Un’economia languente. Si può rianimarla?
La società italiana fronteggia con enormi difficoltà, non uno, ma due gravissimi problemi economici: alta disoccupazione e bassa produttività. Rimane, allo stato dei fatti, stretta dal vincolo del bilancio e del debito della P.A.
La massa dei cittadini è impoverita da una pesante fiscalità, che sempre meno alimenta beni pubblici, beni comuni, beni meritevoli offerti dallo Stato. I consumatori … risparmiano. Sono tuttora traumatizzati dall’opera del senatore economista Monti e del suo governo di “tecnici”. A differenza della recessione del 2008-2009 che fu da investimenti ed esportazioni nette, questa recessione provocata dai “tecnici” è una recessione da consumi. Senza una spinta esogena alla domanda, che solo il bilancio pubblico può dare, i consumi endogenamente non si riprendono. Le famiglie vedono taglieggiato il reddito, erosa la ricchezza, a rischio il lavoro, senza prospettiva la prole. La ripresa non proviene da investimenti ed esportazioni nette. L’ottimismo previsivo degli ultimi giorni è politicamente strumentale alla difesa di un governo visto come l’unico possibile. L’ottimismo si fonda su sondaggi d’incerta base e su ipotesi troppo favorevoli sull’economia mondiale: discesa del prezzo del petrolio, tassi d’interesse minimi, politiche monetarie “non convenzionali” per tutto il 2014. Nei fatti, in Italia, se la recessione finisce, la ripresa non c’è. L’economia striscia lungo il pavimento su cui è precipitata: in meno, rispetto al 2007, 150 miliardi all’anno di Pil, 8 per cento di consumi in termini reali, centinaia di migliaia di posti di lavoro. L’abisso non ha eguali fra i principali paesi.
Dal pulviscolo dei 4,5 milioni di cosiddette imprese non vengono autonome soluzioni: investimenti, innovazione, progresso tecnico, qualità. Solo 3.468 aziende occupano più di 250 addetti. Sono quasi sempre le stesse, di censimento in censimento. Non c’è dinamismo dimensionale. Gli stranieri non investono da noi. Non abbiamo quasi più grandi gruppi industriali che producono in Italia. Anche le aziende manifatturiere meno piccole attendono. Sperano che qualche deus ex-machina le riconduca al profitto. Se continueranno, neghittose, a rinviare non si potrà escludere una nuova IRI, in qualche forma riveduta rispetto all’IRI del passato, che di recente abbiamo non a caso ristudiato. Si pensi al caso Ilva in mani private. Potrà lo Stato sottrarsi?
Cosa può fare, e cosa non deve fare, la politica economica?
Deve fare almeno tre cose, da anni disattese:
1) Aumentare gli investimenti pubblici e ridurre la pressione fiscale e contributiva. Come? Contenendo la spesa pubblica non-sociale di parte corrente al netto degli interessi: contenendo questa parte della spesa in una misura che vada oltre quella strettamente necessaria a consolidare l’equilibrio del bilancio corretto per il ciclo che è stato raggiunto, anche se a costi altissimi, dal governo dei “tecnici”. Ciò equivale a modificare profondamente la composizione del bilancio della P.A. e a ridurne alquanto la dimensione rispetto al Pil.
2) Riscrivere il diritto dell’economia. Vanno riformulati e coordinati fra loro sei, cruciali blocchi dell’ordinamento giuridico: societario, fallimentare, processuale, amministrativo, antitrust, del risparmio (non il diritto del lavoro, il lavoro non avendo “colpe” in questa crisi).
3) Imporre alle imprese in via definitiva la concorrenza, statica e dinamica, a colpi di innovazioni e non solo di prezzi. È la condizione necessaria senza la quale non si situano sulla frontiera dell’efficienza efficienza, date le tecniche. Soprattutto, non sono costrette a ricercare innovazione e progresso tecnico.
Ai fini dell’uscita dalla recessione – la questione più urgente – gli investimenti pubblici sosterrebbero potentemente la domanda globale. Hanno il moltiplicatore più alto, maggiore di uno. Insieme con una fiscalità minore e progressiva rianimerebbero la domanda più di quanto non la deprimerebbero zero budgeting e tagli a specifiche spese correnti: non per pensioni e sanità – la spesa sociale, il vero collante del Paese – bensì per a) acquisto di beni e servizi a prezzi esosi, b) personale, quando ridondante, c) trasferimenti, allorché non essenziali. Le tre voci di uscita per consumi intermedi, personale, trasferimenti vari pesano per il 23 per cento del Pil, oltre 300 miliardi. Diverse loro sottovoci hanno un moltiplicatore di domanda molto modesto e abbattono la produttività di lungo termine del sistema.
