Alcune recenti tendenze del diritto amministrativo*

*Trascrizione, rivista e corretta, della Relazione svolta il 19 marzo 2012, nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” di Roma, in occasione della presentazione degli Scritti in onore del prof. Alberto Romano.

1.- Per illustrare compiutamente le nuove tendenze e le recenti innovazioni nel diritto amministrativo sarebbe necessario avere chiaro il quadro sistematico degli apporti legislativi, dottrinali e giurisprudenziali, intervenuti, in corso o previsti per l’intera materia; quadro che francamente non ho in testa, né credo che averlo sia nelle mie concrete possibilità, per cui mi limiterò a svolgere alcune osservazioni, parziali e (forse anche) disordinate.
Tra le direttrici recenti del diritto amministrativo mi sembrano rilevanti le seguenti: la prima riguarda il flusso e riflusso tra diritto pubblico e diritto privato, con il risultato finale, aggiungo, di forme miste, o anfibie, o di diritto speciale, né decisamente pubblico, né chiaramente privato, o insieme, per innesti, pubblico e privato; la seconda attiene alla revisione del sistema delle invalidità, con non lievi né utili complicazioni sui piani sostanziale e processuale; la terza direttrice concerne il vano, almeno finora, inseguimento dell’efficienza della pubblica amministrazione, con marcate e ricorrenti oscillazioni tra la riduzione (o la diversa disciplina) dell’intervento pubblico, con l’eventuale previsione di sanzioni per l’amministrazione inefficiente e i funzionari neghittosi, e la liberalizzazione vera e propria delle attività private, in particolare di quelle imprenditoriali

2.- Riscoperta del diritto privato per la disciplina dell’amministrazione.
Sul piano delle premesse ideologiche è stata da tempo, ripetutamente ed autorevolmente, affermata la prevalenza, non saprei dire se di carattere etico o politico o semplicemente utilitaristico, del consenso sull’autorità, delle fattispecie consensuali sopra quelle autoritative.
Sul piano operativo, negli ultimi decenni abbiamo assistito alla privatizzazione sia di figure soggettive sia di modi di svolgimento dell’attività amministrativa: la trasformazione delle aziende, vuoi municipalizzate vuoi autonome statali, in enti pubblici economici, prima, e in società per azioni, dopo; l’applicazione all’impiego presso la totalità delle pubbliche amministrazioni, e salve tassative eccezioni, della disciplina del lavoro privato; la creazione di società per azioni per la gestione di servizi pubblici e per lo svolgimento di (sole) funzioni sicuramente pubbliche; la qualificazione di provvedimenti tradizionalmente pubblici, in specie concessori, in termini di negozi privati (contratti).
Quali sono stati i risultati di tali profonde modificazioni, che, nel convincimento degli autori e dei loro sostenitori, avrebbero dovuto imprimere una svolta nella affannosa e (finora) sterile ricerca della efficienza dell’apparato amministrativo?

3.- Quanto ai soggetti, non si può negare che sia stata operata una forzatura dei modelli classici, che erano (e sono, fino a prova contraria) modelli sperimentati e, se non altro per questo, razionali.
Prendiamo ad esempio il modello della società per azioni.
Nel panorama della organizzazione pubblica sono ormai numerose le società per azioni che, per i loro caratteri strutturali e funzionali, la dottrina, con l’autorevole avallo della Corte costituzionale, considera, senza alcuna esitazione, (figure appartenenti al genere degli) enti pubblici; abbiamo poi società private, ma soggette, in forza della partecipazione al loro capitale di enti pubblici, a disciplina peculiare, diversa, in parte, dalla disciplina codicistica, cosicché sono da considerare, con tutto ciò di indefinito che si annida in questa qualificazione, società di diritto speciale; sussistono, perfino, le c.d. società in house, che sono una sorta di simulacro di società, le quali anzi, per poter godere dei vantaggi per esse previsti, devono essere società soltanto in apparenza, prive di qualsiasi autonomia rispetto agli enti partecipanti.
Ebbene, nelle società-enti pubblici si produce una netta scissione tra la forma e la sostanza; nelle società di diritto speciale si ha una disciplina differenziata da quella tipica sulla composizione degli organi, sui rapporti di lavoro con il personale dipendente, quanto meno per quanto riguarda i modi di assunzione, sul o sui tipi di responsabilità degli amministratori, sulle forme dei controlli, e così via; quanto alle società in house, è fortemente dubbio che esse possano inquadrarsi nel modello societario.
I modelli classici sono stati disarticolati e modificati nella struttura e, soprattutto, nella funzione. Di per sé questa operazione non avrebbe nulla di negativo; ove, peraltro, fossero stati creati nuovi modelli maggiormente (rispetto ai modelli classici) adatti al raggiungimento degli scopi per i quali sono stati pensati. Ma è così? A me non sembra; sono convinto del contrario.

