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Governo del territorio: riscriviamo le regole

di - 21 Dicembre 2012
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La procedura è garanzia del rispetto della proprietà nei confronti dello stato autoritativo (non dimentichiamo che la legge è concepita e formata quando lo stato era autoritario).
E’ così che si spiega l’impianto della pianificazione territoriale – urbanistica costruito dalla legge.
I piani – strutturati su tre livelli –, sono una sorta di «by product». Il loro scopo essenziale era quello di dare certezza alla proprietà, che si realizza con il rilascio della (allora) «licenza edilizia».
In una logica di conformazione dall’alto verso il basso, dal generale al particolare, dal grande (territorio) al piccolo (particella).
Questa impostazione – tutto pianificato non solo il territorio, ma anche i comportamenti degli attori/soggetti del territorio (singoli, famiglie, imprese pubbliche, private e miste) – , ha giustificato la critica di visione «panurbanistica» del mondo che ha caratterizzato gli anni ’70 e parte degli anni ’80.
In realtà si trattava più di retorica della pianificazione che non di (reale) pianificazione concreta, operazionabile.
Alla panurbanistica corrispondeva un pianificatore demiurgo. Una sorta di Faust alla fine delle sue trasformazioni!
Se quella visione era eccessiva, lo è altrettanto la “riduzione” dell’urbanistica odierna. Di fatto, “settore” ed anche piuttosto debole rispetto agli altri!
La conformazione della proprietà (e della forma del territorio e degli insediamenti), avveniva (e avviene) per via mediata dall’assetto del territorio e via, via dall’uso del suolo.
Sarà il DPR n. 616/1977 a definire la distinzione tra assetto ed uso.
L’urbanizzazione moderna, prima che la definizione giuridica, spazzerà via la distinzione tra assetto ed uso. Soprattutto la «gerarchia». Oggi gli usi del suolo sono spesso «più» strutturanti degli assetti. Questione che rileva soprattutto per quanto riguarda le infrastrutture.
L’impostazione dell’architettura della pianificazione, obbligata dall’esigenza di «giustificare» (“motivare”) le scelte di assetto del territorio ed uso del suolo, ha reso scarsamente operativa l’urbanistica.
Tentativi di renderla più operativa, avvicinando decisione e realizzazione ce ne sono stati. Ma all’ «urbanistica per operazioni» non si è mai giunti. Anche se si è attenuato l’obbligo della conformità del piano esecutivo a quello generale.
Uno statuto di garanzia oltre che operativo per l’urbanistica per operazioni non siamo stati ancora in grado di costruirlo.
L’obbligo e la tirannia della provvedimentazione estesa – quella del piano regolatore, atto unitario a contenuto diseguale -, non sono mai stati superati.
L’urbanistica per operazioni comporta inevitabilmente un confronto diretto, anche duro, con la proprietà. Ed allo scoperto. Difficile da riportare alla logica del tradizionale piano urbanistico italiano.
Interessi e portatori degli stessi sono infatti evidenti (come accade nel rinnovo urbano in genere).
L’operazionabilità dell’urbanistica era maggiore nella legge del 1951 sui piani di ricostruzione che non in tante leggi successive, comprese quelle regionali.
La legge del 1951 è stata condannata da un «eccesso di successo», ma la sua impostazione era tutt’altro che disprezzabile. Anche se ne fu fatto (forse) un abuso nella applicazione.

4.   Da tutto ciò la definizione della urbanistica disegnata dalla legge del 1942 come di una urbanistica per piani e non per prodotti. Di processo e non di prodotto.
E, soprattutto, di prodotti non voluti. E cioè di una città contenuta nella crescita a vantaggio di uno spazio rurale ben urbanizzato.
A risentirne sono stati sia la città che lo spazio rurale.
L’impresa era ardua, mancando una cultura dello «spazio rurale» (l’«éspace rural» della tradizione francese). E soprattutto una resistente economia dello spazio rurale.
Il grave è che si è persa anche la cultura della città, che era, al contrario, nel nostro patrimonio.
Lo spazio rurale è stato trattato come deposito dei rifiuti della città. Al massimo come riserva fondiaria. Non è stata fatta alcuna costruzione sociale di esso.
La città è stata a lungo vista come nemica dalle forze politiche maggiori; lo spazio rurale solo come bacino elettorale docile e sicuro per quella che è stata a lungo la maggiore forza politica del paese.

5. Oltre al già ricordato piano regolatore e di ampliamento della legge del 1865, di fatto reinterpretato come «particolareggiato», «attuativo» o «esecutivo» – i tre aggettivi sono molti significativi! – dove trova origine l’impianto pianificatorio della legge?
Senz’altro nella pianificazione territoriale dell’epoca delle bonifiche: dapprima delle leggi Baccarini, ministro di Cavour e poi da quella del Serpieri con la bonifica integrale. Vera e propria «invenzione» del territorio. La terra sottratta alle acque, le infrastrutture tutte, le città di fondazione, la rete delle attrezzature di servizio all’uomo ed alle attività produttive.
Soprattutto le infrastrutture che, come nell’ingegneria idraulica settecentesca, costruiscono il territorio. Ce ne è ancora bisogno: la dimostrazione, nelle frequenti emergenze idrogeologiche.
La visione di Serpieri era colta ed informata, brillante sintesi dell’esperienza pianificatoria sovietica e del «new deal» roosveltiano. Mediata dalle conoscenze profonde del territorio oltre che della tecnica della pianificazione, di molti intellettuali che lavorano alla costruzione della legge tutt’altro che provinciali.

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