Prime osservazioni intorno alla cd. ‘sentenza Grandi Rischi’

Sommario: I. Premessa: una riflessione in itinere. II. La sentenza e il focus del penalista. III. La ‘colpa’ degli scienziati. IV. Il nesso eziologico. V. Il rischio e il principio di precauzione.

I. Premessa: una silenziosa riflessione in itinere.
Un primo dato da cui partire è senza dubbio l’assenza, nel panorama penalistico, di commenti estesi quanto esaustivi sulla sentenza del Tribunale di L’Aquila del 22 ottobre 2012, con la quale i sette componenti della Commissione nazionale per la previsione e la prevenzione del grandi rischi, sono stati dichiarati responsabili di lesioni colpose e omicidio colposo nei confronti di 43 vittime (29 decessi e 4 infortuni) in relazione alla scossa delle ore 3:32 del 6 aprile 2009.
Cautela e prudenza appaiono atteggiamenti doverosi nei confronti di un provvedimento, quello aquilano, incidente su alcuni degli istituti nevralgici del diritto penale moderno, come la causalità, il reato colposo e, in particolare, l’idoneità della categoria dommatica del pericolo ad offrire soluzioni giuridiche adeguate alla nuova dimensione concettuale del ‘rischio’.
Obiettivo di queste prime osservazioni è, pertanto, porre sul tavolo le note calde della sentenza al fine di contribuire alla riflessione e al dibattito sul significato e sulle implicazioni della condanna degli scienziati.

II. La sentenza e il focus del penalista.
Accogliendo l’ipotesi accusatoria della Procura, il Tribunale di L’Aquila ha condannato i componenti la cd. ‘Commissione Grandi Rischi’ per i reati di omicidio colposo e di lesioni colpose plurime. Come si evince dal capo di imputazione e come è dato leggere nella corposa parte motivazionale della sentenza, gli esperti ‘(…) effettuando una valutazione dei rischi, connessi all’attività sismica in corso sul territorio di riferimento, approssimativa, generica ed inefficace in violazione di doveri di previsione e prevenzione, e fornendo informazioni incomplete, imprecise e contraddittorie sulla natura, sulle cause, sulla pericolosità e sui futuri sviluppi di attività sismica (…)‘, ‘(…) hanno indotto parte della popolazione civile a dismettere le cautele fino a quel momento adottate e capaci di sottrarre le vittime agli effetti distruttivi di una scossa di terremoto successivamente intervenuta‘.
Il Tribunale ha affermato che ‘(…) la vulnerabilità degli edifici crollati e l’intensità della scossa verificatasi non escludono il nesso di causalità fra le condotte degli imputati e la morte o le lesioni delle vittime, se l’una e l’altra non costituiscono fattori eccezionali o atipici né imprevedibili (…)’.
La condotta degli imputati, pertanto, ‘(…) si espone a un rimprovero colposo, poiché il corretto adempimento dei compiti loro assegnati avrebbe ridotto il rischio delle vittime di subire gli effetti distruttivi del terremoto e perché, quali autorevoli scienziati nel campo delle dinamiche sismiche, gli stessi avrebbero potuto fornire informazioni atte ad orientare diversamente la popolazione sul rischio incombente‘.
Nelle 943 pagine di ‘motivazioni’ depositate il 18 gennaio scorso, i punti più interessanti si registrano nei paragrafi 4 e 5 dedicati ai ‘profili di colpa della condotta contestata’ e al ‘nesso di causalità‘. Nell’individuazione degli elementi del reato, sintomaticamente invertiti rispetto all’ordine con cui, di solito e in ossequio ad un metodo teleologicamente orientato, si sviluppa il processo mentale del giudice in sede di accertamento del fatto di reato, l’esame dei profili della colpa precede il discorso sul nesso eziologico e l’affermazione della responsabilità penale degli scienziati segna un punto a favore dell’arretramento della soglia di tutela penale dal ‘pericolo’ al ‘rischio’ con la condanna per la mancata previsione e prenzione del ‘rischio sismico’.
Indubbio interesse, tuttavia, riveste l’intero impianto motivazionale della sentenza, laddove appare contrassegnato dalla necessità del giudice di centrare l’obiettivo della giustiziabilità di una vicenda tanto dolorosa, percorsa da un tratto di evidente odiosità: la presenza sulla ‘scena del crimine’ della scienza e del suo fallimento nella missione ormai comunemente assegnata di ‘salvare’ l’uomo.
La lettura complessiva dei ‘motivi’, difficile per copiosità del materiale inserito e complessità della materia trattata, consegna un sillogismo perfetto, tuttavia incapace di allontanare lo spettro di un ‘processo alla scienza’ e di una insostenibile condanna della scienza stessa.

