La valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico. Alcuni profili di criticità.

Sono molti anni oramai che la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico è entrata a far parte, seppur con connotazioni diverse, delle agende dei vari Governi che si sono succeduti alla guida del Paese, fino ai più recenti provvedimenti della c.d. spending review del Governo Monti. Questo provvedimento ha istituito dei fondi immobiliari costituiti da SGR pubbliche[1], che si sovrappongono all’obbligo, per tutte le amministrazioni pubbliche, a dare corso al processo di valorizzazione del loro patrimonio immobiliare, compresi gli enti locali che ai sensi della L. n. 133/08 avrebbero dovuto predisporre il “Piano delle alienazioni e delle valorizzazioni immobiliari”. Non ultimo il Governo si è spinto verso la strada della razionalizzazione del patrimonio, individuando un parametro di riferimento, per l’occupazione degli uffici, compreso tra 20 e 25 metri quadri per addetto, a cui le amministrazioni pubbliche si dovranno obbligatoriamente uniformare nella gestione dei propri spazi[2].
L’esigenza di valorizzare gli immobili pubblici deriva non solo dalle sempre più pressanti necessità finanziarie dello Stato e degli enti locali, ma anche dalla unanime convinzione che essi costituiscono per la collettività una risorsa sottoutilizzata o insufficientemente sfruttata, ovvero, talvolta, una semplice voce di costo.
Le diversità di posizione tra i vari orientamenti politici dei Governi succedutisi risiedono prevalentemente nelle modalità di valorizzazione che, come noto, possono essere molteplici, dalla semplice vendita alla cartolarizzazione, dall’efficientamento energetico alla ottimizzazione d’uso degli spazi. Ancora più accentuata è stata la diversità di orientamento sui soggetti pubblici che dovrebbero essere beneficiati dalla valorizzazione dei beni, in relazione alla circostanza che nella gran parte dei casi questa è legata indissolubilmente a provvedimenti di competenza dei vari soggetti pubblici detentori di vincoli, urbanistici, ambientali e paesaggistici, culturali e d’uso (relativamente a questo aspetto basti pensare al patrimonio in uso all’amministrazione della difesa).
Tali diversità si sono susseguite con l’alternanza dei Governi:

– nel caso di orientamenti più “liberisti” e obiettivi di cassa più immediati, hanno prevalso politiche di vendita (p.e. acquisizioni Fintecna e aste pubbliche), ricorso a strumenti finanziari (p.e. cartolarizzazioni, SCIP, FIP, ecc.) nonché azioni di tutela nei confronti dell’apparato militare;

– nel caso di orientamenti più “sociali” hanno prevalso invece provvedimenti che prevedevano azioni con ricadute economiche indirette, a più lungo termine e, non ultimo, territorializzate: concessioni d’uso nelle varie forme[3], trasferimenti agli enti locali rafforzati con l’introduzione c.d. “federalismo demaniale”[4], ecc..

Comunque, malgrado le significative diversità dei vari indirizzi alternativi, gran parte delle valorizzazioni avviate nel corso degli anni hanno portato complessivamente ad un notevole risultato che però ovviamente ha riguardato ciò che era più immediatamente valorizzabile e cioè il patrimonio disponibile, e cioè quello più facilmente sdemanializzabile, e pertanto non soggetto a vincoli particolarmente restrittivi, con esclusione quindi del patrimonio storico artistico[5] e del patrimonio sul quale gravano c.d. “usi governativi”, a iniziare dal patrimonio della difesa.
Tuttavia le valorizzazioni hanno avuto una portata prevalentemente, ma sarei portato ad affermare “esclusivamente”, limitata agli aspetti finanziari piuttosto che a quelli operativi, e cioè con modesti benefici reali e sociali in termini di riqualificazione urbana e sviluppo economico del territorio. E in questo senso credo che le cause possano essere individuate in tre principali questioni:

– la complessità dell’attuazione dei progetti di sviluppo immobiliare, con particolare riferimento alla presenza di vincoli ricognitivi, conformativi e urbanistici[6];

– la scarsità di operatori qualificati nello sviluppo di tali progetti (quelli che negli altri Paesi sono noti con il termine “developer”);

– la complessità e a volte inadeguatezza delle procedure di valutazione economica degli immobili.

