Fuga dalla giustizia amministrativa

Qualche settimana fa, una vera folla di avvocati e magistrati è convenuta nella sala del TAR di Roma destinata ai convegni per ascoltare, e magari discutere, una serie di relazioni su un tema proposto dal Presidente del TAR, Calogero Piscitello: Fuga dal giudice amministrativo? Il tema era inquietante: perché fuga? Perché fuga proprio dal giudice amministrativo, da sempre ritenuto il migliore apparato giurisdizionale italiano? La sala stipata di gente che non perdeva una parola pronunciata dalle persone chiamate a parlare – da Romano Vaccarella ad Alfonso Quaranta, da Mario Sanino a Pasquale de Lise, a Guido Alpa, a Vincenzo Carbone ed altri ancora – dimostrava per tabulas l’attualità di questo singolare tema: è in atto una fuga da un certo tipo di giudice, non da un sistema giudiziario? In altre parole, è nell’aria l’abbandono dei TAR e del Consiglio di Stato?

Il lungo incontro ha avuto un esito paradossale. Salvi alcuni accenni più problematici, la tesi è stata che la fuga non esiste e che, dove se ne coglie qualche traccia, ciò dipende dall’eccessiva onerosità del contributo: che, specie per alcune materie, è innegabilmente molto pesante. Come però ha osservato il pres. Piscitello, il numero dei ricorsi è leggermente cresciuto; questo smentirebbe l’esistenza di una fuga. Il convegno sulla fuga dal giudice amministrativo ha insomma sostanzialmente concluso che questa fuga non c’è.

Chi scrive avrebbe voluto parlare, ma il tempo è mancato. Ritengo però opportuno dire che a mio avviso forse non c’è una fuga, misurabile in termini quantitativi, ma certamente c’è una propensione alla fuga, forte e potenzialmente pericolosa nei suoi esiti. Essa non dipende da qualche euro di troppo che occorre spendere per accedere alle aule dei TAR e del Consiglio di Stato. Dipende da una progressiva, strisciante sfiducia che non investe specificamente il giudice amministrativo, ma il sistema giudiziario che garantisce la tutela giurisdizionale nei rapporti con le pubbliche amministrazioni: in parole più semplici, in sistema giudiziario, al quale è affidata la “giustizia amministrativa”

Questa sfiducia sembra discendere da due ordini di incertezze. Il primo riguarda il giudice competente; l’altro, per paradossale che possa sembrare, l’esito del giudizio. Parrebbe ovvio, infatti, che non si possa sapere ex ante come si concluderà una causa. L’incertezza prospettica sul giudizio ha una misura diversa: tra tante migliaia di sentenze che bisogna scrivere, si pensa, può darsi che, per qualche inafferrabile ragione, il giudice dia ragione al mio avversario, anziché a me.

È opportuno cominciare dall’incertezza sul giudice competente. L’espressione “giustizia amministrativa” non equivale a “processo amministrativo”. Secondo la nostra lunga tradizione, pur avendo il suo asse portante in questo processo, essa comprende anche il giudice ordinario, che spesso ha giurisdizione in materia amministrativa. Sì, noi ci diciamo convinti (chi scrive magari non tanto) che il giudice amministrativo conosca degli interessi legittimi ed il giudice ordinario dei diritti soggettivi. Tutti siamo stati felici quando si è ammessa la risarcibilità degli interessi legittimi e la si è affidata al giudice amministrativo. Sembrava che il mondo avesse trovato un suo ordine, sostanzialmente quello tracciato dalla l. n. 205 del 2000, anche dopo l’intervento della Corte Costituzionale del 2004. Così non è. Il nostro mondo non è fatto più di amministrazioni e privati, nettamente contrapposti, ciascuno con il suo giudice. Oggi è pieno di società per azioni controllate da enti pubblici, addirittura a partecipazione pubblica totalitaria, e di soggetti totalmente privati, investititi di poteri pubblici (i concessionari di infrastrutture, come autostrade ed aeroporti) o di poteri che non si sa bene se siano o non siano poteri (basti pensare al pubblico impiego parzialmente privatizzato, affidato al giudice ordinario). Il fatto certo è che il cittadino soffre quando sente il suo avvocato dire che non si può giurare sulla competenza del giudice. Ed è un gravissimo dato di fatto che a volte si vedono anni di giudizio azzerati, perché ad un certo punto si scopre che la giurisdizione spettava all’ “altro” giudice, a quello non adito. Questo sta accadendo troppo spesso. Serpeggia l’idea che la questione di giurisdizione spesso sia un problema fine a se stesso e addirittura un efficace strumento per evitare o vanificare il giudizio.