4.- Passando alle modalità di svolgimento delle attività amministrative, va rammentato (e posto in adeguato rilievo) che l’attività di contrattazione da parte delle amministrazioni pubbliche è sottoposta, invece che alla disciplina semplice, chiara, ormai sufficientemente definita nei suoi valori e nei suoi contenuti, del codice civile, alla disciplina complessa, di sterminata estensione, continuamente modificata secondo esigenze più o meno reali e razionali, del codice e del regolamento dei contratti pubblici.
La disciplina speciale dei contratti pubblici, che pure ha dietro di sé una lunga tradizione, ed è “assistita” dalla esperienza europea, ha comportato (e comporta) complicazioni evidenti sul piano sostanziale, dove, nonostante l’utilizzo improprio di categorie di teoria generale (come, ad esempio, della nozione di efficacia), non è affatto assicurato né che l’amministrazione ottenga le condizioni contrattuali migliori possibili, né che venga garantito il pieno rispetto delle regole della concorrenza; e con altrettali, se non più gravi, complicazioni sul piano processuale, ove è stata introdotta una disciplina derogatoria rispetto ai principi del processo amministrativo, con il potenziamento dei poteri “discrezionali” del giudice amministrativo, e con la conseguente diminuzione della intangibilità del rapporto negoziale.

5.- Quanto alla privatizzazione del rapporto di lavoro, è in primo luogo da porre in evidenza una conseguenza, probabilmente non voluta (e forse nemmeno prevista), che essa ha determinato sul piano costituzionale, ossia la totale elisione della competenza legislativa regionale in materia di disciplina del rapporto di impiego con la Regione e con gli enti regionali.
Trasferita sotto l’usbergo della materia “ordinamento civile”, la disciplina del rapporto d’impiego con tutti gli enti pubblici è stata tolta alle Regioni e trasferita allo Stato.
Trascurando altre (tutt’altro che marginali) complicazioni, connesse con lo spostamento della giurisdizione sulle controversie di lavoro dal giudice amministrativo al giudice ordinario, mi limito a rilevare che, sul piano dei costi economici, la privatizzazione ha comportato un’altra conseguenza che, probabilmente, non era stata adeguatamente valutata: la regola della stipulazione dei contratti individuali di lavoro ha comportato che i dipendenti (in genere, delle alte fasce dirigenziali) che, per meriti propri, per meriti dei loro predecessori, o per amicizie altolocate, hanno un forte potere contrattuale, hanno potuto ottenere trattamenti retributivi di misura sproporzionata rispetto alla generalità dei dipendenti pubblici, come si è appreso solo recentemente dalla stampa; retribuzioni che, con scarsissima giustificazione, hanno raggiunto e superato il doppio del trattamento del Primo Presidente della Corte di Cassazione, tradizionalmente al vertice della piramide del personale pubblico.
Si sono in tal modo realizzate sperequazioni ed ingiustificate difformità di trattamento che fanno rimpiangere il vecchio, rigido ma razionale, ordinamento per gradi dell’impiego statale.