Un modello che racchiude tutte e tre le criticità è quello degli immobili ceduti a Fintecna il cui sviluppo, peraltro tutto a carico dei partner privati attraverso il sistema a rete delle società miste, è sostanzialmente fermo a causa della sopravvalutazione del patrimonio immobiliare per effetto di vendite con gare al rialzo, circostanza ulteriormente aggravata dalla recente congiuntura del settore.
Oggi quindi il patrimonio immobiliare pubblico sul quale si concentreranno le politiche di valorizzazione è prevalentemente costituito dal patrimonio storico artistico e dai beni strumentali, il primo soggetto ai vincoli del codice dei beni culturali e il secondo a quelli d’uso delle amministrazioni utilizzatrici. Su questi due aspetti è indispensabile fare un po’ di chiarezza.
Per quanto riguarda il patrimonio immobiliare storico artistico, come noto, il nostro ordinamento prevede che il vincolo apposto sugli immobili determini l’obbligo della loro conservazione, il divieto di demolizione, di modifica o di uso non compatibile con il loro carattere storico od artistico e conseguentemente qualsiasi intervento su beni è sempre subordinato al rilascio di apposita autorizzazione da parte della Soprintendenza territoriale competente[7].

Autorizzazione che deve essere richiesta in base ad una specifica istanza corredata da un progetto di intervento. Il Ministero dei beni culturali ha pertanto competenza:

– nell’eventuale trasferimento della proprietà dei beni pubblici a favore di privati;

– nella individuazione di destinazioni d’uso compatibili con le caratteristiche del bene;

– nella verifica, in fase di esame di progetto, che gli interventi di rifunzionalizzazione e restauro mantengano inalterato l’insieme architettonico e siano improntati al recupero unitario dell’edificio, nonché siano rispettosi dei caratteri storico artistici e di quant’altro necessario alla tutela del bene.

Inoltre il Codice dei Beni Culturali stabilisce che “lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali stipulano accordi per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, nonché per elaborare i conseguenti piani strategici di sviluppo culturale e i programmi relativamente ai beni culturali di pertinenza pubblica”[8], promuovendo altresì “l’integrazione, nel processo di valorizzazione concordato, delle infrastrutture e dei settori produttivi collegati” attraverso Accordi di valorizzazione. Conseguentemente nel caso della dismissione di beni dello Stato, il Ministero si esprime sia in una fase programmatica (piano strategico) con la sottoscrizione dell’accordo di valorizzazione, che in fase di esame di progetto. Alla luce di ciò è evidente, da una parte, la scarsa utilità e la limitata espressività di un parere di rifunzionalizzazione di un immobile con “destinazioni compatibili” senza un progetto tecnico di restauro che dimostri la compatibilità delle nuove funzioni con l’insieme architettonico e i caratteri storico artistici del bene, e, dall’altra, il rafforzamento della discrezionalità dell’azione amministrativa che, come noto, dovrebbe invece basarsi sull’esistenza di circostanze di fatto o di elementi specifici. Del resto il rischio della discrezionalità dell’azione amministrativa è sempre più alimentata da norme che pur ampliando i poteri di tutela sulla base di legittime istanze sociali, sottraggono o limitano, al tempo stesso, le attribuzioni di responsabilità nei confronti di chi tali poteri deve esercitare.
Altro elemento di criticità nei processi di valorizzazione e talvolta vera e propria causa di fallimento delle valorizzazioni immobiliari, sia pubblici che privati, è la sopravvalutazione economica degli asset, che può essere determinata non solo per effetto dei valori inscritti “a libro,” qualora si operi all’interno di un contesto giuridico civilistico, ma anche e nel caso di immobili demaniali e con stime effettuate obbligatoriamente dall’Agenzia del Territorio. Dalla mia esperienza concreta infatti l’Agenzia utilizza, malgrado l’apparato metodologico da essa stessa prodotto[9], quasi esclusivamente i metodi di stima più semplici, ovvero quello del valore del costo o del valore di trasformazione, rispetto al metodo reddituale-finanziario che sebbene comporti competenze più specialistiche, consentirebbe una stima più rispondente alle singole specificità dei processi di valorizzazione. Tale questione non deve assolutamente essere sottovalutata in quanto un approccio metodologico o un stima non pertinente con il progetto di valorizzazione può determinare il fallimento delle iniziative. Situazioni di questo genere mi sono capitate personalmente in diversi casi, come per esempio nel caso di stime di strutture ospedaliere da dare in permuta per la realizzazione di un nuovo ospedale, dove il valore del bene in permuta dovrebbe essere correttamente valutato con riferimento ad un progetto di valorizzazione che preveda una nuova ipotesi di destinazione d’uso dell’area (in quanto evidentemente non potrà essere più ospedaliera), il deprezzamento per le demolizioni dell’immobile e, qualora non completate le relative procedure, i rischi derivanti sia da vincoli urbanistici (procedura di variante urbanistica) che ricognitivi (a iniziare dalla c.d. “verifica di culturalità” prevista dal codice dei beni culturali[10]).
Per quanto riguarda i vincoli d’uso da parte delle amministrazioni utilizzatrici è evidente come in tutti i casi, compreso il caso dei compendi immobiliari privati, vi sia una “naturale” resistenza alla cessione dei beni da parte di chi li utilizza, e che è portato a difenderli giustificandone, per quanto possibile, la necessità. Per facilitare la dichiarazione di non strumentalità da parte dell’amministrazione utilizzatrice si ricorre sempre a una negoziazione che, nel caso degli immobili della difesa è stata anche istituzionalizzata dal legislatore che ha introdotto un principio secondo il quale una parte dei risultati della valorizzazione economica siano attribuiti alla amministrazione detentrice del bene. Del resto oggi è sempre più difficile trincerarsi dietro finte esigenze visto anche che la razionalizzazione che oggi è resa obbligatoria anche con l’individuazione di standard minimi di superficie, che seppure in modo semplificatorio in quanto sarebbe più opportuno introdurre standard prestazionali, dovrebbe progressivamente portare a migliorare le performance funzionali ed conseguentemente economiche anche degli immobili strumentali, e consentire in via indiretta una loro valorizzazione.
Un’ultima e conclusiva considerazione che a mio parere non deve essere sottovalutata, in particolare in prospettiva, riguarda il malcelato diffondersi in settori sempre più ampi dell’opinione pubblica dell’idea che essendo gli immobili demaniali “beni pubblici”, il loro destino debba essere determinato non dallo Stato, ovvero dal soggetto pubblico che ne possiede la titolarità, bensì dalla collettività, troppo spesso rappresentata però da gruppi sociali o soggetti portatori di istanze politiche dietro le quali si celano, anche se non in via esclusiva, interessi particolari. La conseguenza di ciò è che sempre più una ristretta categoria o gruppo di cittadini si senta legittimato a rivendicare un uso esclusivo privato e discrezionale di beni pubblici inutilizzati, sottoutilizzati o abbandonati[11], giustificandolo come un uso a favore della collettività. I teorici di tale posizione affermano infatti che “Il bene comune è un bene che appartiene alla collettività, per identità culturale, sentimento di appartenenza, memoria ed espressione del territorio”[12], e conseguentemente danno legittimazione politica e successivamente giuridica ad occupazioni abusive, che non solo configgono con qualsiasi politica di valorizzazione demaniale ma anche con qualsiasi principio etico di rispetto per la “cosa pubblica”. Ciò non toglie la ragionevole necessità, non ultimo anche per farne crescere la condivisione con il partenariato territoriale, che la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, avendo di per sé finalità sociali, non debba essere accompagnata anche da azioni di respiro effettivamente sociale, che però dovrebbero essere individuate in modo specifico e caso per caso all’interno di ciascun progetto di sviluppo.

