Una rinnovata legge quadro sulle calamità?

1. Occorre una legge generale di governo dei rischi da calamità naturali e da altri eventi calamitosi, e degli effetti conseguenti[1]?
L’interrogativo, solo in apparenza retorico, nasce dalla valutazione della gestione degli eventi calamitosi che si sono verificati di recente. Il caso ha voluto che il terremoto che ha colpito l’Emilia Romagna, la Lombardia e il Veneto sia avvenuto a distanza di pochi giorni dalla emanazione della legge n. 100/2012 di riforma del Servizio nazionale della protezione civile, che aggiorna la legge n. 225/1992 che lo aveva istituito[2].
Non che prima di tale riforma l’interrogativo non si ponesse, ma certamente era meno impellente in quanto l’azione del Servizio nazionale della protezione civile comprendeva l’intero ciclo che va dalla previsione di eventi calamitosi e alla informazione sui rischi potenziali connessi, alla gestione della emergenza, articolata in più fasi, lo stesso processo di ricostruzione.
Ora, come noto, l’azione della Protezione Civile – formula abbreviata con la quale si definisce il Servizio Nazionale della Protezione Civile –, è stata limitata alla previsione, alla informazione / comunicazione dei rischi potenziali ed alla gestione della fase di emergenza, fin tanto che vi sono pericoli per le persone, i beni, gli insediamenti e l’ambiente.
Una volta ridotto/eliminato tale pericolo, entrano in scena come primi attori della ricostruzione nelle varie fattispecie gli enti territoriali e locali.
L’uso strabordante che è stato fatto nel tempo dei poteri che il legislatore aveva affidato alla Protezione Civile, di per sé già notevoli, in base alla l. 225/1992, ha determinato la reazione che si è materializzata nella nuova legge. Forse eccedendo di nuovo però: questa volta dal lato della riduzione di poteri.
Sintetizzando, si può dire che se prima si tendeva a “straordinarizzare l’ordinario” (da ciò lo «straripare» della Protezione Civile), oggi si tende ad “ordinarizzare lo straordinario”. Per Comuni e Regioni, infatti, la gestione di un processo di ricostruzione, comunque una fase post evento calamitoso, è pur sempre qualcosa di straordinario, indipendentemente dalle capacità, dalle risorse impiegabili, dal grado di organizzazione, etc. Se poi questi sono carenti, come purtroppo è nella maggioranza delle pubbliche amministrazioni, la natura eccezionale dell’azione emerge ancora di più.
Per quanto riguarda la fase di ricostruzione, nelle esperienze precedenti l’emanazione della legge n. 100/2012 si è assistito alla produzione di una legislazione di volta in volta diversa. E la stessa emergenza, solitamente gestita secondo un consolidato processo strutturato su più fasi (corrispondenti al ciclo che va dal soccorso al rialloggiamento delle persone in strutture: provvisorie, “semi dure”, “dure” o permanenti), è stata gestita molto diversamente in ordine alle caratteristiche degli eventi calamitosi, ai luoghi interessati ed alla stessa necessità di sperimentare nuovi approcci.
Un esempio molto significativo è stato il «progetto C.A.S.E.» a L’Aquila.
In questo caso si sono saltate delle fasi: il rialloggiamento di una consistente parte della popolazione che aveva perso la originaria abitazione, è stato fatto abbastanza rapidamente in abitazioni permanenti ad hoc costruite, saltando la fase delle abitazioni provvisorie (prefabbricati, roulotte, etc.). Con forti implicazioni urbanistiche ovviamente, ma anche economico – finanziarie.
Il salto di una fase almeno ha certamente «stressato» la fisiologica erogazione della spesa pubblica in base alla sequenza delle fasi consolidate della ricostruzione.
Ma se si considerano le difficoltà delle finanze pubbliche che si sarebbero manifestate a breve distanza, questo «salto» può essere valutato come assolutamente positivo.
La diversità degli approcci riscontrata nei diversi casi, va molto oltre quella degli eventi e dei contesti culturali, sociali ed economici che caratterizzano i vari eventi calamitosi.
Si pensi solo alle calamità che hanno colpito l’Aquila e l’Abruzzo nel 2009 e l’Emilia Romagna, la Lombardia e il Veneto nel 2012. Si tratta di terremoti, diversi in sé oltre che nelle caratteristiche degli ambienti fisici interessati, quindi dei contesti insediativi, sociali ed economici e dei beni interessati.
Per quello che attiene gli insediamenti questi erano prevalentemente urbani nel caso dell’Abruzzo (sia piccoli centri urbani che una media città, colpita soprattutto nella parte storica); nell’altro, insediamenti prevalentemente produttivi, anche se sono stati ugualmente interessati beni culturali e insediamenti urbani.
In un caso insediamenti urbani isolati ma geograficamente densi sotto il profilo edilizio; ma in un altro insediamenti urbani di media/bassa densità edilizia. Nel caso dell’Emilia Romagna i beni colpiti sono soprattutto i «contenitori» (fabbricati e scaffalature) di attività produttive, per di più fortemente internazionalizzate: quasi un terremoto che ha colpito nel cuore della globalizzazione dell’economia.
Oltre queste differenze, quelle di contesto: culturali, sociali, organizzative, etc.
Ma anche quelle connesse allo stato delle finanze pubbliche, sempre più precarie ed esigenti (si pensi al tema della esenzione dal pagamento dei tributi: entità, durata, etc., tra i due casi). Ai vincoli di impiego e di spesa delle stesse risorse derivanti da patti di stabilità europeo ed interno, che da qualche anno incidono anche nella gestione di eventi calamitosi.
Una lettura delle condizioni di contesto, magari limitato allo stato delle finanze pubbliche al momento nel quale sono avvenute delle catastrofi che hanno colpito l’Italia, anche solo negli ultimi anni, mostrerebbe una forte disparità di trattamento delle posizioni giuridiche colpite (enti locali, proprietari immobiliari privati, gestori di attività produttive, etc.). Disparità spesso accentuata dalle modalità di erogazione di contributi ed indennizzi da parte dello Stato.
Già la distinzione tra contributi ed indennizzi può essere stata discriminatoria, oltre che disfunzionale nella pratica del riconoscimento del danno e del risarcimento dello stesso, nonché della stessa ricostruzione (obblighi, unitarietà o meno degli interventi, etc.).

