Troppa variabilità nelle performance ospedaliere: ritorniamo sui banchi di scuola?

Quando nel 2010 l’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblicò il World Health Report 2000, il silente orgoglio italiano emerse dal consueto imbarazzo e si esibì in una rumorosa sfilata di dichiarazioni, citazioni e appropriazioni più o meno debite da parte di increduli e gratificati politici, amministratori e professionisti, e in un rincuorato riflesso popolare, confortato da un giudizio internazionale super partes su una rete intricata, a volte disordinata, di assistenza e tutela, troppo aleatoria per essere facilmente valutata da un comune cittadino nella capacità effettiva di rispondere alle esigenze di cura della popolazione: la WHO consegnava al nostro sistema sanitario la medaglia di argento.

Il ranking di quasi duecento paesi che ci vedeva secondi classificati, immediatamente dopo l’incomparabile Francia, si basava sul valore assunto da un indice sintetico che aggregava in un’unica misura indicatori relativi allo stato di salute (espresso da un indice di sopravvivenza alla nascita, aggiustato per disabilità[1]), alla sua distribuzione (più o meno uniforme) nella popolazione, al livello di gradimento dei servizi offerti, alla dipendenza o meno della soddisfazione dell’utenza dalla classe di reddito di appartenenza (e da altre variabili demografiche), alla dimensione della solidarietà, intesa come partecipazione al finanziamento proporzionata alla capacità di spesa, il tutto rapportato al volume di risorse economiche destinate alla salute: un indice di efficienza, quindi, con cui si proponeva una possibile misura del rapporto tra obiettivi di salute e di equità da una parte e di risorse impiegate dall’altra.

Per coloro che possono vantare onestà intellettuale, il senso di appagamento si è presto dissolto, come spesso accade, in una più attenta lettura della definizione degli indicatori utilizzati nel Report e aggregati nell’indice complesso; molti si sono invece affezionati a quella legittimazione dall’alto, scansando accuratamente la corretta interpretazione tanto dell’indicatore overall quanto degli indici semplici ed evitando di notare o menzionare il registrato slittamento dell’Italia dalla seconda all’undicesima posizione, a seconda che si tenesse o meno in considerazione la componente di spesa (a significare che il dato di performance era trascinato dal relativamente basso livello di spesa sanitaria nazionale) e la collocazione del nostro paese tra il 45esimo e il 47esimo posto nella graduatoria relativa al livello di progressività del finanziamento dei servizi sanitari, dovuto a una tutt’altro che trascurabile quota di out of pocket.

Il reale messaggio che sottostava l’apparentemente lusinghiero dato aggregato era che la spesa sanitaria italiana non poteva certo dirsi eccessiva se confrontata con quella prevista in altri paesi industrializzati a benessere diffuso, ma che, nella sua componente privata di “pay as you go” denotava la presenza, all’interno di uno schema di tutela a impronta fortemente universalistica, di significativi elementi di sperequazione nell’accesso alle prestazioni. Un messaggio tutt’altro che gratificante, quindi, tanto più se si parte dal presupposto che la giustificazione dell’intervento pubblico nel finanziamento delle prestazioni sanitarie si basa essenzialmente su principi etico-solidaristici.

In termini di anni di sopravvivenza in assenza di disabilità, possiamo dirci soddisfatti. Non si rileva una forte eterogeneità di questa misura a livello di individui e popolazioni. Viviamo a lungo a fronte di un impiego controllato di risorse economiche. Tuttavia, il nostro sistema sanitario non è equo e a livello di percezione degli assistiti non riscuote neppure un buon livello di gradimento. Questo ci diceva, tredici anni fa, il rapporto WHO, uno studio che, tra l’altro, si estendeva su un numero elevatissimo di paesi, in molti dei quali (circa un quarto) si registra un’aspettativa di vita alla nascita inferiore (a volte anche di molto) a cinquantacinque anni. Nel confronto con i paesi sviluppati (ad esempio quelli dell’occidente industrializzato) il divario nella quota di PIL destinata alla spesa sanitaria è considerevole: assumendo che, al di sotto di una certa soglia di spesa, in paesi non sviluppati e in cui il benessere presenta problemi di diffusione, differenze contenute di spesa in sanità coesistono con effetti anche significativi in termini di salute, l’attenzione della WHO ai fattori strettamente sanitari risulta essere più che motivata. Sappiamo che l’implementazione di un buon sistema sanitario ha contribuito e contribuisce indubbiamente a determinare lo stato di salute di una popolazione, ma se è condizione necessaria per la conservazione o per il recupero del benessere psicofisico, non può dirsi sufficiente a spiegare le differenze in DALE (disability-adjusted life expectancy) tra le varie nazioni. I fattori strettamente sanitari sono soltanto un determinante, e non necessariamente il più importante, dello stato di salute di una popolazione: altre variabili, quali, ad esempio, le condizioni di igiene e l’alimentazione, condizionano ampiamente il tasso di longevità. Analogamente, il DALE non può considerarsi una misura della performance del sistema sanitario, quanto meno in un contesto di sviluppo e di ridotta sperequazione economico-sociale. Ecco quindi che la WHO riconosce i benefici della dieta mediterranea, ci  avverte che non spendiamo troppo in sanità (cosa diversa dall’affermare che spendiamo poco) e che, nonostante il sistema di tassazione generale per il finanziamento delle prestazioni, accade troppo spesso che paghi chi sta male, nel momento in cui si manifesta il bisogno di cura. Stiamo forse semplificando un po’ troppo ma siamo più vicini alla realtà di quanto non fossero gli osservatori di allora.