Ai fini della crescita di lungo periodo – la questione più spinosa – le opere pubbliche infrastrutturali e la detassazione favorirebbero la produttività e la competitività, che sono il motore dello sviluppo dell’economia.
Solo percorrendo entrambe le vie – più domanda globale nel breve termine, più crescita nel lungo periodo – l’occupazione può aumentare. Naturalmente, ammesso che le imprese rispondano: se non rispondono, qualunque politica economica è impotente.
Per questa ragione produttività, crescita e occupazione trarrebbero grande giovamento dallo stimolo rivolto alle imprese da una rinnovata pressione concorrenziale. Trarrebbero un giovamento non minore dalla riscrittura organica del diritto dell’economia, che è manifestamente inadeguato. Gli economisti hanno dato di ciò ampia prova empirica. Ne sono convinti più degli stessi giuristi. I giuristi sembrano meno interessati allo ius condendum, alla politica del diritto per l’economia.
I governi Berlusconi-Tremonti non hanno attuato, nemmeno impostato, questa strategia, e nessun altra. Delle ombre e delle luci del governo dei “tecnici” ho detto. L’attuale governo non pensa a riscrivere il diritto dell’economia, né a come imporre concorrenza alle imprese. Non ha presentato fin dal suo insediamento un serio, credibile piano di radicale ricomposizione del bilancio pubblico. Non taglia né blocca le tre voci di spesa corrente che ho evocato; non progetta opere infrastrutturali; lima tasse con altre tasse. Ragiona in termini di decimi di Pil – un miliardo, due miliardi – mentre nella ricomposizione del bilancio pubblico occorrerebbe agire per punti di Pil (5 o 6 punti percentuali, secondo un serio programma pluriennale). Rischia di passare alla storia come il governo “dei decimali”, in un’economia che produce il 9 per cento meno del 2007, è afflitta da una produttività del lavoro e totale dei fattori in calo strutturale, perde competitività e quote di mercato. Per i paesi a cambio irrevocabilmente fisso dell’Unione europea la competitività di trend si misura dal costo del lavoro manifatturiero per unità di prodotto. Dal 2000 il clup è salito quasi del 40 per cento nell’industria italiana, solo del 10 per cento in quella tedesca, dove la produttività avanza con discreti ritmi.
In negativo, la politica economica dovrebbe astenersi dal commettere almeno due errori, entrambi riguardanti i rapporti di lavoro, le relazioni industriali, il sindacato.
Non ha senso ricercare maggiore occupazione a parità di domanda globale. L’occupazione segue la domanda globale e la produzione: dal 2007 alla caduta del Pil del 9 per cento si è associata una proporzionale caduta, dell’8 per cento, degli occupati in termini di unità di lavoro standard. Si può decidere di sussidiare le imprese affinché assumano (con fiscalizzazione degli oneri, aiuti e sgravi vari, ulteriore flessibilità del lavoro). Ma non è scontato che l’occupazione aumenti. Se aumenta mentre restano invariate la domanda effettiva e la produzione, ne risultano più bassi rapporti capitale/lavoro, ancor minore produttività, sviluppo zero. L’abbattimento del cuneo fiscale per accrescere il contenuto di occupazione di una ripresa va fatto, ma a ripresa sicuramente avviata, non per cercare di innescare una ripresa che non c’è. A questo fine è preferibile aumentare gli investimenti pubblici e detassare il consumo e le sue fonti, qualora si disponga delle risorse di bilancio.
Il secondo errore da evitare è la contrattazione aziendale. Per la stessa qualità e quantità di lavoro deve vigere lo stesso salario, la stessa condizione contrattuale, per tutte le imprese che quel lavoro utilizzano. Oltre ai profili di equità tra i lavoratori, ne risentirebbe, altrimenti e di nuovo, la produttività. L’impresa improduttiva non deve restare sul mercato, addirittura facendo profitti, mentre distrugge le risorse del Paese. Ciò avverrebbe, se il salario aziendale scendesse ai bassi livelli della produttività dell’azienda inefficiente, ben al disotto dei valori nazionali.