6.- Questo entusiasmo per le discipline, o le tecniche, privatistiche ha trascurato di valutare con la dovuta attenzione, a mio avviso, due argomenti fondamentali.
Il primo è il seguente: un soggetto privato è (può essere) veramente tale se può effettivamente autofinanziare la propria attività (in particolare, la propria attività imprenditoriale). Si badi che il problema non attiene all’apporto di risorse pubbliche al capitale di società private, elemento che, nel 2003, ha preso in considerazione la Corte costituzionale ai fini del controllo della Corte dei conti, e che (forse) può giustificare la responsabilità contabile degli amministratori; attiene alla corrispondenza tra costi e ricavi impiegati e provenienti dall’attività espletata, all’equilibrio del bilancio: se non è concretamente possibile, per i caratteri propri (naturali o giuridici) dei (di alcuni) servizi pubblici, che tale circolo virtuoso si realizzi, ossia che il soggetto privatizzato ricavi dall’espletamento dell’attività che svolge il suo finanziamento, credo che non vi sia il presupposto di fatto (economico) perché sia razionalmente giustificabile la privatizzazione dei soggetti gestori di servizi pubblici.
Allo scopo di illustrare adeguatamente il quadro, conviene soffermarsi sulla esperienza concreta della c.d. esternalizzazione dei servizi pubblici locali, con il loro affidamento a società per azioni a partecipazione pubblica. Ove si tenga conto dello stato in cui esse, nella loro maggioranza, versano, si può affermare che le società di gestione, a partecipazione pubblica, sono servite semplicemente, o almeno per lo più, per consentire di assumere dipendenti senza concorso, per moltiplicare i rapporti di consulenza, e per chiamare come amministratori personaggi appartenenti, in un modo o nell’altro, al mondo politico e per retribuirli adeguatamente.
Ancora meno rassicurante in concreto, oltre che assai poco giustificabile in astratto è la c.d. esternalizzazione di vere e proprie funzioni pubbliche, sia da parte dello Stato sia da parte di Comuni; fenomeno che ha conosciuto un periodo di grande successo, a volte per opera altre volte fuori dalle previsioni del legislatore, con conseguenze negative, in alcuni casi catastrofiche, sulla spesa pubblica, determinate dall’aumento esponenziale del personale addetto, dato che i dipendenti, statali o comunali, addetti all’espletamento delle funzioni esternalizzate non sono stati (tutti) trasferiti alle società né sono stati licenziati.

7.- Il secondo argomento che desidero affrontare è il seguente: il consenso, l’accordo tra i portatori degli interessi coinvolti in una determinata vicenda di dinamica giuridica, è una strada indubbiamente di grandissimo prestigio, costituisce in via generale il modo ottimale della produzione giuridica, ma essa è percorribile da parte dei poteri pubblici soltanto a due condizioni: la prima è che si dia piena soddisfazione agli interessi delle controparti private con cui l’amministrazione si trova a negoziare, o che queste siano disposte a rinunciarvi. Tanto è sufficiente per escludere dall’attività consensuale l’intera categoria degli interventi ablatori.
Tuttavia anche in relazione agli interventi pubblici favorevoli per gli interessi privati si pongono problemi di non facile soluzione: bisogna infatti rinunciare al rispetto del principio della imparzialità dell’amministrazione, perché, nel caso (normale) che siano più di uno i privati i cui interessi possono essere soddisfatti dall’accordo con l’amministrazione, se ne deve comunque scegliere uno; si è costretti quindi, per ragioni di giustizia distributiva, a recuperare forme e regole tipiche del diritto pubblico.
Se tutto ciò non viene tenuto in considerazione, non si realizza affatto l’estensione del diritto privato all’amministrazione pubblica, ma si crea una sorta di diritto misto (o ambiguo), o, se si preferisce, di diritto speciale, che in realtà è un diritto soltanto simile al diritto privato vero e proprio, in quanto qualificato dal forte innesto di istituti pubblicistici.
E’ utile una simile traiettoria? L’esperienza degli accordi procedimentali sembra dimostrare il contrario: essi sono sostanzialmente rimasti sulla carta.
Io credo che la strada consensuale sia tecnicamente possibile ed utilmente percorribile solo quando è l’amministrazione a doversi assicurare la collaborazione dei privati, come si verifica nel caso dei contratti pubblici; ma, in questo caso, sarebbe opportuno discostarsi il meno possibile dalla disciplina generale dei singoli contratti: di quel tanto che consenta il rispetto dei principi che reggono, per disposto costituzionale e per diritto europeo, l’attività della pubblica amministrazione.