Note

1.  Cfr. http://www.camera.it/465?area=8&tema=455&Gli+immobili+pubblici, L’articolo 6, comma 7, della legge n. 183 del 2011 ha previsto che i fondi istituiti dalla SGR del Ministero dell’Economia possono acquistare immobili ad uso ufficio degli enti territoriali utilizzati dagli stessi o da altre pubbliche amministrazioni, nonché altri immobili di proprietà degli stessi enti di cui sia completato il processo di valorizzazione edilizio-urbanistico. DL. n. 95/2012

2.  D.L. n. 95/12

3.  Mi riferisco in particolare all’introduzione, con l’art. 3-bis D.L. n. 351/01 convertito dalla L. n. 410/01 e s.m.i., dell’istituto della concessione di valorizzazione, come recentemente modificato e integrato dall’art. 3, comma 14, del D.L. n. 95/2012

4.  Cfr. art. 19 L. n. 42/09.

5.  Art. 10 del Codice dei BB.CC., D.lgs. 42/04 (ex lege n. 1089/39).

6.  Al fine di agevolare le varianti urbanistiche è oramai acquisito il principio che parte della valorizzazione economica avvenga a favore del comune in cui si trova l’immobile.

7.  Artt. 20 e 21 D.lgs. 42/04.

8.  Art. 112 D.lgs. 42/04.

9.  Cfr. Agenzia del Territorio – Direzione centrale osservatorio del mercato immobiliare e servizi estimativi “Manuale operativo delle stime immobiliari”.

10.  Cfr. art. 12 del Codice dei BB.CC., D.lgs.42/04.

11.  A titolo esemplificativo si vedano le vicende incrociate del Palazzo di Casapound e del Teatro Valle di Roma http://www.teatrovalleoccupato.it/

12.  Cfr. http://www.lacittadeibenicomuni.it/