È possibile semplificare?

1. Semplificare il sistema amministrativo italiano è stato un obiettivo perseguito da molti Governi negli ultimi anni, e da ultimo, ripetutamente, dal Governo Monti. Nessun vero risultato è stato ottenuto. La ragione è semplice ed è esplicitamente enunciata nella relazione al d.d.l. Semplificazioni C-5610 con queste parole:

 “Nella consapevolezza di quanto il tema sia delicato, si è operato in modo che le semplificazioni, tutte concordate con il competente Ministero, riguardino esclusivamente adempimenti formali (la cosiddetta “burocrazia del lavoro”) nonché oneri informativi, ma non tocchino gli aspetti sostanziali della sicurezza, la cui effettività viene anzi rafforzata, in quanto la riduzione degli oneri amministrativi connessi agli adempimenti formali consentirà di liberare risorse per assicurare il bene supremo costituito dalla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. In sintesi, “meno carta e più sicurezza”. Inoltre, le misure semplificative agevoleranno le imprese nell’individuazione degli elementi essenziali da indicare nella predisposizione della documentazione ….”

Appare di piana evidenza che la parola “semplificazione” è stata interpretata  in senso molto restrittivo, vale a dire come mera riduzione degli oneri burocratici materiali, grazie all’uso di strumenti di comunicazione tra cittadini e pubbliche amministrazioni diversi, più avanzati della carta: tipicamente, di tecnologie digitali. I rapporti sostanziali tra soggetti pubblici e privati sono rimasti immutati.

2. Il problema è serissimo. Così intesa, la semplificazione non ha futuro. Non lo ha perché, se anche si ottenesse il risultato di azzerare completamente i tempi di comunicazione tra soggetti pubblici e privati, rimarrebbe immutato il sistema dei rapporti sostanziali: resterebbe ferma – come in effetti accade in seguito alle varie leggi di semplificazione – la necessità di un numero sterminato di adempimenti, controlli, verifiche, valutazioni, di interventi umani, insomma, che richiedono tempi indeterminabili ex ante. Se si deve fare, ad es., una conferenza di servizi, è necessario che tutti i rappresentanti delle amministrazioni coinvolte studino la pratica, discutano e cerchino un accordo. Se, poi, vi è un problema di competenze statali e regionali, i tempi possono diventare epocali.

Ma la realtà è un’altra, ancora più difficile. Chi, con mente scevra di pregiudizi, studi una legge qualsiasi nell’ottica di una sua semplificazione, non tarda molto ad accorgersi che, a diritto sostanziale invariato, quasi sempre è stato fatto tutto il possibile. Ma con utilità reale scarsa. Sono paradigmatici gli esempi della SCIA e della liberalizzazione del commercio.

La SCIA è la comunicazione che una certa attività verrà iniziata. Fatta la comunicazione con tutto il corredo di documenti e di dichiarazioni asseverate che la legge sostanziale richiede, si può cominciare il lavoro. La semplificazione è evidente e straordinaria. Sennonché entro 60 giorni l’amministrazione cui la comunicazione è indirizzata deve controllare tutto e intervenire per reprimere e ripristinare la legalità. Come è palese, questo rende la SCIA troppo rischiosa e quindi pressoché inutile: si può ricorrere ad essa solo in situazione assolutamente semplici.

La liberalizzazione del commercio è stata proclamata da una delle prime leggi del Governo Monti. Liberalizzato è stato però solo il commercio in quanto tale. Tutto il regime amministrativo che accompagna l’attività commerciale – regolamenti edilizi, sicurezza, igiene etc. etc. – non sono sfiorati dalla liberalizzazione. Che quindi non ha mai raggiunto la metà del valore sociale ed imprenditoriale che dovrebbe avere.

Tutto ciò è aggravato dalla presenza di normative concorrenti, statali e regionali. Questo concorso di fonti non soltanto dà spesso ingresso al contenzioso, anche di rango costituzionale, ma costringe a defatiganti procedure lato sensu di conciliazione, per trovare una soluzione condivisa.

