La gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica e la concorrenza: una storia infinita

Il referendum abrogativo dell’art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 e la più recente sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 2012 hanno determinato una brusca frenata o forse addirittura una inversione di marcia rispetto alla direzione pro concorrenziale lungo la quale si era incamminata negli ultimi anni la disciplina dei servizi pubblici locali. La sensazione è anzi che ci si trovi in una situazione di stallo che si protrarrà per un tempo non prevedibile.
I pochi dati certi in questa materia sono, in primo luogo, che i servizi pubblici locali rappresentano una quota importante dell’economia nazionale per fatturato e occupazione complessiva assolvendo anche un ruolo anticongiunturale in controtendenza rispetto alla recessione in atto[1]. Inoltre essi promuovono una maggiore omogeneità delle condizioni di vita e di contesto produttivo nelle diverse aree del paese ed elevano la qualità della vita dei cittadini[2].
Il dissenso nel dibattito politico istituzionale emerge non appena si passa a considerare le modalità concrete di disciplina dei servizi pubblici locali. Si scontrano, infatti, la visione più liberale tendente al ridimensionamento della sfera pubblica e, all’opposto, quella che vede nell’intervento pubblico anche gestorio la migliore garanzia per la collettività. La prima confida nelle potenzialità del mercato e della gestione imprenditoriale privata. La seconda, invece, accentua la connotazione sociale dei servizi ipotizzando che una gestione pubblica che, senza un vincolo stringente del profitto, garantisca meglio l’universalità e l’accessibilità.
Dopo quasi un secolo di gestioni pubbliche ispirate al cosiddetto socialismo municipale, negli anni ’90 prende avvio un processo di trasformazione condotto a più riprese dal legislatore.
È in questo periodo che i servizi pubblici, soprattutto quelli nazionali, vengono attratti nell’ordinamento comunitario e assoggettati alle regole del mercato e alla concorrenza. I servizi locali, abituati a considerare le vecchie aziende municipalizzate come una costola del Comune inseparabile dal corpo principale, si sono dimostrati più refrattari alle politiche di liberalizzazione e di privatizzazione[3]. Molti commentatori hanno messo in evidenza come il processo di riforma dei servizi pubblici locali, sia contrassegnato da continue modifiche legislative, sia stato incerto, incompiuto, contraddittorio, ecc.[4].
In ogni caso, l’attivismo legislativo degli ultimi anni non è stato in grado di superare assetti di mercato di fatto monopolistici[5]. La concorrenza “nel mercato” è stata pressoché trascurata consentendo la conservazione di un assetto di mercato organizzato secondo la suddivisione amministrativa di base comunale, piuttosto che ambiti territoriali economicamente efficienti.
Con riferimento alla concorrenza “per il mercato” si sono registrati andamenti legislativi che hanno avvalorato ora la gestione imprenditoriale privata tramite gara (si pensi alla riforma avvenuta con l’art. 35 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, in base al quale il sistema di gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica era incentrato esclusivamente sul modello societario che, da possibile tipologia organizzativa per l’ente locale, era divenuto scelta obbligata), ora il ritorno alla gestione pubblica in house in alternativa a quella privata tramite gara (ciò è avvenuto con l’art. 14 del d.l. 30 settembre 2004, n. 269 – conv. con legge 24 novembre 2003, n. 326 – che ha riformato nuovamente il sistema di gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica).
Criticità sono tutt’ora rinvenibili, inoltre, nella dimensione regolatoria dove la commistione di ruoli in capo ai comuni (concedenti, regolatori, proprietari delle aziende, gestori del servizio) ha creato un conflitto di interessi.
Ai limiti interni alla gestione dei servizi pubblici locali si è aggiunto il limite esterno costituito dai vincoli di finanza pubblica via via più stringenti in considerazione dell’aggravarsi della crisi del debito pubblico, alla quale peraltro le falle antieconomiche della gestione dei servizi pubblici hanno in passato contribuito in modo considerevole[6].
A questo stato di cose, il legislatore ha reagito, dapprima con l’art. 23-bis d.l. 25 giugno 2008 n. 112 (conv. con legge 6 agosto 2008, n. 133) e con il suo regolamento attuativo (d.P.R. 7 settembre 2010 n. 168) e poi con altri interventi normativi (art. 4 del d.l. 13 agosto 2011 n. 138/2011, conv. con legge 14 settembre 2011, n. 148; la legge 12 novembre 2011, n. 183 – cd. legge di stabilità per il 2012; la successiva produzione normativa del Governo Monti).
In particolare l’art. 23-bis e il suo regolamento attuativo – pur con qualche zona d’ombra – avevano introdotto misure efficaci sia sul piano della concorrenza “nel mercato” che “per il mercato”. La difficile marcia verso l’apertura del mercato dei servizi pubblici locali a una maggior concorrenza, a parte alcune critiche e l’esigenza di qualche affinamento, iniziava così a trovare consensi più ampi tra i commentatori[7]. In modo forse troppo ottimista si parlava di “stabilità”[8] della nuova disciplina e dell’avvio di una “nuova era” dei servizi pubblici locali[9].
Una battuta d’arresto è però arrivata con il referendum del giugno 2011, promosso con lo slogan “contro l’acqua privata”, che ha in realtà investito l’interna disciplina sui servizi pubblici locali di rilevanza economica contenuta nell’art. 23-bis[10].
A poco è valso il tentativo del legislatore di dare un’interpretazione restrittiva all’esito referendario, limitandone la portata demolitoria al solo sistema idrico e riproponendo invece nell’art. 4 del d.l. n. 138/2011 la residua disciplina contenuta nell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112/2008. Questo tentativo, peraltro, si era reso necessario poiché, nel frattempo, l’esigenza di liberalizzare in modo più deciso il settore è stata invocata dalle autorità comunitarie, e in particolare dalla Banca centrale europea con la lettera Draghi-Trichet inviata al governo italiano nell’estate del 2011 in un momento drammatico di bufera dei mercati internazionali che stava investendo il nostro Paese[11].