8.- Passiamo a vedere, rapidamente, che cosa, dopo l’inizio del millennio, è stato introdotto in tema di invalidità dei provvedimenti amministrativi.
Com’è prevedibile per chi conosce i miei radicati convincimenti, i due tratti innovativi sui quali intendo soffermarmi sono, da un lato, l’introduzione della nullità e, dall’altro, il trattamento dei vizi procedimentali. Non mi riferisco ai vizi formali, per i quali la riduzione dell’attitudine invalidante è, a mio avviso, giustificata, e d’altronde non è nemmeno una innovazione, bensì la traduzione in norma di legge del costante e risalente orientamento della giurisprudenza amministrativa. Mi riferisco esclusivamente ai vizi procedimentali propriamente detti.
Sanzione della nullità: era necessario, o semplicemente opportuno, introdurla nel sistema delle invalidità del provvedimento amministrativo?
Se si pensa che per più di un secolo se ne era fatto a meno, senza che fosse minimamente avvertita la sua mancanza, si può tranquillamente esporre l’idea che averla (tardivamente) introdotta non sia stato rispondere a ragioni pressanti o largamente avvertite in dottrina o in giurisprudenza.
Va rammentato che la dottrina non ha mai posto in dubbio che il sistema delle invalidità centrato sulla sola annullabilità fosse per qualche verso carente; anzi lo ha ritenuto pienamente idoneo e armonico con le caratteristiche strutturali e funzionali del provvedimento amministrativo.
Va aggiunto che la giurisprudenza amministrativa, fino a che ha potuto, ossia fino agli anni novanta del secolo scorso, ha ritenuto incongruo che possa configurarsi la nullità del provvedimento amministrativo, tanto che ha costantemente interpretato le disposizioni di legge, che comminavano espressamente la nullità, come inesatta rappresentazione della sanzione dell’annullabilità. Ha cambiato il suo orientamento soltanto quando l’idea dell’errore terminologico non è stato più possibile sostenerla.

9.- Tuttavia il problema non riguarda il passato, né può essere interessante esaminare se si poteva fare a meno di introdurre la nullità come (ulteriore) sanzione della illegittimità del provvedimento amministrativo; il problema da affrontare è se tale tipo di sanzione sia utile o se, invece, essa sia (possa essere) dannosa.
Ove si considerino le cause della nullità del provvedimento, ci si accorge subito che esse consistono, oltre che nella mancanza degli elementi essenziali, in ipotesi particolari, meglio, singolari: il difetto assoluto di attribuzione (di potere in capo all’amministrazione autrice del provvedimento); la violazione o la elusione del giudicato.
Lascio da parte la mancanza degli elementi essenziali, che ha l’aria di essere una ipotesi impossibile a realizzarsi, dato che, da un lato, nessuna norma stabilisce quali siano gli elementi essenziali del provvedimento (il quale rileva per tratti funzionali, molto più che per tratti strutturali), e, dall’altro, tale ipotesi di nullità finisce per configgere con la dequotazione dei vizi formali (la forma, o l’esternazione, essendo un elemento essenziale del provvedimento).
Le rimanenti ipotesi hanno origine e rilievo esclusivamente processuale. La prima richiama la carenza di potere in astratto, e rileva ai fini della individuazione del giudice avente giurisdizione sui provvedimenti estintivi o limitativi di diritti soggettivi. La seconda attiene ai presupposti necessari per l’esercizio dell’azione di ottemperanza al giudicato.
E’ evidente allora che trascinare tali ipotesi fuori dal processo, per elevarle ad ipotesi di nullità del provvedimento, non era affatto né necessario né utile; anzi può creare delicati problemi: la nullità, infatti, non rileva solo nel riparto della giurisdizione o ai fini della esperibilità del giudizio di ottemperanza; opera sul piano del diritto sostanziale, escludendo in radice e in perpetuo l’efficacia del provvedimento che ne sia affetto, prescindendo dalla sua impugnazione: contraddice alla nozione di inoppugnabilità nonché alla disciplina dell’annullamento in via di autotutela.

10.- Se si guarda poi la disciplina processuale della nullità, risulta evidente che si tratta di una disciplina, per così dire, di compromesso: la nullità del provvedimento non è trattata come la nullità del negozio, ossia non risponde ad una categoria di teoria generale del diritto.
Ad esempio la relativa azione non è affatto imprescrittibile, come la nozione e il carattere della nullità farebbero pensare; è invece soggetta a un termine di decadenza di centottanta giorni, un termine soltanto poco più lungo di quello relativo all’azione di annullabilità.
Tuttavia ciò che desta meraviglia, anzi vero e proprio sconcerto, è la profonda differenza di trattamento tra azione ed eccezione di nullità: l’azione può esperirsi entro un termine di decadenza; l’eccezione “può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice” (art. 34, co. 4, c.p.a.). In altri termini la nullità ha rilievo e conseguenze diversi se fatta valere dall’attore o dal convenuto.
In realtà si è evidentemente cercato di differenziare il meno possibile la disciplina processuale della nullità da quella della annullabilità. Il che, se conferma l’inutilità della introduzione della nullità nel sistema delle invalidità del provvedimento amministrativo, raggiunge peraltro risultati sperequati e sostanzialmente ingiusti.
Si aggiunga che il provvedimento nullo non può (non ha bisogno di) essere eliminato attraverso l’esercizio del potere di autotutela, e, quindi, alla sua eliminazione non si applicano le limitazioni, derivanti dal rispetto delle situazioni consolidate, previste dalla legge per l’esercizio legittimo di tale potere.