Queste cose turbano i cittadini, per non parlare delle imprese. Dietro questo turbamento matura lentamente ma inesorabilmente la fuga dalla giustizia. C’è poco da dire: alla gente non interessa il nome del giudice, non interessa sapere se il suo interesse leso si chiama diritto soggettivo o interesse legittimo. Ha bisogno di giustizia, possibilmente rapida ed efficace. L’incertezza sulla giurisdizione apre una fuga verso l’abisso.

Si è detto che la seconda componente di incertezza che grava sul giudizio amministrativo riguarda la prevedibilità di chi alla fine avrà ragione. Questo è un tema difficilissimo in cui tutti e nessuno hanno colpa. Sono in gioco molti fattori di incertezza. Il primo è costituito dalle leggi. Troppo spesso è difficile e quindi incerto semplicemente ricostruirne il testo vigente, che nasce da sovrapposizioni, abrogazioni, correzioni. Esse sembrano fatte apposta per venire disapplicate o ignorate o lette in più modi diversi. Certo non si può tornare all’idea della legge generale ed astratta, perché troppo articolati e complessi sono gli interessi ed i procedimenti che ne accompagnano la vita. Ma tra il precetto generale ed astratto e le norme di legge che tolgono o aggiungono una parola ad un’altra legge, di cui non riportano il testo, c’è un ampio spazio in cui può manifestarsi la moderazione normativa. Tanto per fare un esempio, l’art. 38 del codice dei contratti, fonte di infinite querelles, potrebbe ragionevolmente essere riscritto in modo diverso.

Ma come è vero questo, così è innegabile che ricorrano spesso fenomeni di rottura apparente e non apparente con la giurisprudenza. La rottura apparente si ha quando un collegio ritiene di dover dare un’interpretazione della legge, diversa da quella datane da altri collegi, a volte della stessa sezione. Non vi è dubbio che il giudice abbia il dovere di giudicare secondo scienza e coscienza e che quindi il dissenso sull’interpretazione da dare sia legittimo. Ma non si può dimenticare che sono coinvolti interessi che si affidano alla giustizia, alla giustizia concreta, nota, insomma ad una certezza ideale che matura caso per caso. I contrasti di giurisprudenza dovrebbero essere prevenuti. In questo senso è significativo che sia sempre più frequente la remissione di qualche questione all’Adunanza Plenaria – anche se queste remissioni hanno quasi sempre alla loro base un conflitto di giurisprudenza di cui hanno beneficiato o subito un pregiudizio soggetti che cercavano solo giustizia.

A questo deve aggiungersi il fenomeno strisciante, non apparente, costituito dalle letture lato sensu interessate della legge. Il significato ampio dell’interesse che guida certe interpretazioni deriva per lo più dalla convinzione che una legge debba essere interpretata in un modo e non in un altro. Se questo è il convincimento, separando il dictum dal fatto e sfruttando la limpidezza del dettato, si traggono dallo stesso testo interpretazioni prima facie coerenti tra loro, in realtà contraddittorie. Nessuno nega che vengano scritte migliaia di sentenze; nella grande maggioranza dei casi ben pensate, decise e scritte. Ma è inevitabile che, come il fatto con i suoi dettagli può influire sulla decisione e soprattutto sulla c.d. massima, così un precedente, specie se in forma di massima, può scavalcare significativi elementi di fatto. Nascono di qui situazioni in cui vi sono o sembra che vi siano contraddizioni; da esse discendono la frustrazione delle parti e la tendenza a fuggire dalla giustizia.

Tutto ciò allontana dalla giustizia; in questo senso si deve parlare di una fuga da essa. La gente tende a non averne quella piena fiducia sulla quale un sistema sano si deve fondare. Esiste un rimedio? In astratto probabilmente no. In concreto certamente sì. È l’umiltà di avvocati e giudici che deve spingere entrambi a chiarire sempre a fondo, con ogni chiarezza, come si devono leggere le vicende di cui si discute.