Che voto dare, quindi, al nostro Servizio Sanitario Nazionale?

Proviamo per un momento a tornare sui banchi di scuola.

Qual è la ragion d’essere dell’intervento pubblico in sanità? Dal punto di vista del finanziamento del sistema sanitario, l’intervento pubblico si giustifica soltanto per ragioni di carattere etico – solidaristiche: è necessario un meccanismo di assicurazione obbligatoria che impedisca i fenomeni di discriminazione propri dell’out of pocket (dove chi ha necessità paga a prescindere dalle condizioni economiche e dove chi ha necessità è chi sta male) e di selezione avversa che si verificherebbero inevitabilmente in un sistema di assicurazione volontaria (chi si assicura sono i soggetti ad alto rischio e vi è pertanto la tendenza degli assicuratori a offrire coperture assicurative incomplete – basate sulla probabilità che l’evento malattia si verifichi – e a discriminare gli individui sulla base delle condizioni di salute – applicando premi più alti ai soggetti ad alto rischio o rifiutando di assicurarli). Dal punto di vista dell’erogazione, l’intervento pubblico si giustifica, invece, per motivi economici (fallimenti del mercato): la presenza di esternalità, di situazioni monopolistiche o oligopolistiche e di economie di scala e, soprattutto la condizione di informazione imperfetta vogliono, invece, politiche pubbliche di regolamentazione (un mercato, dunque, ma opportunamente regolato) che, in particolare, contribuiscano a garantire standard qualitativi adeguati (se il cittadino non è in grado di scegliere le soluzioni migliori tra quelle disponibili, è lo Stato, nel suo ruolo di committente, acquirente cioè dei servizi sanitari per conto dei cittadini – questo è o dovrebbe essere il ruolo delle asl e delle Regioni – a dover selezionare le strutture migliori e a remunerarle sulla base di parametri qualitativi), definire la gamma dei servizi disponibili, alla luce delle prove scientifiche di efficacia e appropriatezza (problema dell’efficacia teorica e pratica delle prestazioni LEA e di ciò che invece resta fuori dalla tutela pubblica), organizzare sul territorio nazionale la rete di produzione, tenendo conto delle diverse esigenze economiche e epidemiologiche delle popolazioni, favorire e incentivare l’attività di ricerca, anche attraverso una valida legislazione sui brevetti e i diritti di proprietà, che sappia coniugare l’interesse degli assistiti a poter usufruire di prodotti innovativi e sempre più efficaci e quello dell’industria al profitto, limitare il fenomeno di azzardo morale, applicando disincentivi al consumo superfluo o inappropriato, anche attraverso la previsione di forme di compartecipazione al prezzo e al ruolo di gatekeeping dei mmg.

Il rapporto del 2010 ci dice che il nostro sistema sanitario fallisce laddove la quota di spesa privata comincia a essere considerevole, ma ci dice anche qualcosa sulla qualità delle prestazioni erogate:  le due questioni sono, infatti, in parte legate.