11.- Andando sul concreto, si può ipotizzare, sulla base di una recente legge, che ha previsto la riduzione a cinque dei membri dei consigli di amministrazione degli organismi di diritto pubblico, che un consiglio di amministrazione (o, meglio, l’atto che lo costituisce) venga dichiarato nullo, come previsto dalla stessa legge, per illegittima (pletorica) composizione. La nullità non verrà ovviamente dichiarata il giorno successivo a quello dell’insediamento e dell’inizio del funzionamento, ma mesi o anni dopo, magari nel giudizio di annullamento di una deliberazione adottata dall’organo consiliare.
Che succede allora dei provvedimenti che sono stati assunti in questo più o meno lungo lasso di tempo dal consiglio dichiarato nullo?
Si può ancora fare riferimento, per salvare i provvedimenti non impugnati, alla teoria del funzionario di fatto, nonostante la nullità del loro autore; ovvero deve ritenersi che la nullità, data la maggiore gravità della sanzione rispetto all’annullabilità, e la conseguente esclusione di qualsiasi efficacia, anche precaria, del provvedimento che ne sia affetto, impedisca di fare applicazione della teoria del funzionario di fatto?
E se invece di essere posto nel nulla un organo, venga dichiarato nullo un qualsiasi provvedimento amministrativo, che succede dei provvedimenti susseguenti, dei provvedimenti che sono stati adottati sul presupposto della esistenza, oltre che della legittimità del provvedimento dichiarato nullo? Che succede dei rapporti costituiti dal provvedimento nullo, che di fatto abbia prodotto i suoi effetti (magari per lungo tempo)?
Gli esempi dimostrano che l’introduzione della nullità ha reso più complesso il sistema delle invalidità del provvedimento amministrativo, senza apportare nessun elemento positivo, nemmeno di ordine teorico.
In definitiva mi sento di affermare che la nullità è nozione (o istituto) che si presta male ad essere considerata sanzione della invalidità di atti, come sono gli atti amministrativi, che non sono isolati, non definiscono (necessariamente) l’intero svolgimento dell’azione dell’amministrazione, e si pongono sempre più spesso in un processo dinamico articolato e complesso, in quel continuum che è (o dovrebbe essere) l’azione della pubblica amministrazione.
Inoltre essa non si armonizza con il trattamento tipico della efficacia del provvedimento e, in particolare, dei caratteri della esecutività e della esecutorietà. Né si può ritenere che questi caratteri della efficacia possano essere semplicisticamente esclusi per i provvedimenti nulli, dato che il provvedimento può essere portato ad effetto senza che la sua validità sia previamente accertata dal giudice, come invece è necessario per i negozi privati. Il provvedimento produce i suoi effetti prima che la nullità possa essere fatta valere.
La nullità rischia di essere, da un lato, una misura anomala rispetto alla disciplina generale del provvedimento, e, dall’altro, una cesura troppo forte nei confronti del fluire dell’attività amministrativa.

12.- Sulla dequotazione dei vizi procedimentali mi limito ad un solo commento: non si può, seguendo un percorso che voglia essere logico, da un lato, aumentare gli incombenti e gli oneri procedimentali, insistere sulla necessità, sulla completezza e sulla efficienza del procedimento, elevare il procedimento a forma essenziale della funzione amministrativa, e dall’altro, contemporaneamente, dequotare i vizi procedimentali; non, si badi, i vizi formali, ma i vizi propri del procedimento.
Sarebbe (stato) logico scegliere tra le due possibilità: dare risalto al procedimento ovvero ridurne il rilievo, disciplinare il procedimento come forma essenziale dell’azione amministrativa ovvero impedire che la mancanza o l’invalidità degli atti procedimentali dessero luogo all’annullabilità del provvedimento adottato a conclusione del procedimento, e secondo i risultati ivi raggiunti.
Sarebbe logico, quanto meno, distinguere, nell’ambito della disciplina del procedimento, tra incombenti da considerare essenziali (ad esempio, quelli che sono finalizzati alla partecipazione dei privati) e incombenti non essenziali (ad esempio, passaggi meramente formali) e trattare diversamente gli uni e gli altri.
A me sembra che imporre percorsi procedimentali articolati, rispondenti al modello del giusto procedimento, e dequotare i vizi procedimentali significa, a pensarci bene, porre le regole e spingere l’amministrazione a non osservarle: significa seguire strade contraddittorie, ingenerando incertezze nel delicato rapporto tra privati e amministrazione.