III. La ‘colpa’ degli scienziati.
Il Tribunale pur riconoscendo l’impossibilità di prevedere i terremoti, e pur ribadendo, con forma e accenti di una excusatio non petita, di non voler accertare una responsabilità penale per la mancata previsione della scossa causa dei decessi e delle lesioni personali, pare inciampare nella viziosità circolare del pensiero.
Il giudice rimprovera, infatti, ai componenti la commissione, luminari nel settore nel quale erano chiamati a rendere il parere da esperti, di ‘non essere stati in grado di comprendere e utilizzare, in modo adeguato, tutti i dati a disposizione per la valutazione e per la previsione del rischio; e di non essere stati capaci di orientarne l’interpretazione nella direzione della prevenzione e della corretta informazione‘.
Per il Tribunale, secondo una ricostruzione della condotta colposa con criteri strettamente normativi, da un lato gli imputati hanno effettuato una valutazione del rischio sismico in violazione delle regole di analisi, previsione e prevenzione disciplinate dalla legge, divulgando poi un messaggio rassicurante direttamente agli aquilani elidendo il filtro politico e amministrativo della protezione civile e degli amministratori locali (componente commissiva della colpa). E, dall’altro, evidenziando la componente omissiva della colpa, il giudice rimprovera la mancata previsione e prevenzione del rischio sismico riferendo i criteri di prevedibilità ed evitabilità non all’evento terremoto, bensì alla lesione della vita e dell’integrità fisica e ai danni che ci si può attendere in conseguenza della verificazione dell’evento terremoto (rischio sismico).
In buona sostanza, dunque, il giudice pur riconoscendo che i terremoti non sono prevedibili, ritiene prevedibile il rischio sismico, inteso quale ‘probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione‘ (D.Lgs. 81/08).

Gli scienziati hanno effettuato una valutazione dei dati e dei fattori di indagine a loro disposizione approssimativa, incompleta e superficiale, comunicando il risultato di tale negligente e imperita valutazione attraverso un messaggio rassicurante alla popolazione. Quindi, se gli imputati avessero ‘lavorato bene’, avrebbero previsto il rischio sismico, anche perchè la scossa violenta non è stata un evento eccezionale o atipico, e non avrebbero fornito rassicurazioni, ma avrebbero allertato.
È difficile non cogliere nel ragionamento del Tribunale una evidente tautologia: la sintassi di condanna consegna il rimprovero per non aver previsto il rischio sismico, il quale si traduce in realtà nella mancata previsione delle ‘conseguenze’ di una scossa, scossa che si è verificata e, soprattutto, che non era un evento atipico, anomalo o eccezionale.
Il giudice, concentrando lo sforzo ermeneutico sui dati emersi nel dibattimento, attraverso una scrupolosa e dettagliata ricostruzione del fatto storico e dei dati scientifici offerti dalle parti e acquisiti durante l’istruttoria, ritiene la scossa del 6 aprile 2009 ore 3:32 un evento sismico non eccezionale, non anomalo e non atipico e qualifica lo sciame sismico patito dal territorio aquilano a partire dal giugno 2008 come un fenomeno di ‘anomalia sismica’, indicato dalla comunità scientifica come un ‘possibile indice precursore’ di una futura e più forte scossa.
È qui che il pensiero ripiega su se stesso: il concetto di rischio sismico ingloba, nel ragionamento del giudice e suo malgrado, la scossa distruttiva. E la previsione del rischio sismico diviene previsione (rectius, prevedibilità) anche della scossa, evento possibile e non improbabile perchè non atipico e non eccezionale.