La Corte costituzionale, infatti, con sentenza del 20 luglio 2012, n. 199 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina sui servizi pubblici locali contenuta nell’art. 4 d.l. n. 138/2011 per violazione del divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost.
Per quanto lineare la pronuncia della Corte si presta a qualche critica. In particolare quest’ultima appare eccessiva nella sua portata demolitoria, colpendo norme che erano estranee alla ratio del quesito referendario, ravvisabile nell’intento di escludere l’applicazione delle norme contenute nell’art. 23-bis, che limitavano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare la gestione in house. Analogamente è apparso ingiustificato rispetto alle norme introdotte successivamente e che, dunque, non integrano il divieto di ripristino della normativa abrogata in via referendaria.
Dopo la pronuncia della Corte costituzionale ritornano attuali le preoccupazioni espresse da alcuni commentatori alla vigilia della consultazione referendaria. In considerazione delle difficoltà finanziarie degli enti pubblici, l’unico modo per sperare in una espansione – quantitativa e qualitativa – dei servizi pubblici locali sarebbe stato il perseguimento delle politiche di liberalizzazione e l’apertura del mercato ai privati in nome dell’efficienza anche al fine di avviare una nuova stagione di investimenti sulle infrastrutture anche attraverso il contributo dei capitali privati[12].
Ci si deve pertanto chiedere, a questo punto, se e in che modo ci potrebbe essere spazio per un nuovo intervento del legislatore che tenga conto di siffatte preoccupazioni.
L’unica certezza è l’applicazione della disciplina pro concorrenziale “minima” derivante dal diritto comunitario e, dunque, innanzitutto l’affidamento tramite gara a terzi. In alternativa sarà possibile l’affidamento diretto a società mista con socio privato scelto tramite gara a “doppio oggetto”. L’in house, pur rimanendo ipotesi eccezionale di affidamento del servizio, sarà consentito senza i vincoli del recente passato ma solo al verificarsi delle condizioni previste dall’ordinamento comunitario: totale partecipazione pubblica, “controllo analogo” e attività “prevalente” a favore dell’ente pubblico controllante.
Su tutto il resto regna l’incertezza. Si potrebbe provare anzitutto a ritenere già mutato il quadro “politico” e di “fatto” rispetto all’entrata in vigore dell’art. 4 del d.l. n. 138/2011 e, dunque, considerare già maturi i tempi per una riproposizione della normativa abrogata in via referendaria. Anche perché – alla luce degli stretti vincoli di bilancio imposti a livello comunitario – la riduzione del debito richiede ancor più politiche di liberalizzazione (per promuovere la crescita) e di privatizzazione (per ottenere anche nel breve periodo le risorse necessarie ad abbatterlo).
Se si ritenesse impraticabile un nuovo intervento da parte del legislatore che riproponga nuovamente nella sua interezza, anche se magari con qualche variazione, l’art. 4 del d.l. n. 138/2011, si dovrebbe comunque verificare se e quali parti della precedente disciplina possano essere comunque riproposte, senza incorrere nuovamente nell’incostituzionalità.
A tal riguardo il principio che dovrebbe guidare il legislatore nell’ambito di un nuovo intervento legislativo, pur con qualche rischio, dovrebbe essere quello di riproporre le norme dell’art. 4 del d.l. n. 138/2011 estranee alla ratio del quesito referendario (priorità della concorrenza “nel mercato”, disciplina della gara per l’affidamento a terzi o per la scelta del socio privato, predefinizione degli obblighi di servizio pubblico e relativi costi, ecc.).
Analogamente potrebbero essere riproposte le norme non precedentemente riscontrabili nell’art. 23-bis (come per esempio quelle contenute nella legge di stabilità 2012 sul miglioramento della qualità dei servizi). Per tali norme, infatti, non si pone un problema di violazione dell’art. 75 Cost., poiché non esistevano nel quadro normativo caducato per effetto del referendum.