Nei sistemi universalistici, relativamente alla componente privata della spesa sanitaria, è possibile distinguere una quota fisiologica, in quanto legata al livello di generosità della copertura pubblica, e una quota qualificabile, invece, come patologica, in quanto non prevista e non voluta dal sistema. Ogni paradigma pubblicistico, nella strutturazione dell’offerta, opera e rinnova nel tempo una sorta di scrematura delle prestazioni sanitarie sulla base di prove di efficacia medica e di una graduazione obiettiva dei bisogni di cura degli individui. Attraverso un approccio selettivo vengono identificati, di volta in volta, i servizi erogati gratuitamente alla totalità dei cittadini (tra questi, alcune vaccinazioni e determinati trattamenti di salute mentale sono classificati come prestazioni a consumo obbligatorio), quelli esclusi dal S.S.N. e quelli per i quali sono previste forme di compartecipazione al prezzo (estese a tutta la popolazione o declinate in funzione delle condizioni socio-economiche soggettive). Non tutta la spesa sanitaria privata assume, però, carattere residuale o integrativo. Una quota non minoritaria è costituita da esborsi utilizzati per acquistare prestazioni a cui si avrebbe già diritto secondo il regime pubblicistico. Generalmente i motivi di fuga nel privato sono legati alle tempistiche di erogazione (liste d’attesa) e al desiderio di standard qualitativi più alti; non mancano, tuttavia, ragioni di scontento legate a una percezione distorta generalizzata, che rende comunque conveniente (nonostante la gratuità) la sostituzione con servizi a pagamento, sulla base di un calcolo costi-benefici prettamente soggettivo e personale. Mentre, dunque, la componente fisiologica può essere ricondotta a scelte politiche ex ante, la componente patologica rappresenta un’anomalia del sistema ed è il sintomo più chiaro dell’insoddisfazione dell’utenza e della scarsa reattività della macchina sanitaria pubblica. Le stesse forme di copayment, che trovano la loro legittimazione nel perseguimento di una maggiore responsabilizzazione individuale al consumo (disincentivando comportamenti di azzardo morale), spesso denotano, in realtà, la mera incapacità del sistema di sostenere la spesa nella sua interezza. Chiaramente, quanto più la componente patologica diventa considerevole, tanto più si vanno a minare le basi del modello universalistico e la giustificazione stessa della tassazione generale. Se la ratio è nella garanzia di un diritto alla salute, riconosciuto come diritto individuale, e nella parità di accesso ai servizi di provata efficacia, il patto si rompe nel momento in cui chi può replica la spesa e si rivolge a servizi esterni al S.S.N.: non c’è alcuna ragione di carattere economico o sociale a richiedere che le prestazioni sanitarie siano erogate da strutture pubbliche; l’informazione imperfetta che caratterizza il mercato della salute richiede semplicemente una supervisione che, per conto e a favore dei cittadini, elimini le barriere qualitative e programmi e pianifichi l’offerta sanitaria sulla base dei bisogni degli assistiti e di un monitoraggio sistematico delle performance in grado di assicurare livelli adeguati di qualità.

Due, quindi, sono gli obiettivi del nostro S.S.N.: tassazione generale per garantire un accesso equo e regolazione del mercato per garantire standard adeguati sull’intero territorio nazionale. La spesa patologica crea una crepa nel primo obiettivo ma è prima di tutto sintomatica di falle nel secondo. Il rapporto della WHO andava probabilmente letto in questo modo. Quelle falle, a distanza di tredici anni, le vediamo tutte, soprattutto nella misura di quel livello generale di performance che il DALE non era in grado e non intendeva registrare. Grazie all’implementazione del Programma Nazionale Esiti (PNE) è stata, infatti, introdotta in Italia la valutazione sistematica degli esiti dei trattamenti e degli interventi sanitari, ovvero la misurazione dei risultati delle prestazioni sanitarie erogate a livello di singola struttura ospedaliera e a livello di Asl.[2] La fotografia che PNE riporta del nostro Paese non è certamente premiante nei confronti della performance del nostro sistema sanitario, per responsabilità dei singoli ospedali sì, ma anche e in primo luogo di chi per noi è chiamato a svolgere le funzioni di committenza e tutela. Al di là degli scoop di grande appeal che tanto piacciono a stampa e a opinione pubblica e fondamentalmente orientanti a stilare classifiche dei “buoni” e dei “cattivi”, ciò che dovrebbe far riflettere è la fortissima variabilità registrata da PNE nella qualità delle prestazioni, non solo e non tanto a livello inter-regionale, ma soprattutto intra-regionale. In altre parole, se la bassa qualità non dovrebbe essere tollerata, dovrebbe esserlo ancora meno quando si hanno differenze significative tra strutture che sono a poca distanza l’una dall’altra e insistono sulla medesima popolazione. Si tratta di un’eterogeneità che va ben oltre il noto e irrisolto squilibrio nord-sud e che mette in discussione nel profondo le politiche nazionali e regionali, laddove le prime sono chiamate a garantire uniformità e le altre, secondo lo schema del rapporto di agenzia, ad acquistare per noi i servizi “migliori” presso quelle strutture che sono effettivamente in grado di offrirli.