13.- La lotta alla inefficienza dell’amministrazione è all’ordine del giorno da molti decenni, ma non sembra avere finora ottenuto rilevanti risultati.
Abbiamo già parlato degli interventi sulla disciplina del personale. Possiamo aggiungere al quadro: gli innesti esterni di dirigenti, l’istituto dello spoyl system, la retribuzione di risultato. Queste ed altre innovazioni avevano, nel pensiero di coloro che le hanno introdotte, lo scopo di migliorare l’efficienza amministrativa.
Ebbene, non credo di lanciare una eresia affermando che tutte sono state piegate al perseguimento di scopi affatto diversi, ed assai meno nobili.
A che cosa è servito l’innesto nelle strutture pubbliche di dirigenti esterni? Sostanzialmente, nella assoluta maggioranza dei casi (e salve eccezioni) ad inserire nell’apparato amministrativo, in posti di responsabilità, amici e sodali dei politici; con buona pace del principio di separazione tra politica e amministrazione, anch’esso fortemente propagandato.
A che cosa è servito lo spoyl system? A raggiungere il medesimo obiettivo: ad evitare che funzionari di carriera, in tesi esperti ed imparziali, potessero conservare lo stesso loro ruolo con l’avvicendarsi del vertice politico. Fortunatamente, su questo istituto, malamente e tardivamente copiato da esperienze estere, senza badare alle differenze, anche di mentalità, la Corte costituzionale ha posto grosse e giustificate limitazioni.
A che cosa è servita la retribuzione di risultato? Per quello che mi dicono, la retribuzione di risultato è attribuita a tutti i dipendenti nella stessa misura, senza tenere in alcun conto i risultati da ciascuno effettivamente conseguiti.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma risulta già sufficientemente chiaro che molte innovazioni, progettate per rendere più efficiente l’amministrazione, non solo non hanno raggiunto tale obiettivo, ma hanno contribuito a renderla ancora meno efficiente, e, insieme, più ingiusta e, forse, anche più costosa.
Questo succede quando si ragiona in astratto e si considera che sia sufficiente introdurre modificazioni sul piano normativo, senza tener conto della mentalità, degli interessi e dei modi di pensare di coloro che sono chiamati a dare attuazione alle norme innovative.

14.- Un rapido sguardo ad alcuni interventi di carattere funzionale.
Un problema grave e risalente, l’inerzia dell’amministrazione, è stato avviato a soluzione, mediante approssimazioni graduali: con la disciplina del silenzio, più volte modificata, a partire dal 1990. Per giungere alla situazione attuale sono stati necessari interventi legislativi nel 2005, nel 2009, nel 2010; l’ultima modifica, di grande rilievo, è del 2012.
E’ stato via via stabilito che: l’amministrazione ha il dovere di provvedere, chiudendo, con provvedimenti espressi, sia i procedimenti ad istanza di parte sia quelli iniziati d’ufficio; deve farlo entro termini prestabiliti; se non provvede tempestivamente, il privato può rivolgersi al titolare del potere sostitutivo, il quale deve provvedere entro un termine dimezzato; “chi vi ha interesse” può anche adire direttamente il giudice amministrativo al fine di ottenere, sempre, l’accertamento della sussistenza del dovere di provvedere e, in presenza di determinati presupposti, la valutazione della fondatezza dell’istanza in ordine alla quale l’amministrazione non ha provveduto.
Negli interventi più recenti la lotta contro l’inerzia si è opportunamente arricchita di aspetti sanzionatori. In primo luogo è stata sancita la responsabilità dell’amministrazione per il danno ingiusto cagionato “in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”. In un secondo tempo è stata espressamente prevista la responsabilità disciplinare e “amministrativo-contabile” dei funzionari responsabili della mancata o tardiva emanazione del provvedimento.
Quanto meno sul piano normativo il problema dell’inerzia può dirsi risolto in modo soddisfacente. Non si può ancora dire se in pratica l’inerzia amministrativa sarà effettivamente superata.
In ogni caso, ove si consideri l’assoluta mancanza di difesa contro l’inerzia, protrattasi, con pochi e tardivi palliativi, dall’Unità d’Italia fino all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, non può non riconoscersi la completezza e, almeno in astratto, l’efficacia della disciplina attualmente in vigore.

