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La valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico. Alcuni profili di criticità.

di - 14 Marzo 2013
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Autorizzazione che deve essere richiesta in base ad una specifica istanza corredata da un progetto di intervento. Il Ministero dei beni culturali ha pertanto competenza:

– nell’eventuale trasferimento della proprietà dei beni pubblici a favore di privati;

– nella individuazione di destinazioni d’uso compatibili con le caratteristiche del bene;

– nella verifica, in fase di esame di progetto, che gli interventi di rifunzionalizzazione e restauro mantengano inalterato l’insieme architettonico e siano improntati al recupero unitario dell’edificio, nonché siano rispettosi dei caratteri storico artistici e di quant’altro necessario alla tutela del bene.

Inoltre il Codice dei Beni Culturali stabilisce che “lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali stipulano accordi per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, nonché per elaborare i conseguenti piani strategici di sviluppo culturale e i programmi relativamente ai beni culturali di pertinenza pubblica”[8], promuovendo altresì “l’integrazione, nel processo di valorizzazione concordato, delle infrastrutture e dei settori produttivi collegati” attraverso Accordi di valorizzazione. Conseguentemente nel caso della dismissione di beni dello Stato, il Ministero si esprime sia in una fase programmatica (piano strategico) con la sottoscrizione dell’accordo di valorizzazione, che in fase di esame di progetto. Alla luce di ciò è evidente, da una parte, la scarsa utilità e la limitata espressività di un parere di rifunzionalizzazione di un immobile con “destinazioni compatibili” senza un progetto tecnico di restauro che dimostri la compatibilità delle nuove funzioni con l’insieme architettonico e i caratteri storico artistici del bene, e, dall’altra, il rafforzamento della discrezionalità dell’azione amministrativa che, come noto, dovrebbe invece basarsi sull’esistenza di circostanze di fatto o di elementi specifici. Del resto il rischio della discrezionalità dell’azione amministrativa è sempre più alimentata da norme che pur ampliando i poteri di tutela sulla base di legittime istanze sociali, sottraggono o limitano, al tempo stesso, le attribuzioni di responsabilità nei confronti di chi tali poteri deve esercitare.
Altro elemento di criticità nei processi di valorizzazione e talvolta vera e propria causa di fallimento delle valorizzazioni immobiliari, sia pubblici che privati, è la sopravvalutazione economica degli asset, che può essere determinata non solo per effetto dei valori inscritti “a libro,” qualora si operi all’interno di un contesto giuridico civilistico, ma anche e nel caso di immobili demaniali e con stime effettuate obbligatoriamente dall’Agenzia del Territorio. Dalla mia esperienza concreta infatti l’Agenzia utilizza, malgrado l’apparato metodologico da essa stessa prodotto[9], quasi esclusivamente i metodi di stima più semplici, ovvero quello del valore del costo o del valore di trasformazione, rispetto al metodo reddituale-finanziario che sebbene comporti competenze più specialistiche, consentirebbe una stima più rispondente alle singole specificità dei processi di valorizzazione. Tale questione non deve assolutamente essere sottovalutata in quanto un approccio metodologico o un stima non pertinente con il progetto di valorizzazione può determinare il fallimento delle iniziative. Situazioni di questo genere mi sono capitate personalmente in diversi casi, come per esempio nel caso di stime di strutture ospedaliere da dare in permuta per la realizzazione di un nuovo ospedale, dove il valore del bene in permuta dovrebbe essere correttamente valutato con riferimento ad un progetto di valorizzazione che preveda una nuova ipotesi di destinazione d’uso dell’area (in quanto evidentemente non potrà essere più ospedaliera), il deprezzamento per le demolizioni dell’immobile e, qualora non completate le relative procedure, i rischi derivanti sia da vincoli urbanistici (procedura di variante urbanistica) che ricognitivi (a iniziare dalla c.d. “verifica di culturalità” prevista dal codice dei beni culturali[10]).
Per quanto riguarda i vincoli d’uso da parte delle amministrazioni utilizzatrici è evidente come in tutti i casi, compreso il caso dei compendi immobiliari privati, vi sia una “naturale” resistenza alla cessione dei beni da parte di chi li utilizza, e che è portato a difenderli giustificandone, per quanto possibile, la necessità. Per facilitare la dichiarazione di non strumentalità da parte dell’amministrazione utilizzatrice si ricorre sempre a una negoziazione che, nel caso degli immobili della difesa è stata anche istituzionalizzata dal legislatore che ha introdotto un principio secondo il quale una parte dei risultati della valorizzazione economica siano attribuiti alla amministrazione detentrice del bene. Del resto oggi è sempre più difficile trincerarsi dietro finte esigenze visto anche che la razionalizzazione che oggi è resa obbligatoria anche con l’individuazione di standard minimi di superficie, che seppure in modo semplificatorio in quanto sarebbe più opportuno introdurre standard prestazionali, dovrebbe progressivamente portare a migliorare le performance funzionali ed conseguentemente economiche anche degli immobili strumentali, e consentire in via indiretta una loro valorizzazione.
Un’ultima e conclusiva considerazione che a mio parere non deve essere sottovalutata, in particolare in prospettiva, riguarda il malcelato diffondersi in settori sempre più ampi dell’opinione pubblica dell’idea che essendo gli immobili demaniali “beni pubblici”, il loro destino debba essere determinato non dallo Stato, ovvero dal soggetto pubblico che ne possiede la titolarità, bensì dalla collettività, troppo spesso rappresentata però da gruppi sociali o soggetti portatori di istanze politiche dietro le quali si celano, anche se non in via esclusiva, interessi particolari. La conseguenza di ciò è che sempre più una ristretta categoria o gruppo di cittadini si senta legittimato a rivendicare un uso esclusivo privato e discrezionale di beni pubblici inutilizzati, sottoutilizzati o abbandonati[11], giustificandolo come un uso a favore della collettività. I teorici di tale posizione affermano infatti che “Il bene comune è un bene che appartiene alla collettività, per identità culturale, sentimento di appartenenza, memoria ed espressione del territorio”[12], e conseguentemente danno legittimazione politica e successivamente giuridica ad occupazioni abusive, che non solo configgono con qualsiasi politica di valorizzazione demaniale ma anche con qualsiasi principio etico di rispetto per la “cosa pubblica”. Ciò non toglie la ragionevole necessità, non ultimo anche per farne crescere la condivisione con il partenariato territoriale, che la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, avendo di per sé finalità sociali, non debba essere accompagnata anche da azioni di respiro effettivamente sociale, che però dovrebbero essere individuate in modo specifico e caso per caso all’interno di ciascun progetto di sviluppo.

Note

8.  Art. 112 D.lgs. 42/04.

9.  Cfr. Agenzia del Territorio – Direzione centrale osservatorio del mercato immobiliare e servizi estimativi “Manuale operativo delle stime immobiliari”.

10.  Cfr. art. 12 del Codice dei BB.CC., D.lgs.42/04.

11.  A titolo esemplificativo si vedano le vicende incrociate del Palazzo di Casapound e del Teatro Valle di Roma http://www.teatrovalleoccupato.it/

12.  Cfr. http://www.lacittadeibenicomuni.it/

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