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Riforme costituzionali e principi in tema di sfera pubblica e di interessi privati

di - 1 Agosto 2012
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La funzione di garanzia della previsione della procedura di revisione costituzionale non avrebbe neppure bisogno di essere sottolineata nel quadro delle enunciazioni della costituzione italiana, perché essa risulta già evidenziata dall’intitolazione della seconda sezione del titolo VI Cost., se non fosse per il deprecabile formalismo di alcuni scrittori che hanno creduto di argomentare dal fatto che, avendo la revisione costituzionale ad oggetto lo stesso testo della Costituzione, non sarebbe “scientificamente” corretto considerarla una garanzia del mantenimento dei principi supremi della costituzione. Si dovrebbe evitare invece che la procedura di revisione si trasformi in uno strumento burocratico, di cui i governi possano avvalersi tutte le volte in cui dispongano di maggioranze pronte a approvare, senza preoccuparsi di approfondire il discorso sulla condivisione dei valori costituzionali da parte della collettività. Occorrerebbe anche evitare l’uso propagandistico della revisione costituzionale, attirando l’attenzione degli elettori verso tematiche evanescenti, ma prive di reale significato innovatore, nelle quali il proponente fa bella mostra di sostantivi o aggettivi apparentemente rivolti a denunciare carenze e mali effettivi della società e delle istituzioni italiane, ma senza indicare veri e propri strumenti e congegni adeguati a intervenire almeno sui più gravi fenomeni di malcostume.
Suscita perplessità anche l’uso che si tende a fare della revisione costituzionale per mutare l’ordine dei valori repubblicani, invocando un adeguamento ai principi del diritto pubblico europeo, un diritto che peraltro è ben lungi dall’essersi consolidato ed aver raggiunto una consistenza sicura, perché la discussione dei principi dell’ordine costituzionale europeo dovrebbe piuttosto costituire l’occasione per aprire un effettivo dibattito sui principi essenziali e irrinunciabili degli ordini costituzionali nazionali e sovranazionali.
In questa sede vorrei accennare soltanto al c.d. “pacchetto” di modifiche della Costituzione italiana in tema si libertà d’iniziativa privata e di ridefinizione dei rapporti tra interesse privato e impegno dei poteri pubblici, perché si tratta, a mio avviso, di un caso esemplare di abuso della potestà di revisione costituzionale, utilizzata al fine di realizzare un intervento diretto a ridefinire tutto l’ambito dei valori costituzionali che investono i compiti delle amministrazioni pubbliche, i principi dell’organizzazione amministrativa e quelli in tema di servizi pubblici, oltre che, più o meno indirettamente, un’ampia serie di altri principi in tema di diritti sociali, sussidiarietà e interpretazione della costituzione. Quel che appare inammissibile è l’uso della revisione per realizzare non una qualunque riforma istituzionale, ma una trasformazione completa dei punti cardinali in tema di rapporti tra sfera pubblica e interessi privati, prevista dalla costituzione e condivisa dall’opinione pubblica[1].
L’idea che i mali della società italiana sarebbero sanabili solo con il ricorso ad alcune grandi riforme costituzionali, realizzate sulla base di una severa disciplina di partito, più che attraverso un approfondimento delle cause della crisi italiana e delle effettive necessità, meriterebbe una discussione più attenta. E’ stato invece diffuso con insistenza dai mezzi di comunicazione di massa il messaggio che, solo attraverso le agognate “riforme istituzionali”, che cambierebbero il volto della Costituzione italiana, potrebbe portarsi avanti quel processo di integrazione europea e di sviluppo economico del Paese nel quale sono riposte molte speranze dell’opinione pubblica. La scrittura di nuove puntuali disposizioni costituzionali di principio, dovrebbero dare espressione ai nuovi valori politici, più aderenti alle dinamiche dell’economia e della finanza e più in linea con i principi costituzionali dell’Unione europea. In effetti, il processo di revisione dovrebbe procedere in senso opposto, e investire i Trattati istitutivi dell’Unione per rendere le enunciazioni di principi costituzionali comuni più aderenti alle effettive tradizioni politiche europee e ai principi costitutivi enunciati dalle singole costituzioni nazionali (Cfr. R. De Liso).
Non si tratta di negare che le costituzioni possano invecchiare e che possa essere anche urgente procedere ad una revisione del testo di esse, quando se ne palesi l’effettiva necessità, ma questo non significa che la revisione costituzionale debba trasformarsi nello strumento per affievolire tutte le esigenze dei soggetti più deboli a tutto vantaggio di un ristretto numero di privilegiati. Non è che si debba rinunciare a ogni riforma costituzionale al livello nazionale, e meno che mai escludere un maggiore impegno dei pubblici poteri nella tutela dei diritti sociali, ma le riforme dovrebbero essere realizzate attraverso una presa di coscienza delle effettive carenze, attraverso un maggiore coinvolgimento dell’opinione pubblica e soprattutto quando i protagonisti delle innovazioni legislative siano in possesso di una cultura adeguata alla complessità dei problemi che intendono affrontare. A testimoniare il grado di incertezza raggiunto dalla scienza della legislazione nel nostro tempo, vale la pena di ricordare un testo normativo, la legge 24 marzo 2012 n. 27 che ha convertito in legge ordinaria un precedente decreto legge intitolato “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”, che rappresenta un indice del livello giuridico e tecnico degli uffici legislativi del precedente governo[2].