15.- Data questa disciplina, è ancora corretto utilizzare il concetto (e il termine) di “silenzio”?
Si tratta, ovviamente, di è un problema teorico, sul quale vorrei esprimere sinteticamente il mio pensiero.
Il silenzio era una figura di cui non si poteva fare a meno quando avverso l’inerzia dell’amministrazione, mantenuta sia nel procedimento di primo grado sia in quelli di secondo grado (e, in particolare, nel procedimento di decisione dei ricorsi amministrativi, nell’epoca in cui erano impugnabili soltanto i provvedimenti definitivi), non era data alcuna possibile tutela giurisdizionale. Il ricorso al giudice amministrativo, infatti, presupponeva necessariamente la avvenuta adozione del provvedimento; e ciò coerentemente con l’unico petitum consentito, ossia l’annullamento, appunto, del provvedimento.
Il silenzio, variamente costruito nel tempo, funzionava da simulacro del provvedimento mai adottato, ovvero come (alternativo) presupposto processuale: era in realtà un escamotage che consentiva di rivolgersi al giudice, superando la disciplina positiva del processo amministrativo. Non altro, e con scarsi risultati sulla effettività della tutela.
Dopo che, fortunatamente, con la legge sul procedimento, è stato previsto espressamente il dovere di provvedere entro un termine determinato, e dopo che è stata introdotta una azione diretta ad accertare l’inadempimento di tale dovere, non appare in alcun modo corretto continuare ad utilizzare la nozione di silenzio: al suo posto c’è ormai soltanto l’inadempimento del suddetto dovere.
Colgo l’occasione per aggiungere che la locuzione “silenzio-inadempimento”, autorevolmente introdotta e pacificamente utilizzata in dottrina e giurisprudenza, era (e rimane) intimamente contraddittoria: se l’inerzia viene trattata (o si costruisce) come silenzio, la qualificazione di inadempimento risulta assolutamente ultronea; se, invece, il comportamento dell’amministrazione viene qualificato come inadempimento (di un dovere di facere), il silenzio diventa un istituto inutile, e quindi teoricamente da rifiutare. Il silenzio si dissolve; ed è curioso che si dissolva proprio quando la legge ne utilizza il termine.

16.- Altro modo di superare l’inerzia dell’amministrazione è quello di fare a meno del suo effettivo intervento, stabilendo che determinate attività private possano svolgersi anche in mancanza del provvedimento amministrativo, di carattere lato sensu autorizzatorio, astrattamente previsto.
Si tratta di forme di estraneazione dell’amministrazione, che possono essere totali o parziali. La prima forma si ha con il silenzio-assenso; la seconda, prima con la DIA, adesso con la SCIA.
Su tali istituti non sembra il caso di soffermarsi, se non per mettere in rilievo che, con essi, si supera il “controllo” preventivo di legittimità dell’amministrazione su attività private, che possano coinvolgere interessi pubblici; controllo che avrebbe, se effettuato, il doppio risultato positivo della migliore tutela dell’interesse pubblico e della maggiore tranquillità dell’operatore privato.
A questo proposito è stato recentemente posto in rilievo che, un’attività privata, iniziata sulla base di una DIA o di una SCIA, e quindi in assenza di un provvedimento dell’amministrazione, potrebbe dar luogo perfino a problemi di concorrenza sleale.
Sul piano penale, invece, non credo che possano esservi differenze tra l’esercizio di attività illecite, in quanto non autorizzate, a seconda che esso si basi su provvedimenti espressi ovvero sul silenzio-assenso, o su DIA o SCIA; perché il giudice penale, come tutti sappiamo, non fa caso se ci sia o non ci sia un provvedimento, non si sofferma a valutare se il provvedimento autorizzatorio, o il suo sostituto, siano legittimi o illegittimi: valuta l’attività privata direttamente sulla base della norma penale, prescindendo da qualsiasi valutazione della legittimità, e perfino della sussistenza dell’intervento dell’amministrazione.

