori, tra eletto e partito e la responsabilità squisitamente politica sono fattori incontrovertibili dell’istituto[26] in assenza di meccanismi sanzionatori come la revoca del mandato rappresentativo e nell’impossibilità di adire l’autorità giudiziaria per l’accertamento dell’inadempimento degli impegni assunti con l’elettorato e/o con il partito[27].
Ai Costituenti neppure sfuggì che il baricentro della riflessione sulla rappresentanza politica si era ormai spostato dal rapporto elettori-eletti a quello partiti-eletti[28].Tuttavia, benché alcuni auspicassero il mandato di partito per dare soluzione a quegli episodi di mal costume politico che avevano dato tanto scandalo nel periodo statutario (il c.d. “trasformismo”)[29], alla fine si ritenne poco realistico pretendere di razionalizzare sino a tal segno i rapporti tra parlamentari e partiti. I Costituenti, dunque, lasciarono alla politica il compito di gestire i rapporti tra partito ed eletto, formalizzando il solo limite estremo del mandato rappresentativo nell’irrilevanza giuridica dei patti elettorali.
Ma per ogni scelta, come noto, c’è sempre un prezzo da pagare, e l’opzione per il divieto di mandato imperativo pare testimoniare l’accettazione del rischio della instabilità di governo a fronte del contenimento del controllo partitico sulla vita parlamentare, e nondimeno di un maggior spazio per il pluralismo sociale da rappresentare[30].
Ad ogni modo pare verosimile che i Costituenti abbiano ritenuto che si fosse realizzata quella “eterogenesi dei fini” dell’istituto che Kelsen aveva teorizzato. Come è stato osservato, in effetti, nell’art. 67 sembra potersi leggere una “doppia valenza” digaranzia: “da un lato, a favore del singolo rappresentante,il quale può far valere la sua autonomia dal rappresentato, ed ora anche dagli altri soggetti(i partiti) partecipi del circuito della rappresentanza; d’altro lato, a favore dell’organorappresentativo, non limitato nella sua «sovranità» da soggetti esterni in grado di impedirne decisioni o funzioni”[31]. Ne segue che in caso di divergenza insanabile con la linea del partito e del gruppo parlamentare con conseguente abbandono della formazione politica che ha espresso la candidatura, non vi sia l’automatica destituzione dall’incarico. D’altra parte, però, l’art. 67, sebbene neghi rilevanza giuridica alle direttive di partito, non sanziona neppure l’illiceità degli strumenti di cui si serve il partito medesimo per imporre la propria linea politica, primo tra tutti la designazione delle candidature.

4.    La convalescenza
Il principio rappresentativo non chiede al rappresentante di agire nel nome e per conto di un popolo incapace[32], bensì gli affida la missione di rendere presente questo “popolo”, permettendo, altresì, lo svolgimento ordinato e tempestivo dell’attività legislativa. Il compito del rappresentante, invero, sarebbe quello di “promuovere l’interesse di un rappresentato capace di scegliere”[33]: dunque è proprio nella possibilità di scegliere che si esprime il potere del rappresentato.

Note

19.  P. RIDOLA, Divieto di mandato imperativo e pluralismo politico, in Studi in onore di Vezio Crisafulli, II, Padova, 1995, 684.

20.  Come peraltro confermato dalla sentenza n. 225 del 2001 della Corte costituzionale.

21.  G. LEIBHOLZ, La rappresentazione nella democrazia a cura di Simona Forti, Milano, 1989, 213 ss.; 322 ss..

22.  Cfr. E. FRAENKEL, La componente rappresentativa e plebiscitaria nello Stato costituzionale democratico, a cura di L. Ciaurro e C. Forte, Torino, rist. 2009.

23.  G. LEIBHOLZ, “Intervista a Leibholz”, a cura di F. Lanchester, in Quaderni Costituzionali, 1981, III, 480.

24.  K. SCHMITT, Il custode della Costituzione (1931), Milano, 1981, 137.

25.  I problemi suscitati dalla riflessione kelseniana sono ancora di stretta attualità (seppur suscitati in tempi molto diversi dai nostri); egli, infatti, sin dagli anni ’30, aveva intuito quelli che sarebbero stati gli equilibri costituzionali alla base delle democrazie moderne; vd. in particolare H. KELSEN, La democrazia a cura di M. Barberis, Bologna, 1995, 73 ss.

26.  Quando un ordinamento si determina positivamente per il divieto di mandato, non ne riconosce in alcun caso gli effetti, né mai obbligherà il deputato a riconoscerli, né, infine, concederà agli elettori degli strumenti processuali per reagire contro un’eventuale violazione degli impegni presi: N. ZANON, Il libero mandato…, cit., 295; cfr. L. PRINCIPATO, Il divieto di mandato imperativo…, cit. Se il regime è quello dell’inefficacia del mandato elettorale o di partito, a rovescio, l’osservanza di questo mandato non potrà determinare la decadenza dal mandato parlamentare; di avviso contrario G. SARTORI, Una violazione macroscopica, in Corriere della sera del 6.11.2013, accessibile sul sito: http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_06/grilliscmo-costituzione-violazione-432b1068-46ac-11e3-a177-8913f7fc280b.shtml. D’altronde, la stessa legge elettorale parrebbe presupporre la vincolatività di quel programma elettorale che “i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare” sono obbligati a depositare contestualmente al contrassegno, ai sensi dell’art. 14-bis della legge n. 270 del 2005: tuttavia anche questo vincolo è destinato all’inefficacia. Sul punto, se si vuole, F. GRANDI, Programma elettorale versus indirizzo ideologico, in Pol. dir., 2009, 4, 691 ss.

27.  N. ZANON, Il libero mandato…, cit., 295.

28.  G. FERRARA, Art. 55, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 10 ss.

29.  ASSEMBLEA COSTITUENTE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, 1970-71, IV, II Sottocommissione, 1043.

30.  P. RIDOLA, Divieto di mandato imperativo e pluralismo politico, cit., 688.

31.  G. AZZARITI, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari…, cit.

32.  H. FENICHEL-PITKIN, I due volti della rappresentanza, in D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, Milano, 1983, 213.

33.  H. FENICHEL-PITKIN, I due volti della rappresentanza, cit., 194.

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