IV. Il nesso eziologico.
All’affermazione di responsabilità dei sette imputati si legano, sul piano causale, alcune perplessità relative alla metamorfosi ermeneutica dell’omissione in azione e all’eccesso di fiducia nel ‘determinismo psicologico’ avallato dal Tribunale.
Non può disconoscersi che la morte e le lesioni verificatesi a L’Aquila il 6 aprile 2009 siano opera della natura: sono state causate, infatti, dalla scossa di terremoto delle ore 3:32. Causa dell’evento, dunque, è stato e resta un fattore schiettamente naturale.
Il Tribunale, tuttavia, ascrive agli scienziati la responsabilità del fatto. L’individuazione del nesso causale tra la condotta degli imputati, ritenuti in posizione di garanzia, e l’evento scivola da una impostazione della causalità in termini omissivi su un percorso ricostruttivo di tipo commissivo. In quanto ‘garanti’, ci si sarebbe aspettati il logico riconoscimento di una responsabilità in capo agli esperti ‘per l’omissione’ di ciò che, in presenza del fattore naturale quale causa fisicamente determinante gli eventi lesivi, avrebbe potuto impedire gli eventi prodotti dalla natura. Il giudice, invece, centra l’eziologia del fatto sul messaggio rassicurante diffuso dagli imputati, comunicazione che ha indotto le vittime a dismettere le ordinarie e consuete cautele adottate in occasione di eventi sismici e pertanto si è posta come ‘causa’ del decesso e delle lesioni conseguenti il movimento tellurico.
La sentenza ‘Franzese’ del 2002 è il terreno sul quale si muove la legittimazione della ricostruzione causale opzionata in termini commissivi.
Il Tribunale non elude, da un lato, la necessità della integrazione, nella verifica giudiziale, della ricerca e dell’applicazione della legge scientifica di tipo statistico corredata di un giudizio di probabilità logica utile ad affermare, escludendo sequenze causali alternative, l’applicazione nel caso concreto della legge statistica opzionata. Dall’altro, la necessità di riferirsi a regole generalizzate di esperienza tratte dal senso comune ove leggi scientifiche applicabili al caso concreto non siano disponibili, in combinazione, però, in questi casi, con una verifica endo-processuale più rigorosa.
Le difficoltà emergono sul piano della ricerca della legge scientifica di copertura, laddove, trattandosi di decisioni personali, appare incontestabile considerarle l’esito di una pluralità di motivazioni non riducibili ad uno schema logico unitario di analisi. Il problema per il tribunale è, infatti, l’individuazione, nell’ambito della ‘causalità psicologica’ di una legge di copertura dotata di valore scientifico capace di gettare quel ponte ad efficacia eziologica tra la condotta degli imputati e la decisione delle vittime di rimanere in casa.
Il giudice, stabilito grado e tipo di influenza causale del messaggio sul processo decisionale delle vittime sulla base degli esiti delle deposizioni testimoniali, stabilisce nella ‘teoria delle rappresentazioni sociali’ la propria legge di copertura del discorso eziologico.
Per il Tribunale nell’istruttoria dibattimentale trova conferma il ‘ruolo’ avuto dagli esiti della riunione, da un lato, operando a favore della rimozione della paura del terremoto, dall’altro determinando la totale adesione alle indicazioni e alle valutazioni provenienti dalla commissione.
Il giudice, infine, chiude il cerchio della verifica causale ritenendo, sempre sulla scorta della sentenza Franzese, che è possibile al giudice accertare il nesso causale anche in presenza di leggi statistiche con coefficenti medio-bassi o in assenza di leggi scientifiche, in quest’ultimo caso ricorrendo a massime di esperienza corredate da una accurata indagine sull’assenza di fattori condizionanti alternativi.
La prova acquisita attraverso le deposizioni testimoniali stabilisce, ad avviso del giudice, la relazione certa tra gli esiti della riunione e il comportamento delle vittime e l’assenza di altre cause esclusive. Il Tribunale afferma, inoltre, che qualora avessero adempiuto correttamente ai suddetti obblighi, si sarebbero comunque verificati i danni alla vita di molte persone, ma certamente o con alta probabilità logica non i danni alla vita e all’integrità fisica delle persone di cui al capo di imputazione (il danno hic et nunc).
In buona sostanza, il giudice considera le vittime quali individui in una condizione di scelta non libera (vittime inconsapevoli), perchè condizionata in modo determinante dalla errata comunicazione. Orbene, riconoscere alla comunicazione della Commissione la forza di un ‘determinante’, significa annullare il ruolo della volontà, cui unica compete il potere di accettare ovvero rifiutare l’invito ad una scelta. Le affermazioni del Tribunale trasudano fiducia nel ‘determinismo psicologico’, per il quale i fatti psichici sono governati dal ‘principio di causa’ e per questi vi sarebbe lo stesso rapporto causale e meccanico ritenuto esistente tra i fatti fisici.

Certamente lascia perplessi l’adesione ad un rigoroso determinismo meccanicistico applicato al profilo psicologico laddove, da un lato, si registra l’attuale perdita di valore, ad opera delle recenti ricerche sulla teoria dei quanti, proprio della versione assolutistica del determinismo meccanicistico, diretto ascendente di quello psichico e sinora presupposto inelimininabile della scienza della natura. E, dall’altro, diventano sempre più evidenti le resistenze della psicoanalisi e delle neuroscienze a riconoscere valore assoluto di ‘formante’ della volontà a singoli ed esclusivi fattori di influenza, avvalorando, invece, analisi multifattoriali.

