Chi si oppone?

La condizione dell’economia “reale” dell’Italia – da pochi anteveduta sin dagli anni Novanta, ammessa ora dai più – è grave, più grave di quanto non fosse nel novembre del 2011, quando l’attuale governo nacque. Pure, è risolvibile.

La fuoriuscita dalla crisi – ristagno dal 1992, contrazione abissale dal 2008 – è da ultimo affidata alle imprese. Dopo lustri di letargo improduttivo e profitti facili la ripresa dipenderà dall’autonoma riscoperta da parte loro della propensione e capacità di investire, stare sulla frontiera dell’efficienza, innovare nei prodotti e nelle tecniche, assicurare lavoro non precario e salario dignitoso. Nel tempo la produttività delle nostre imprese è scaduta, in assoluto e rispetto ai concorrenti. E’ essenziale che torni a crescere, recuperi il terreno perduto. La risposta, seppure tardiva, è ancora nelle potenzialità del sistema.

Lo Stato è chiamato a confortare almeno in tre modi l’impegno che l’Impresa decidesse alfine di fare proprio.

All’economia occorre un quadro giuridico moderno: nel diritto societario e dei rapporti di lavoro, nel processo civile, nel diritto fallimentare, del risparmio, amministrativo. L’attuale ordinamento è di freno alla crescita della produzione e della produttività, impedisce l’investimento estero. Si deve riscrivere il diritto dell’economia in modo organico, nel rispetto dei principii comunitari, così da promuovere le migliori espressioni della funzione imprenditoriale e del capitale di rischio.

In secondo luogo, non solamente attraverso la normativa e l’azione antitrust, va imposta alle imprese la concorrenza. Solo le pressioni competitive possono costringere alla ricerca del profitto lungo la strada maestra dell’efficienza, e non attraverso scorciatoie collusive e caccia alle rendite. La concorrenza è specialmente preziosa nei mercati delle merci “base”, che entrano quali beni intermedi nella più gran parte delle attività economiche.

Infine, le pubbliche amministrazioni devono tornare a effettuare investimenti netti in opere infrastrutturali che – a cominciare dalla messa in sicurezza del territorio – siano socialmente utili, tonifichino la domanda globale in via diretta e con i loro forti effetti moltiplicativi, dischiudano alle imprese economie esterne. Contemporaneamente, deve iniziare a ridursi la pressione tributaria. Esosa e iniqua, la tassazione frena l’accumulazione di capitale e i consumi, distorce l’impiego delle risorse, mortifica l’attività produttiva. Per investire in infrastrutture e ridurre le imposte nel rispetto dei vincoli comunitari e di mercato finanziario è essenzialeche l’equilibrio del bilancio – al netto del ciclo – venga consolidato contenendo la spesa corrente non-sociale al netto degli interessi sul debito. Vanno poste sotto rigoroso, draconiano controllo tre voci di uscita nel conto della P.A.: acquisti di beni e servizi (strappando prezzi meno iugulatori ai fornitori); personale (graduando il turnover, per date remunerazioni); “altre” spese correnti (tagliando trasferimenti fonte di inefficienza e frutto di corruzione). Nel loro insieme le tre voci corrispondono a un quinto del prodotto lordo, con ampi margini di risparmio, solo moderatamente riduttivi della domanda globale.

E’ dubbio che si diano realistiche alternative a queste linee d’azione. Esse sono, oggi, ampiamente condivise dagli economisti, dal mondo della produzione e, deve ritenersi, dalle parti sociali.

Può la politica continuare a disattenderle fra inconcludenti attriti di fazioni, mentre il Paese scivola verso la povertà, lungo una deriva che la politica non ha saputo, in venti anni, contrastare?