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Dei fattori non-economici del progresso economico

di - 26 Febbraio 2013
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1. La teoria economica della crescita.

Da Smith e Ricardo, i padri fondatori, la “ricchezza delle nazioni” è stata al cuore dell’economia politica. Non sorprendentemente, le determinanti sistemiche della crescita sono state sino a tempi recenti ravvisate dagli economisti in variabili d’ordine economico.
Dopo Keynes, gli sviluppi teorici sono legati agli eleganti modelli dovuti, indipendentemente, a Sir Roy Harrod e a Evsey Domar. L’idea chiave è che il progresso materiale dipende da tre forze, tutte economiche. Le chiamo (REI): il volume delle risorse (R) applicate alla produzione; il grado d’efficienza (E) con cui le risorse vengono utilizzate, date le tecniche conosciute; le innovazioni (I), che esogenamente innalzano la frontiera dell’efficienza e imprimono alla produttività un trend positivo. L’impostazione economicistica non poteva essere modificata dalle teorie della crescita che hanno cercato di “endogeneizzare” il progresso tecnico, secondo Solow riuscendovi solo in parte.
Dopo la Rivoluzione industriale inglese in soli duecento anni il capitalismo ha moltiplicato per oltre sessanta il prodotto mondiale. Di fronte a una popolazione lievitata di oltre sei volte il reddito pro capite medio dell’umanità, pressoché stazionario per millenni, si è incrementato di dieci volte. Lo stupefacente progresso risulta nell’insieme dei due secoli imputabile per poco più della metà al maggior volume delle risorse impiegate – beni capitali soprattutto – e per poco meno della metà all’innalzamento della produttività. Ma il capitale e gli altri input hanno contato tendenzialmente sempre meno. Fra le economie di oggi due terzi della varianza nei livelli del prodotto per addetto e una parte anche maggiore della varianza nei suoi ritmi di incremento sono imputabili alla qualità del produrre, non al volume delle risorse utilizzate.
Qualità: oltre a REI, dev’esservi dell’altro.
Gli economisti non hanno mai escluso che le variabili non economiche possono influire. Basti riandare allo Smith economista, giurista, maestro di retorica e belle lettere, filosofo. Nel 1951 lo stesso Domar – economista matematico – avvertiva che “lo sviluppo economico è determinato dalla struttura fondamentale della società. Una teoria completa dovrebbe includere l’ambiente fisico, l’assetto politico, gli incentivi, i metodi educativi, il quadro istituzionale, la propensione alla scienza, al cambiamento, all’accumulazione”.
Nondimeno, nel nome del rigore analitico i moderni teorici della crescita si sono a lungo astenuti dall’inoltrarsi lungo gli scivolosi terreni del “sociale”.

2. Gli storici e la crescita.

Nell’estendere le possibili determinanti dello sviluppo alle variabili meta-economiche un apporto importante è stato offerto dagli storici.
Carlo Cipolla non si stancava di ripetere che “per spiegare il funzionamento e la performance di una data economia, lo storico economico deve prendere in considerazione tutte le variabili, tutti gli elementi, tutti i fattori in gioco. E non solo le variabili ed i fattori economici”.
Negli ultimi anni gli storici dell’economia hanno molto avvicinato fra loro la storia e la teoria della crescita. Hanno indotto gli economisti a rendere i loro schemi teorici meno semplificanti, meno astratti. Soprattutto, li hanno orientati a porsi di fronte ai fatti per spiegarli, senza limitarsi alla ricerca di leggi generali, a questioni quali steady state, dinamica in equilibrio ovvero in squilibrio, progresso tecnico neutrale o non-neutrale, golden rule.
Molti nomi di storici economici potrebbero farsi, non pochi di italiani, oltre a Cipolla. Fra i motori delle esperienze di crescita del passato, North ha esaltato il ruolo delle Istituzioni, riduttrici dei costi di transazione: legalità, proprietà, contratto, responsabilità civile. Landes e Mokyr hanno insistito sulla Cultura: non la weberiana cultura protestante, ma l’Illuminismo anglosassone, scientifico e pragmatico, volto alla soluzione dei problemi. McCloskey ha spinto il rilievo dell’ideologia sino a far dipendere il progresso economico da mercato, impresa, innovazione, ma soprattutto dalla svolta culturale degli ultimi due o tre secoli, allorché la “retorica” è giunta a pensare, e a parlare, in positivo della società borghese. Vi è, infine, la Politica. Essa promuove, ovvero ostacola, l’affermarsi delle istituzioni e il diffondersi della cultura, ma favorisce o frena la crescita anche in via diretta. Diversi storici, fra cui Eric Jones, hanno riguardato la politica come un impedimento, fonte di pratiche predatorie da cui l’iniziativa dei privati di rado riesce a svincolarsi.
Quindi Cultura, Istituzioni, Politica – CIP – sono state ampiamente e variamente evocate dagli storici nel reinterpretare la Rivoluzione Industriale, la primazia europea, i ritardi secolari e poi il fulmineo recupero dell’Asia e della Cina, il successo americano, la sconfitta socialista, il diverso benessere delle nazioni, financo i dislivelli di reddito interni ai singoli paesi. “È colpa dei Normanni”, diceva Cipolla del divario del Sud della penisola italiana rispetto al Centro-nord.
Problema sempre delicato è quello della direzione del nesso causale, ovvero della reciproca interazione fra REI e CIP, tra variabili economiche e variabili non economiche. È il problema che Marx pose, assegnando prevalente rilievo alla cosiddetta struttura rispetto alla cosiddetta sovrastruttura. Per lo più gli storici economici odierni tendono a rovesciare l’indicazione di Marx. I fili delle culture, gli assetti istituzionali, i modi della politica hanno spesso radici che preesistono al capitalismo moderno. Nel linguaggio econometrico si tende, da questa storiografia, a guardare a CIP come a un insieme di “variabili strumentali”, influenti da molto lontano sull’economia.

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