V. Il rischio e il principio di precauzione.
Il problema del legittimo arretramento della soglia di tutela penale dal ‘pericolo’ al ‘rischio’ e, conseguentemente, il possibile ingresso del principio di precauzione nel diritto penale appaiono i temi più ‘difficili’ e ‘discutibili’ consegnati dalla lettura della sentenza.
Come noto, l’offesa, nel diritto penale classico, trova il punto più alto di tensione nel reato di pericolo. L’obiezione circa la perdita di materialità del risultato lesivo connaturata al concetto di nocumento potenziale in cui si sostanzia il pericolo stesso, viene superata con l’ancoraggio della fattispecie ad un giudizio di relazione probabile tra un fatto e un evento dannoso. Il giudizio di pericolo, pertanto, presupponendo un sapere scientifico avvalorato, consente ‘giudizi di probabilità’ agganciati a conoscenze scientifiche certe.
Il problema nasce in condizioni di ‘incertezza scientifica’. In tale contesto accanto al concetto tradizionale di ‘pericolo’ si fa spazio la dimensione del ‘rischio’, ossia “un pericolo che dipende da una decisione dell’uomo, e che quindi può essergli imputato, laddove il pericolo in genere tende ad attrarre nella spiegazione fattori ed eventi naturali sopravvenuti e non governabili se non operando sulle decisioni ‘a monte’, relative alla creazione o gestione delle fonti di pericolo, e alle posizioni di garanzia e controllo che le concernono” (Donini M., Il volto attuale dell’illecito penale, Giuffrè editore, 2004). Il diritto penale del rischio “genera un’esplosione di funzioni preventive in campo economico-sociale, di tutela della sicurezza collettiva, che vuole rispondere ad un bisogno di assicurazione del nostro futuro, ma appunto con i mezzi del diritto penale, sembrerebbe pienamente coerente con l’idea di un sistema punitivo ‘orientato allo scopo’, con un uso ‘politico’ del diritto penale quale strumento per il raggiungimento di obiettivi di controllo e di delimitazione di rischi socialmente gravi nelle loro potenzialità cumulative” (Donini M., Il volto attuale dell’illecito penale, Giuffrè editore, 2004).
Nella discussione sulla possibile allocazione della soglia della tutela penale al ‘rischio’ si avvertono chiaramente le suggestioni del principio di precauzione, invocato nelle ipotesi di ‘rischio potenziale’ e legato alla necessità di fronteggiare la paura dell’incerto e governare, attraverso lo strumento preventivo, le angosce collettive di fronte al ‘nuovo’ e all’ignoto. Il territorio coperto dal principio di precauzione presuppone, tuttavia, in ambito europeo, una valutazione scientifica del rischio che, per l’insufficienza dei dati, il loro carattere non concludente o la loro imprecisione, non consente di determinare con sufficiente certezza il rischio in questione.
Orbene, razionalizzare la paura del ‘rischio’ corredando le politiche preventive dell’intervento penale, quale tutela dei beni, o delle funzioni, scolora in una imbarazzante quanto anacronistica caccia alle streghe se la criminalizzazione del comportamento non è ancorata ad un principio di ‘ragionevolezza’. Tradotto in termini ‘penalistici’, la legittimità dell’intervento repressivo in situazioni di incertezza scientifica presuppone comunque e sempre la conoscenza della pericolosità o della efficenza eziologica della condotta da reprimere. Dunque, come il pericolo astratto, anche il concetto di rischio, per fondare una qualsisasi idea di tutela penale, non può essere epurato della necessaria ‘prevedibilità’ di un danno. In buona sostanza, il ‘rischio’ deve risolversi in una sinonimia della ‘possibilità (o non impossibilità) dell’evento’.
A concedere spazio ad una ricostruzione in chiave meramente precauzionale, e preventiva pura, del precetto penale, oltre a vedere radicalmente rovesciata la base epistemologica del modello punitivo del pericolo (per l’impossibilità di fornire, a differenza del pericolo stesso, prova contraria alla affermazione di pericolosità del comportamento, non disponendo delle conoscenze scientifiche certe), la ricognizione causale degrada a mero accertamento dell’aumento del rischio.
Se, dunque, nel concetto di rischio non è estrapolabile, a meno di un netto tradimento dei principi penalistici, la prevedibilità del danno, ciò significa che l’affermazione di responsabilità degli scienziati per non aver previsto il rischio sismico diviene affermazione di responsabilità per non aver previsto il terremoto. E la sentenza appare precipitarci nell’incubo di una responsabilità oggettiva laddove la colpa viene ‘depsicologicizzata’ – perché epurata anche del requisito della prevedibilità – e normativizzata.
La funzione ‘propulsiva’, già tipica del diritto penale contravvenzionale, oggi assegnata al diritto penale del rischio, pone la necessità di fattispecie-avamposto, utili a non ‘attendere’ la consumazione di un disastro, e sollecita un intervento penale anche in chiaroscuro e flessibile sulle zone lasciate scoperte da una applicazione rigorosa del paradigma classico di criminalizzazione. Il provvedimento aquilano, dunque, segna il passo in questo percorso e richiama ad una razionalizzazione della paura del rischio che non disconosca il limite estremo, anch’esso comunque discusso e discutibile, di legittimazione dell’intervento penale consegnato dalle fattispecie di pericolo astratto, pena distorsioni del sistema capaci di consacrare disequilibri e derive laceranti.