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Note

1.  Si pensi, a titolo di esempio, che negli ultimi cinque anni le principali industrie del settore (idrico, smaltimento rifiuti, trasporto pubblico locale, gestione della sosta, distribuzione di energia e gas) hanno registrato trend di crescita nei ricavi (+9,5%), nei livelli occupazionali (+5%) e negli andamenti degli investimenti medi annui (+7%). Il settore ha pertanto esercitato un ruolo anticongiunturale, in controtendenza rispetto agli effetti della recessione sulle principali imprese industriali, a causa delle caratteristiche dei relativi servizi (volti a soddisfare bisogni essenziali dei cittadini la cui domanda è rigida al prezzo e al reddito disponibile) e della struttura patrimoniale delle imprese (concentrata più su impieghi produttivi che su investimenti finanziari) (fonte: AGCM, Relazione annuale per il 2011, 31 marzo 2012, pubblicata su www.agcm.it).

2.  Per la specificazione del ruolo dei servizi pubblici locali nel senso indicato cfr. C. De Vincenti, Governo pubblico e mercato nei servizi pubblici locali, in I servizi pubblici locali tra riforma e referendum, a cura di ASTRID, 2011.

3.  Cfr. in questo senso G. Napolitano, Regole e mercato nei servizi pubblici, 2005, pp. 77.

4.  Cfr. G. Napolitano, Regole e mercato nei servizi pubblici, cit.; L. Ammanati, I servizi pubblici locali: quale concorrenza, come e quando?, in Le virtù della concorrenza (a cura di C. De Vincenti e A. Vigneri), 2006, pp. 371 e ss.; A. Pezzolli, Gare e servizi pubblici: quali problemi per la concorrenza?, ivi, pp. 385 e ss.; L. Ammanati – F. Di Porto, Il caso italiano, ovvero dell’infinito conflitto tra monopolio e liberalizzazione, in Concorrenza e sussidiarietà nei servizi pubblici locali (a cura di L. Ammanati – F. Di Porto), 2007, pp. 57 e ss.; G. Di Gaspare, Monopolio e competizione dei servizi pubblici locali nella prospettiva comunitaria, ivi, pp. 165 e ss.; tra le pubblicazioni più recenti cfr. G. Di Gaspare, Servizi pubblici locali in trasformazione, 2010; M. Bianco – P. Sestito, I servizi pubblici locali, 2010; F. Cintioli, Concorrenza, istituzioni e servizio pubblico, 2011; cfr. anche il volume di ASTRID che raccoglie gli scritti di C. De Vincenti e A. Vigneri, I servizi pubblici locali tra riforma e referendum, 2011.

5.  Cfr. C. De Vincenti, Governo pubblico e mercato nei servizi pubblici locali, cit., p. 29 -30.

6.  Cfr. ancora Cfr. C. De Vincenti, op. ult. cit., p. 29.

7.  Cfr. in questo senso, tra gli altri, F. Bassanini, Introduzione, in I servizi pubblici locali tra riforma e referendum, cit., p. 9.

8.  In questo senso cfr. A. Capitano, Verso i servizi pubblici locali “stabili”?, in www.dirittodeiservizipubblici.it

9.  Questo è stato il titolo del convegno organizzato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato il 5 luglio 2012.

10.  L’effetto abrogativo dell’art. 23-bis e, dunque, del suo regolamento di attuazione (d.P.R. n. 168/2010) è riconducibile al d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113 che ha preso atto dell’esito del referendum.

11.  Dopo avere in generale auspicato, ai fini della crescita, l’aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, e il miglioramento della qualità dei servizi pubblici al punto 1 lett. a) della lettera c’è un riferimento espresso ai servizi pubblici locali: “A comprehensive, far-reaching and credible reform strategy, including the full liberalisation of local public services […] is needed. This should apply particularly to the provision of local services through large scale privatizations“.

12.  Cfr. F. Bassanini, Introduzione, in I servizi pubblici locali tra riforma e referendum, op. cit., p. 15-16. Cfr. C. De Vincenti, Governo pubblico e mercato nei servizi pubblici locali, op. cit., p. 27.