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Prime note sulle misure di liberalizzazione introdotte dal decreto legge n. 1/2012 in tema di compenso delle professioni regolamentate

di - 16 Ottobre 2012
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Nella prima causa, la Corte ha chiarito che la procedura di adozione di norme che, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale, fissino dei minimi e dei massimi per gli onorari, non si pone in contrasto col divieto di intese restrittive della concorrenza tra associazioni di imprese (ex artt. 10 e 81 del Trattato CE oggi artt. 4, n. 3 e 101 del TFUE), a condizione che lo Stato eserciti controlli nell’approvazione della tariffa e nella liquidazione degli onorari. Fissato tale principio ha considerato che, poiché il processo di formazione della tariffa forense italiana non è (era) completamente delegato al CNF, in quanto quest’ultimo esercita un potere di proposta mentre la tariffa è sottoposta al controllo ministeriale e varata nella forma di decreto ministeriale, si qualifica come misura statale a cui non si applica l’art. 85 del Trattato CE.
Nella sentenza Cipolla, la Corte è tornata ad occuparsi della tariffa degli onorari degli avvocati italiani valutata non solo sotto il profilo della conformità con quanto richiesto dal diritto comunitario della concorrenza ma anche dell’art. 49 del Trattato CE (ora art. 56 del trattato TFUE) che garantisce la libera prestazione di servizi.
La Corte rileva che il divieto assoluto di derogare in via pattizia, agli onorari minimi fissati da detta tariffa, previsto dalla normativa italiana rappresenta una restrizione alla libera prestazione dei servizi, in quanto impedisce ad avvocati stabiliti in uno Stato membro diverso dall’Italia di offrire servizi ad un prezzo inferiore a quello stabilito nella tariffa.
D’altra parte la Corte riconosce che tale limitazione della libera prestazione dei servizi può, in via di principio, essere giustificata qualora risponda a ragioni imperative di interesse pubblico quali la tutela dei consumatori e la buona amministrazione della giustizia, purchè sia idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non vada oltre quanto necessario al raggiungimento del suo scopo.
A sostegno della rigidità del tariffario, la Corte non ha mancato di osservare che gli avvocati dispongono di un elevato livello di competenze tecniche che i consumatori – in presenza di asimmetria informativa – non necessariamente possiedono, cosicchè questi ultimi incontrano difficoltà nel valutare la qualità dei servizi loro forniti[34].
La Corte ha fornito dei parametri di riferimento lasciando al giudice nazionale il compito di verificare se la normativa italiana di cui trattasi rispondesse effettivamente ai menzionati obiettivi e se le restrizioni da essa imposte non risultassero sproporzionate rispetto agli stessi[35].

6. Le tariffe massime: un ostacolo all’accesso al mercato dei servizi legali?
Infine, cade nel mirino della Commissione europea l’art. 2 della riforma Bersani che fa salva l’obbligatorietà delle tariffe massime a tutela degli utenti, esponendo l’Italia ad una procedura di infrazione che offre interessanti spunti di riflessione[36].
Nella controversia, la Commissione sosteneva che il sistema dei massimi tariffari dissuaderebbe i legali, stabiliti in altri Stati membri, dallo stabilirsi in Italia o dal prestarvi temporaneamente i propri servizi configurando una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi dell’articolo 43 e alla libera prestazione di servizi ai sensi dell’articolo 49.
Tale obbligo, a parere della Commissione, non sarebbe idoneo a garantire gli obiettivi di interesse generale e, in ogni caso, apparirebbe più restrittivo di quanto necessario per conseguire detti obiettivi e, pertanto, si tratterebbe di una restrizione ingiustificabile[37].
La Commissione contesta la violazione degli articoli 43 e 49 sotto tre profili: in primo luogo, l’obbligo di calcolare gli onorari in base ad un tariffario estremamente complesso genererebbe un costo aggiuntivo per gli avvocati stabiliti fuori dall’Italia[38]; in secondo luogo, l’esistenza di tariffe massime impedirebbe che i servizi degli avvocati, stabiliti in Stati membri diversi dall’Italia, siano correttamente remunerati ciò in quanto il margine di guadagno massimo è fissato indipendentemente dalla qualità del servizio prestato, dall’esperienza maturata, dalla specializzazione, dal tempo dedicato alla causa, dalla situazione del cliente e dall’eventualità che l’avvocato sia tenuto a spostarsi per lunghi tragitti[39]. Infine, secondo la Commissione, il sistema di tariffazione italiano pregiudica la libertà contrattuale dell’avvocato privando i colleghi stabiliti in altri Stati membri della possibilità di fare offerte ad hoc per situazioni e clienti particolari[40].
L’Italia non ha contestato l’esistenza delle tariffe massime ma il carattere vincolante delle medesime evidenziando come la norma di riferimento, in tema di compenso professionale è l’articolo 2233 cod. civ. che pone quale criterio principale per fissare la misura dell’onorario spettante al professionista quello dell’accordo delle parti e, solo in via sussidiaria, le tariffe professionali, gli usi e la decisione del giudice, che ha carattere residuale[41]. Inoltre, il governo italiano ha sottolineato le numerose deroghe alle tariffe: la possibilità di calcolare gli onorari su base oraria, l’abolizione del divieto di concludere il patto di quota lite, la possibilità di convenire aumenti fino al doppio o al quadruplo delle tariffe, senza che sia necessario alcun parere del consiglio dell’ordine.
La Corte disattende la posizione italiana e riconosce che dall’insieme delle norme italiane risulta ancora l’esistenza di tariffe massime, che continuano ad essere obbligatorie per il caso in cui, fra avvocato e clienti, non sia concluso un patto[42] ma prende le distanze anche dalle prospettazioni della Commissione.