Altra rilevante diversità è quella degli strumenti di pianificazione dei processi di ricostruzione. Man meno che ci si è allontanati dalla legge n. 27 ottobre 1951, n. 1402 recante modificazioni al D.L. 1 marzo 1945, n. 154 sui piani di ricostruzione degli abitati danneggiati dalla guerra, quella appunto sui piani ricostruzione, il legislatore ha mostrato molta incostanza: dall’originario piano di ricostruzione di porzioni di città, variante automatica del piano regolatore generale, al piano di ricostruzione di dettaglio «conforme» al piano regolatore generale, all’uso degli strumenti di programmazione negoziata. Questo il panorama degli strumenti urbanistici delle varie leggi sulla ricostruzione nel caso del Belice, dell’Irpinia, del Friuli, della Campania, dell’Umbria, quindi dell’Abruzzo ed ora dell’Emilia Romagna, Lombardia e Veneto.
Perché tanta diversità, con le inevitabili disparità di trattamento delle posizioni soggettive oltre che della funzionalità del processo di ricostruzione?
Sembra come se dall’esperienza si apprenda solo l’esigenza di variare gli approcci e non di perfezionarli mano a mano che, purtroppo, ci si trova a fronteggiare le conseguenze degli eventi calamitosi.
E sì che l’esperienza internazionale è maestra nel suggerire di tenere fermi gli approcci, di migliorarli proprio sulla base delle esperienze.
Particolarmente interessante al riguardo è l’approccio metodologico suggerito dalla Banca Mondiale in base alla propria esperienza anche se in contesti molto diversi dal nostro. L’approccio inerisce sia le filosofie d’intervento (modello del coinvolgimento diretto degli interessati oppure quello della «agency»), che gli strumenti d’intervento[3].