3. Il problema della semplificazione non è dunque quello delle procedure, al quale certamente molte energie sono state dedicate. Il tema da affrontare sta a monte, ed è quello del diritto sostanziale, vale a dire, dell’assetto di interessi pubblici che, in base alle diverse leggi, possono essere coinvolti in una determinata iniziativa. Le leggi, si noti, al plurale: perché un numero n di leggi o articoli di leggi o di altri atti di normazione secondaria possono riguardare l’ambiente, l’acqua, i rifiuti; un altro numero n di norme e precetti può riguardare la tutela del patrimonio storico, archeologico, artistico, etc. etc. Basta leggere l’art. l del d.l. n 1/2012  per avere un quadro univoco  delle materie e degli interessi pubblici che possono essere coinvolti da un’iniziativa qualsiasi, e che, quindi, devono essere tutelati attraverso una previa autorizzazione amministrativa. Da questa moltitudine di interessi pubblici concorrenti e configgenti, ma comunque condizionanti la possibilità di intraprendere un’attività, discende la complessità che nessuna normativa di ordine procedimentale può contenere.

4. Né si possono dimenticare le norme tecniche ed i problemi che pongono.

L’espressione “norme tecniche” esprime un concetto molto complesso. Anzitutto è usata praticamente solo al plurale, come se una singola “norma tecnica” non potesse esistere. Sembra poi contraddittoria: per loro natura le norme sono giuridiche, nel senso che hanno conseguenze ed effetti immediati sui comportamenti umani: in ciò sta la loro giuridicità. La tecnica, come l’etimologia insegna, esprime una regola del fare secondo un’arte. Le “norme tecniche” sono dunque norme che disciplinano un fare secondo le regole dell’arte con l’efficacia giuridica cui si è accennato.

In effetti, se da questa astrazione si scende al concreto dell’esperienza, emerge chiaramente che la necessità – giuridica – di realizzare qualche cosa nel rispetto delle regole dell’arte ha un’origine precisa. Essa è l’esigenza di certezza e di sicurezza sulla qualità ed affidabilità di un prodotto, che ne accompagnano l’immissione sul mercato. Questa certezza sulla qualità diventa una garanzia nei confronti dei terzi e trasforma la regola dell’arte in norma tecnica. Si tratta di vedere come questa certezza possa essere raggiunta – ovviamente in termini umani.

La questione non è banale. In natura forse non esiste alcunché di cui si possa dire che si conosce tutto delle sue caratteristiche e attitudini. Men che mai si possono avere certezze di tal genere per i manufatti, per le opere realizzate dall’uomo. Con il tempo è dunque divenuto necessario irrigidire i processi produttivi, partendo da una premessa: le “regole dell’arte” devono essere formalizzate in norme di contenuto tecnico, ma di efficacia giuridica, perché il loro rispetto garantisce, giuridicamente appunto, la qualità del prodotto. Tutto ciò porta con sé una serie di conseguenze, operative, si potrebbe dire. La prima è certamente che la formalizzazione di ogni regola dell’arte in norma tecnica deve essere accompagnata da una procedura produttiva e di controllo, il cui rispetto garantisca il raggiungimento del livello di qualità voluto. Sembra ovvio che il sistema di controllo debba essere gestito da un soggetto pubblico e tutt’al più da organismi privati abilitati. Parallelamente, in concreto l’osservanza di tale normativa sia in fase di progettazione, sia in fase di esecuzione dell’intervento, quale che esso sia, deve essere garantita da un terzo indipendente.

Come è evidente, tutto ciò ha un significato univoco. Viene richiesta una quantità incredibile di attività amministrativa, nella quale si incontrano e scontrano competenze, dirette e indirette, norme di vario rango (leggi, regolamenti, circolari) e soprattutto di varia natura: basti pensare alla possibile responsabilità civile legata alla discussa osservanza di norme tecniche, per non parlare della responsabilità penale.

5. In questa situazione, non esiste una soluzione, né unica, né unitaria. Si possono solo porre alcune premesse metodologiche.

La prima è che ogni discorso sulla semplificazione deve partire dal diritto sostanziale. Occorre studiare quali interessi pubblici, che concorrono in una determinata materia, siano realmente meritevoli di tutela. Esemplare è la liberalizzazione dell’iniziativa economica privata disposta dal d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, cui si accennava sopra: essa prevede l’abrogazione delle norme che prescrivono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o altri atti di assenso della pubblica amministrazione dopo l’entrata in vigore di una serie di regolamenti; e dispone che le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all’accesso e all’esercizio di attività economiche sono interpretate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato in relazione al principio per cui l’iniziativa economica privata è libera, “e ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all’ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana  e possibili contrasti con l’utilità sociale, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica”. Appare evidente che solo iniziative economiche di minime dimensioni possono essere liberamente intraprese in base a questa norma; e non è esagerato pensare che in realtà nessuna possa essere realmente indenne da qualche autorizzazione preventiva.