Note

34.  Cfr. Punto 68 della sentenza del 5 dicembre 2006 emessa nei procedimenti riuniti C-94/04 (Federico Cipolla contro Rosaria Portolese in Fazari) e C-202/04 (Stefanano Macrino e Claudia Capodarte contro Roberto Meloni). All’origine del rinvio alla corte europea le controversie tra avvocati e clienti per il pagamento degli onorari. La Corte d’Appello di Torino, con ordinanza del 4 febbraio 2004, nella causa pendente fra Federico Cipolla e Rosaria Portolese in Fazari, aveva sottoposto alla Corte di giustizia delle Comunità europee le seguenti questioni pregiudiziali: 1. se il principio della concorrenza del diritto comunitario, di cui agli artt. 10, 81 e 82, Trattato C.E. si applichi anche all’offerta dei servizi legali; 2. se detto principio comporti, o meno, la possibilità di convenire fra le parti la remunerazione dell’avvocato, con effetto vincolante; 3. Se, comunque, detto principio impedisca, o meno, l’inderogabilità assoluta dei compensi forensi. La Corte rimette al giudice nazionale il compito di verificare se la normativa italiana che vieti in maniera assoluta di derogare convenzionalmente agli onorari minimi determinati da una tariffa forense alla luce delle sue concrete modalità di applicazione, risponda realmente agli obiettivi della tutela dei consumatori e della buona amministrazione della giustizia, che possono giustificarla, e se le restrizioni che essa impone non appaiano sproporzionate rispetto a tali obiettivi. In tale valutazione invita il giudice a considerare l’asimmetria informativa che esiste per esempio tra avvocato e il suo cliente.

35.  Alla produzione giurisprudenziale ha fatto seguito anche un intensa attività di approfondimento. Nella Relazione sulla concorrenza nei servizi professionali presentata dalla Commissione il 9 febbraio 2004 e nel seguito della suddetta Relazione presentato il 5 settembre 2005, [Com (2005)405], si afferma che gli Stati membri dovrebbero avviare un processo di revisione delle restrizioni esistenti, con riferimento sia alle tariffe fisse, sia alle limitazioni della pubblicità. In esito a tale relazione, il Parlamento europeo, il 12 ottobre 2006, ha approvato una risoluzione con la quale, tra l’altro, si invita la Commissione ad approfondire l’analisi delle differenze esistenti – in riferimento all’apertura del mercato – tra le diverse categorie professionali di ciascuno Stato membro, e, sul presupposto che l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime e il divieto di pattuire compensi legati al risultato raggiunto potrebbero costituire un ostacolo alla qualità dei servizi e alla concorrenza, si invitano gli Stati membri ad adottare misure meno restrittive e più adeguate rispetto ai principi di non discriminazione, necessità e proporzionalità. Con specifico riguardo alle professioni legali ed all’interesse generale al funzionamento dei sistemi giuridici, il Parlamento europeo ha adottato, il 23 marzo 2006, una risoluzione, nella quale si riconosce che «le tabelle degli onorari o altre tariffe obbligatorie» non violano gli artt. 10 e 81 del Trattato, purché la loro adozione sia giustificata dal perseguimento di un legittimo interesse pubblico.

36.  Cfr. Sentenza 29 marzo 2011, n. C- 565/08, Commissione c. Repubblica italiana in in Foro amm. CdS, 2011, 775.

37.  Secondo la giurisprudenza comunitaria le misure restrittive all’esercizio delle libertà fondamentali garantite dal trattato possono essere giustificate in presenza di quattro condizioni: che siano applicate in modo non discriminatorio, che rispondano a motivi imperativi di interesse pubblico, che siano idonee a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e che non vadano oltre quanto necessario per il relativo raggiungimento.

38.  Cfr. punto 29 della sentenza cit. supra.

39.  Cfr. punto 30 della sentenza.

40.  Cfr. punto 31 della sentenza.

41.  cfr. Cass. civ. sez. II , 29/01/2003, N. 1\317 in Giust. Civ. Mass., 2003, 216; per la problematica in generale si veda Ticozzi M., Autonomia contrattuale, professioni e concorrenza, op.cit., 73 ss.

42.  Cfr. punto 41 della sentenza.

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