2. Un aspetto molto critico è divenuto di recente la fase di previsione dell’entità di eventi potenzialmente calamitosi e quindi di comunicazione/informazione[4] del pubblico di tali previsioni.
L’anno 2012 ha segnato l’accentuarsi del problema. Un evento quale la «neve a Roma» e poi una precipitazione che per molte ore ha – come si dice -, «messo in ginocchio» la Capitale, con le conseguenze concrete – disagi vari, perdite economiche, etc. – che è facile comprendere, hanno fortemente influenzato il comportamento delle autorità preposte alla informazione sulle possibili conseguenze degli eventi meteorologici potenzialmente calamitosi. È indubbio che il «tono» dell’informazione sia divenuto più forte.
Che si tenda ad accentuare, cioè, l’entità del rischio potenziale da parte di chi è preposto a fornire previsioni al riguardo?
O che si tratti di una impropria applicazione del principio di precauzione che senza una puntuale delimitazione porta – come si dice con arguzia – al «principio di astensione»?
Hanno influito su ciò il comportamento della magistratura in analoghi casi e, da ultimo, nella condanna sanzionata ai componenti della Commissione Grandi Rischi nella gestione delle informazioni nel caso del terremoto di L’Aquila del 2009[5]?
Come noto si è in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza. Dal dibattimento sembrerebbe essere emerso che il Tribunale abbia maturato il convincimento che tra la morte di alcuni cittadini e il «tono» della informazione/comunicazione sul rischio di terremoto ci sia una stretta correlazione. Che cioè il messaggio sia stato rassicurante (o sia stato inteso come rassicurante) e da ciò l’attenuazione delle precauzioni da parte delle autorità e dei cittadini.

3. L’eventuale nuova legge quadro o generale dovrebbe quindi riorganizzare il complesso dell’azione che si estende da:

->previsione di eventi calamitosi;
->informazione / comunicazione degli stessi;
->interventi nel caso di verificarsi di calamità, distinguibili in:

a) fase di emergenza, che si estende fino alla eliminazione dell’esistenza di pericoli per le popolazioni, i beni, gli insediamenti, l’ambiente (si riprende la declaratoria degli oggetti che ne fa la legge n. 100/2012);
b) fase di indagine (dapprima speditiva), in funzione della decisione sulla agibilità (provvisoria e definitiva) delle costruzioni danneggiate, sulla base di «format» stabiliti per tipologie edilizie;
c) accertamento dei danni, chiarendo se riguardano i soli immobili od anche le attrezzature necessarie allo svolgimento di attività economiche;
d) valutazione economica degli stessi, per mezzo di «format» tipo;
e) definizione delle entità, delle forme e delle modalità di ristoro – indennizzi o contributi -, monetarie od altro, considerando anche ipotesi di premialità urbanistico-edilizie e di trasferibilità delle volumetrie edilizie (del resto già in uso nella pratica urbanistica e previsto nella legge sui piani di ricostruzione del 1951 e nella stessa «legge delega» sull’ambiente n. 308/2004, seppure limitatamente al caso del rischio di esondazione);
f) redazione di agili piani di ricostruzione (che ridisegnino il sistema delle reti, la «impronta urbana» complessiva, gli ambiti unitari di intervento, gli interventi isolati, etc.), nei casi ove le indagini precedenti, obbligatoriamente accompagnate da quelle conoscitive sulla sismicità dei luoghi e su altre fonti di rischio e sulla base anche di approfondite analisi benefici – costi ne mostrino la opportunità / convenienza;
g) valutazione della “viabilità” del piano di ricostruzione e quindi la decisione sulla attuazione dello stesso, se previo intervento pubblico o privato o secondo forme «miste»;
h) attuazione del piano di ricostruzione.

Ogni passo della sequenza ha ovviamente un elevato livello problematico. La sequenza complessiva, nelle evidenti correlazioni tra i diversi passi, non può che essere disegnata di massima. La diversità dei casi è tale che non è pensabile poterli riportare ad un unico rigido e predefinito «format». Conviene definire gli approcci metodologici generali ed ancora di più gli strumenti che si possono applicare. In sostanza: linee guida/buone pratiche e una pluralità di strumenti tutti molto attentamente disciplinati.
Al fondo, riprendendo anche dalle esperienze di altri eventi, ecco alcune delle questioni di fondo da dirimere:

