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Dei fattori non-economici del progresso economico

di - 26 Febbraio 2013
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Le mie ricerche mi hanno portato a individuare quattro fasci di forze che hanno, in modo alterno, influito su REI, cioè sulle determinanti economiche di primissima approssimazione della crescita italiana. Finanza pubblica, infrastrutture fisiche e immateriali, grado e forme della concorrenza, dinamismo d’impresa sono quattro variabili ancora economiche, se non “naturali e primarie”: un secondo strato, appunto, a valle di REI e a monte di CIP. Nelle due fasi di crescita rapida la finanza pubblica è stata in equilibrio, le infrastrutture adeguate, la concorrenza intensa, il dinamismo d’impresa vivace. Il contrario è avvenuto nei tempi della crescita lenta. Il contrario avviene oggi. Quanto al terzo strato, cultura, istituzioni e politica hanno a propria volta influito sui quattro fasci di forze economiche “intermedie”, orientandole in senso positivo nei periodi di crescita rapida, in senso negativo negli altri.
Esemplifico con l’età giolittiana. Allora, la cultura degli italiani avanzò, in quantità e qualità. In numero crescente usufruirono di scuole, università, altre opportunità d’apprendimento, come le cattedre ambulanti in agricoltura. Vi fu vivace dialettica tra positivismo, idealismo, marxismo, come pure fra impostazione scientifica e impostazione umanistica. Sul piano istituzionale si realizzò una più larga partecipazione delle masse alla vita comune mentre lo Stato, se doveva garantire l’ordine pubblico, si dichiarava finalmente neutrale di fronte al conflitto di classe. I carabinieri di Giolitti smisero di sparare agli operai e ai contadini in sciopero. In politica economica, Giolitti equilibrò i conti pubblici, potenziò le infrastrutture, riaprì ai rapporti con l’estero, lasciò apprezzare il cambio, promosse la concorrenza fra le grandi imprese. Qualcosa di analogo, mutatis mutandis, avvenne nel secondo dopoguerra.

5. Economia e diritto.

Nelle infrastrutture immateriali – la social infrastructure di Robert Hall – rileva in modo particolare il diritto.
Sulla scia di Hall una mole crescente di ricerche, financo statistiche, è venuta confermando che il diritto ha un forte impatto, positivo o negativo a seconda delle sue forme, su produzione e produttività. Una rilevanza speciale assume, in queste analisi, la cornice istituzionale della industria finanziaria. Banca, Borsa, Assicurazione, se meglio conformate e più efficienti, possono aggiungere anche un punto percentuale al tasso di crescita del Pil pro capite. Secondo i miei calcoli il nuovo assetto istituzionale e strutturale a cui il sistema finanziario italiano è pervenuto tra il 1980 e il 2000 ha avuto un effetto positivo d’impatto dello 0,3 per cento l’anno all’incremento del prodotto pro capite, che in quel ventennio scivolava ben al disotto del 2 per cento l’anno. Alla vera e propria metamorfosi degli intermediari e dei mercati finanziari di quegli anni la Banca d’Italia governata da Carlo Ciampi dal 1979 al 1993 e da Antonio Fazio successivamente dedicò le sue migliori energie, economiche, giuridiche, amministrative, politiche.
L’effetto esercitato da quella che Giuseppe Capograssi e Francesco Orestano denominavano “esperienza giuridica” – le norme, ma anche la giurisprudenza e la dottrina – è variamente quantificato. Risulta nondimeno sistematicamente significativo nello spiegare gli scarti dalla media della “ricchezza” fra le nazioni. Alcune stime hanno registrato un effetto di diversi punti percentuali sui livelli del Pil pro capite e di oltre un punto sui suoi ritmi d’incremento.
È viva la discussione su quale sia “l’ottimo diritto” per l’economia. Prevale l’idea che il common law, nelle sue articolazioni, sia più funzionale del civil law, nelle sue articolazioni. Sono generalizzazioni, che possono non convincere. Forse più saggio, nelle scelte di politica del diritto, è riconoscere il rischio del rigetto nel trapianto degli istituti giuridici fra paesi e ispirare le riforme a un criterio di conformità delle soluzioni agli specifici tratti strutturali di ciascuna economia. Più che l’ottimo diritto per qualsivoglia economia, va ricercato “il diritto acconcio”, adeguato alle esigenze di quella determinata economia.

6. Una politica per l’economia italiana.

L’economia italiana, oltre ai problemi di finanza pubblica e alla difficoltà di fuoruscire dalla più profonda depressione di domanda effettiva della sua storia, vive da anni una deriva nella produttività. Nel 1992 la produttività delle imprese manifatturiere italiane era pari all’85 per cento di quella tedesca; nel 2013 a malapena raggiunge il 60 per cento.
Uno degli ostacoli con cui le non molte imprese medio-grandi italiane in grado di innovare si scontrano è il diritto dell’economia. Nelle graduatorie della Banca Mondiale gli assetti giuridico istituzionali rilevanti per la produttività pongono l’Italia all’87esimo posto nel globo. Queste graduatorie sono semplificanti, ma non devono sottovalutarsi, al di là della loro stessa fondatezza. Fanno opinione nei mercati, orientano i capitali.
Il riflettore andrebbe acceso su sei blocchi dell’attuale ordinamento dell’economia: societario; risparmio; crisi d’impresa; processo civile; concorrenza; opere pubbliche.
Per ciascuno di questi blocchi, naturalmente nel rispetto della disciplina comunitaria, andrebbe identificata la finalità economica essenziale a cui esso è chiamato. Su questa base andrebbe indicata la direttrice da seguire nel riformarlo. Fondamentale è la visione d’assieme: la cura delle coerenze e delle sinergie fra i diversi blocchi secondo un’analisi integrata, non racchiusa nei confini delle tradizionali partizioni della cultura giuridica.
La normativa dell’impresa dovrebbe ricercare un bilanciamento nuovo fra tutela degli amministratori e tutela dei partecipanti al capitale e degli stakeholders. Le imprese italiane sono piccole, poco inclini alla espansione dimensionale. Va quindi riconosciuta l’autonomia di chi le dirige. Agli altri interessi coinvolti, compresi quelli di azionisti e finanziatori, è da riconoscere exit, più che voice.

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