2. – Considerazioni sulla c.d. “costituzione economica” nel quadro dalla costituzione repubblicana. La concezione unitaria di cui sono espressione le singole proposte di revisione costituzionale presentate dal governo Berlusconi – tuttora all’esame del parlamento, insieme ad altre che procedono separatamente e, a quel che sembra, più speditamente – si presentano come ispirate all’idea di ammodernare la “parte economica” della Costituzione italiana, in modo da riconoscere e garantire più efficacemente il ruolo delle imprese private, riducendo nettamente le possibilità di intervento dei pubblici poteri al fine di coordinare e indirizzare gli sviluppi dell’economia e di ridefinire anche nel loro contenuto i poteri e i compiti dello Stato e degli enti pubblici nei confronti delle imprese private. A tale prospettiva di intervento sul testo costituzionale si contrappone quindi idealmente l’orientamento della dottrina che auspica un rafforzamento delle previsioni costituzionali di possibili interventi pubblici nell’ambito dell’economia e della finanza private (Amirante, Azzariti, Ferrara).

Note

1.  Le altre riforme costituzionali, attualmente all’esame del Parlamento, investono soprattutto la parte organizzativa della Costituzione italiana, a proposito di esse, mi limito a segnalare, in questa sede, i rischi connessi alle anomalie procedimentali, alle semplificazioni e alla accelerazione impressa alla procedura di revisione costituzionale.

2.  Vale la pena di ricordare che tale decreto legge prevede, senza altre precisazioni, l’abrogazione di tutte “le norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi attestati di assenso dell’amministrazione comunque denominati” e quella delle “norme che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati e non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, per l’avvio di un’attività economica e non giustificati da un interesse generale costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario, nel rispetto del principio di proporzionalità” nonché di quelle “che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli ovvero non adeguati o non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato, operanti in contesti e condizioni analoghi, ovvero impediscono, limitano o condizionano l’offerta di prodotti o servizi al consumatore, nel tempo nello spazio o nelle modalità, ovvero alterano le condizioni di piena concorrenza tra gli operatori economici oppure limitano o condizionano le tutele dei consumatori nei loro confronti“. Di fronte a disposizioni di così ardua e difficile interpretazione è previsto inoltre un intervento del governo nell’esercizio di potere regolamentare per “individuare le attività per le quali permane l’atto preventivo di assenso dell’amministrazione, e disciplinare i requisiti per l’esercizio delle attività economiche, nonché i termini e le modalità per l’esercizio dei poteri di controllo dell’amministrazione, individuando le disposizioni di legge e regolamentari dello Stato che, ai sensi del comma 1 vengono abrogate a decorrere dalla data di entrata in vigore dei regolamenti stessi“; è previsto peraltro un parere dell’Autorità garante della concorrenza che deve intervenire nel termine di trenta giorni, altrimenti “s’intende rilasciato positivamente“. E’ appena il caso di osservare come restino tutt’altro che chiari gli effetti della delegificazione disposta da tale legge e l’interpretazione delle clausole dirette a guidare l’esercizio del potere regolamentare.

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