-> dal caso dei recenti eventi calamitosi che hanno interessato gli Stati Uniti, la questione dell’approccio di base del Servizio di Protezione Civile: se cioè deve rispondere alla logica del «big government» o dello «small government».
In altri termini: centrale/federale o statale/regionale/territoriale (provinciale/comunale)?
E quindi quale è il grado ottimo di commistione tra i due approcci che deve essere raggiunto e, soprattutto, come deve essere organizzata la relazione tra «big» e «small», ferma restando la inevitabilità oramai della relazione. Quindi di un servizio unitario, articolato sul territorio;
-> da i casi più recenti di annuncio di possibili calamità naturali: a chi spetta, comunicare e informare su possibili eventi calamitosi, come farlo e quali le responsabilità;
-> dagli eventi che sono accaduti in un periodo di crisi fiscale dello stato, quindi di scarsità di risorse: definire la misura massima del contributo pubblico parametrizzata sull’entità del danno riconosciuto (agli immobili, alle
attività/dotazioni tecnologiche, etc.), in modo da non creare ingiustizie nel tempo;
-> dalla ricorrenza dei casi: come «semplificare» il processo di ricostruzione? Definendo cioè gli spazi di azione del pubblico e del privato, le discipline applicabili con riguardo a quelle -inerenti i contratti, le forniture ed i servizi, alla disciplina urbanistica ed al Testo Unico dell’Edilizia;
-> sempre dalla ricorrenza dei casi: affrontare la questione delle responsabilità della proprietà in materia di prevenzione (sismica, esposizione a rischi di frana, di esondazione, di vento, di incidente rilevante, etc., e concatenazione dei rischi), quindi dell’obbligo di accertamenti preventivi e di assicurazione dei beni (ipotesi che sembrerebbe essere contemplata in un ddl del Governo, su proposta del Ministro dell’ambiente, relativamente alle proprietà che si trovano in zone a rischio elevato accertato).

Un’attività molto generale e di ordine culturale inoltre dovrà essere svolta: la costruzione sociale del rischio[6].
Solo così non si perderà memoria degli eventi calamitosi e si darà un contributo concreto al perseguimento dell’obiettivo della sicurezza del territorio e delle costruzioni[7].
Solo così si potrà far crescere la domanda sociale per la sicurezza e la prevenzione. Solo così la prevenzione entrerà fisiologicamente nell’agenda del decisore politico. Solo così, si porrà l’attenzione necessaria alla prevenzione. Costantemente, in un processo di messa in sicurezza continuo. Altra faccia della necessità di manutenzione dei patrimoni esistenti.

Note

1. I rischi come noto si possono classificare in naturali, tecnici, tecnologici, militari, etnici, religiosi, politici e sanitari, per quanto riguarda la fonte del rischio (Cfr., J. De Courson, “Les catastrophes, une opportunité?”, in «futuribles», 382/2012, pp. 41-57); in sistematici ed accidentali, per quanto riguarda la frequenza e in prevedibili o imprevedibili, per quanto riguarda la possibilità / capacità di prevenzione. Può essere utile, per una rapida disanima della nozione di rischio e delle conseguenze in termini sociali, consultare l’agile lavoro di David Le Breton, La sociologie du risque, «Que – sais – je?», PUF, Parigi2012). E, per aspetti più generali, soprattutto relativi alla tecnologia, J. Casti, Eventi X. Eventi estremi e il futuro della civiltà, Il Saggiatore, Milano 2012.

2.  Più precisamente, il terremoto avviene il 20 maggio 2012, allorché era vigente il DL n. 59/2012 successivamente convertito nella legge n. 100/2012. Tra il DL n. 59 che in sostanza quasi azzerava le capacità operative della Protezione Civile e la legge n. 100 vi sono molte differenze. La legge n. 100 recupererà alcune competenze. Comunque la fase di emergenza è stata gestita nel periodo di vigenza del DL n. 50.

3.  Cfr. in proposito  il libro di Jennifer Duyne Barenstein, http://www.g.fdrr.org/gfdrr/node/1074.

4.  I due termini vengono qui usati genericamente, consapevoli della profonda diversità dei loro significati: informare non è infatti sinonimo di comunicare. E viceversa.

5.  Rinvio alle considerazioni sulla vicenda che di essa fanno Lucia Margheriti e Francesco Pio Lucente, ricercatori dell’INFN, nel presentare la traduzione italiana del libro di  Susan E. Hough, The Tumultuous Science of Earthquake Prediction, Princeton UP, 2010 (trad. it., Sprinter – Verlog Italia, 2013).

6.  Particolarmente, significativa è la testimonianza che G. Boutté, sistematizzando una lunga esperienza nel campo, ci restituisce in Risques et catastrophes: comment éviter et prévenir les crises? Le management des situations complexes, Editions du Papyrus, Montreuil, 2012.

7.  Molto interessante anche sotto un profilo filosofico e storico, il volume di F. Gros, Le Principe de Sécurité, NRF Essais Gollimard, Parigi 2012.