Pochi esempi sono sufficienti a chiarire quanto questa eterogeneità abbia raggiunto livelli di drammaticità.

L’immagine qui di seguito mostra la variabilità nazionale nella proporzione di interventi che avvengono entro le 48 ore dalla frattura del collo del femore in pazienti over 65: in base alle evidenze internazionali pubblicate più recentemente, ritardi nell’esecuzione di questa operazione chirurgica sono associati a un aumento del rischio di mortalità a breve e a lungo termine e di complicanze post-operatorie.

 

Fig 1: Variabilità nazionale nella proporzione di interventi per frattura del femore operati entro 48h _ fonte sito web pne http://151.1.149.72/pne11_new/

F1

Si tratta di un trattamento essenzialmente chirurgico, in relazione al quale la riduzione della degenza pre-operatoria può dipendere ampiamente da un’ottimizzazione di risorse e spazi e rispetto al quale il management (anche middle) dell’ospedale ha un ampio margine di azione.

Al di là della media nazionale del 33%, già di per sé difficile da giustificare, è impressionante come ci siano strutture italiane in grado di operare la quasi totalità dei pazienti entro due giorni dall’evento frattura ed altre che non garantiscono entro le 48 ore neppure una percentuale irrisoria di interventi. Considerazioni analoghe possono essere fatte riguardo l’evento nascita.

Anche in questo caso, infatti, a fronte di una media nazionale comunque altissima (le linee guida internazionali indicano come appropriata una proporzione del 10-15%), le percentuali di ricorso al parto chirurgico sono ingiustificatamente eterogenee (Fig 2). Accanto all’esigenza di improntare più efficaci operazioni di sensibilizzazione della popolazione delle pazienti e dei professionisti sugli effetti avversi del parto chirurgico e sui benefici del parto naturale, è necessario tenere conto delle dinamiche che influenzano (o addirittura determinano) il ricorso al cesareo. Tra le c.d. ragioni “non mediche”, è opportuno considerare il livello di adeguamento del personale (nel numero, nella tipologia professionale e nella capacità di copertura h24) e delle risorse tecnologiche tali da garantire 24h su 24 e 7 giorni su 7 la possibilità della donna di partorire in modo naturale (senza rendere necessario il ricorso inappropriato al parto chirurgico). Le stime di pne sono infatti “aggiustate”, ovvero tengono conto dei fattori di rischio (caratteristiche individuali, comorbidità materne, posizioni anomale del feto) in presenza dei quali l’opzione per il parto chirurgico risulta necessaria: la variabilità risulta, quindi, essere legata esclusivamente a questioni estranee a valutazioni relative alla salute della donna e del feto e probabilmente più affini a ragionamenti di natura economica e, soprattutto, organizzativa (pensiamo, ad esempio, al fatto che i parti chirurgici sono, a differenza di quelli naturali e, per loro stessa natura, programmabili).

Fig 2: Variabilità nazionale nella proporzione di parti cesarei primari_ fonte sito web pne http://151.1.149.72/pne11_new/

 

F2

Il discorso vale anche in riferimento ad altre tipologie di indicatore, le quali vanno a valutare aspetti qualitativi dell’assistenza più legati alle capacità del professionista e meno a elementi gestionali (Fig 3).

Fig 3: Variabilità nazionale nella mortalità a trenta gg dall’intervento di BPCA isolato_ fonte sito web pne http://151.1.149.72/pne11_new/

F3

Che voto dare, quindi, al nostro sistema sanitario? Se è vero quanto abbiamo imparato sui banchi di scuola, o meglio, di grandi scuole economiche, l’equità nell’accesso alle prestazioni è l’obiettivo fondamentale di un servizio sanitario nazionale. La buona tradizione alimentare forse non ci compensa pienamente delle differenze qualitative legate alla disponibilità economica individuale o alla mera casualità di trovarsi in una parte più o meno fortunata del Paese o della Regione o della Città: il voto rischia di essere un po’ bassino.

Note

1.  Il DALE prende in considerazione la disabilità come elemento ridimensionante la qualità della vita: ciò che rileva non è l’aspettativa di vita ma gli anni di sopravvivenza nel pieno delle condizioni di salute.

2.  L’edizione 2012 del progetto (basata su dati SDO 2011) è consultabile mediante accesso al sito web dedicato http://151.1.149.72/pne11_new/