La seconda premessa metodologica è che questo lavoro di ricerca degli interessi realmente meritevoli di tutela deve condurre all’identificazione delle norme portanti ai fini della tutela stessa, al loro eventuale miglioramento. Per la tutela di questo tipo di interessi, e di essi soltanto, si potranno mantenere in vigore procedure mirate al rilascio di autorizzazioni, permessi, n.o. e simili ex ante.

Per gli altri interessi pubblici – ovviamente di rango secondario – ancora oggetto di tutela, il primo problema che si pone è quello di verificarne l’attualità e quindi in sostanza il loro permanere in vita. Esiste un gran numero di disposizioni che hanno il loro riferimento in interessi privi di significato, puramente autoreferenziali, si potrebbe dire. Norme di questo genere, divenute inutili, perché è venuta meno la rilevanza pubblica degli interessi che tutelano, meritano di essere abrogate. In passato è già stato fatto, naturalmente su scala ridotta o ridottissima, ma comunque senza danno alcuno.

Esistono però anche interessi che hanno una rilevanza pubblica, ma non di livello tale da richiedere autorizzazioni ex ante e quindi giustificare l’onere amministrativo che esse comportano. Qui ci vorranno pazienza, coraggio e voglia di lanciarsi in una battaglia di civiltà. La pazienza riguarda la costruzione di un catalogo di queste norme. Il lavoro può essere molto lungo, per la difesa di interessi particolari in cui ci si può imbattere.

Ma ci vuole anche molto coraggio da parte del Governo e del Parlamento. Escluse infatti le procedure di autorizzazione ex ante, la tutela degli interessi pubblici minori ha un percorso obbligato. Esso è il rispetto spontaneo delle norme da parte dei cittadini e delle imprese. Senza illudersi che tutti i cittadini diventino improvvisamente virtuosi, qualche cosa si può apprendere dal traffico, che è probabilmente il momento della vita individuale più impregnato di interesse collettivo: gli spostamenti di ciascuno dipendono dal comportamento degli altri. Norme chiare; autoregolazione; misure repressive e sanzionatorie efficaci e soprattutto giuste; inducono più facilmente di quanto si pensi correttezza di comportamenti, ampiamente ricompensata dalla riduzione degli oneri amministrativi.

Il senso della battaglia di civiltà è chiaro: occorre spingere tutti, dal legislatore alle amministrazioni, e naturalmente i cittadini a rispettare le regole. Pubblicità, sermoni, tavole di incontro di ogni genere sono indispensabili per indurre un approccio diverso al vivere comune. Il primo compito – fidarsi dei cittadini – spetta ovviamente alle amministrazioni.

6. Chi può fare questo lavoro? E come?

La risposta a queste domande non è agevole. In termini del tutto generali, si deve pensare anzitutto al team: deve essere interdisciplinare, con la cooperazione di tecnici – ingegneri, architetti, fisici, chimici, ad es., oltre ad esperti di amministrazione e giuristi. Al di là delle banalità, che sono sotto gli occhi di tutti e resistono per inerzia, solo persone di grande cultura, di grande esperienza e di grande onestà intellettuale possono dire quale è il peso attuale dell’interesse pubblico tutelato dalla norma X, Y, Z. Non si deve mai dimenticare che dietro il permanere di interessi pubblici inutili, la cui permanenza è incomprensibile, vi è la realtà di interessi privati che gravitano intorno all’universo degli interessi pubblici.

Alla domanda, di come si possa fare questo lavoro, si può rispondere in un unico modo: si deve individuare un’area, “sezionarla” e studiare le sue componenti nell’ottica dell’utile-inutile. Eliminato l’inutile, si potrà tentare di ricucire il tessuto, offrendo un frammento di esperienza amministrativa, effettivamente semplificato.

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In concreto, è ragionevole supporre che uno studio del codice dell’edilizia, con le sue complessità, contraddizioni ed norme inutili, potrebbe essere un primo utile banco di prova.