17.- Uno sguardo ai recenti interventi di carattere processuale.
Mi limito ad accennare alla c.d. class action amministrativa, presentata come una innovazione di grande rilievo, in grado di influire efficacemente sulla efficienza dell’amministrazione.
Viceversa, per il modo in cui è stata disciplinata, risulta essere un rimedio assolutamente inadeguato; anzi, se non avessi davanti un uditorio di così elevato livello, mi consentirei di dire che si tratta di un rimedio addirittura ridicolo: esperendo la class action si può ottenere molto meno di quello che si può ottenere con le azioni ordinarie previste dal codice del processo amministrativo.
Vorrei aggiungere che, per l’effettivo superamento della inefficienza dell’amministrazione, c’è una sola alternativa: o si riesce a semplificare l’opera dell’amministrazione, tagliando centri decisionali, consultivi, e via dicendo, ed eliminando tutti i passaggi procedimentali che non siano provatamente indispensabili, ed inoltre costringendo l’amministrazione (anzi, i funzionari) ad agire tempestivamente; oppure occorre fare la scelta drastica di liberalizzare le attività private, almeno quelle che sono insieme di interesse privato e di interesse pubblico; ma liberalizzare le attività private comporta che non debbano essere previsti né provvedimenti (autorizzatori) preventivi né provvedimenti (di controllo) successivi all’inizio dello svolgimento di tali attività; eliminando completamente, o almeno riducendo ad interventi del tutto marginali e tassativamente stabiliti, il ruolo dell’amministrazione.

18.- In questo secondo senso sembra orientarsi il legislatore in tempi recentissimi, dal decreto c.d. Tremonti, dell’agosto 2011, in poi.
Con l’articolo 3 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (c.d. decreto Tremonti) è stato enunciato il principio secondo cui “l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”; e divieti possono esserci “nei soli casi di: a) vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali; b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; c) danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e contrasto con l’utilità sociale; d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; e) disposizioni relative alle attività di raccolta di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza pubblica”.
Bisogna riconoscere che il principio della libertà di iniziativa economica non è affatto riconosciuto senza forti limiti.
Nella stessa direzione della liberalizzazione si collocano varie disposizioni successive: l’art. 34 del c.d. decreto Salva-Italia (d.l. n. 201 del 2011), che ha abrogato numerose restrizioni alle attività private; l’art. 1 del decreto c.d. Cresci-Italia (d.l. n. 1 del 2012), e l’art. 12 del d.l. n. 5 del 2012.
Tuttavia, per il momento, siamo soltanto alla esposizione di principi e di norme generali (sarebbe più esatto parlare di auspici): c’è da augurarsi che non solo si scenda alla disciplina di dettaglio ma che questo nuovo modo di intendere i rapporti tra l’amministrazione e i privati entri profondamente nel costume.

19.- Il quadro, per come si presenta, risulta piuttosto grigio, nonostante qualche scorcio illuminato. Secondo il mio convincimento, c’è la urgente necessità di forti cambiamenti sul piano normativo, su quello organizzativo e su quello funzionale. Su tutti si sono innestati elementi negativi, o comunque di disturbo, anche in tempi recenti.
Sul piano normativo mi sembra che regni confusione nel sistema delle fonti. Mi vado, mio malgrado, convincendo che la modifica, introdotta nel 2001 agli articoli 117 e 118 della Costituzione, sia stata (o si sia rivelata) una modifica non opportuna, o mal riuscita. Non credo, peraltro, che sia una opinione non condivisa da altri.
La trasformazione della competenza residuale da competenza dello Stato a competenza delle Regioni non ha dato buoni frutti.
La prova? La troviamo facilmente, soltanto se si considera il numero dei ricorsi delle Regioni contro leggi dello Stato e dello Stato contro leggi delle Regioni, proposti alla Corte costituzionale, rispettivamente prima e dopo la novella del 2001: si tratta di una differenza quantitativa enorme, e per questo, molto significativa.
Probabilmente è proprio il criterio di riparto delle competenze legislative, basato sulla enumerazione delle materie, che è fonte di incomprensioni e di dissidi. Anche perché le “materie” enumerate coprono entità disparate: alcune rappresentano oggetti di disciplina, altre si risolvono in funzioni, altre ancora indicano scopi o obiettivi da raggiungere. Sicché è normale che tra materia e materia vi siano frizioni e sovrapposizioni, che una determinata disciplina rientri, per un verso (ad esempio, oggettivamente), in una materia, e, per altro verso (ad esempio, teleologicamente), in altra materia. Ci sono inoltre materie, che la Corte denomina significativamente “trasversali”, che aumentano la confusione.
Forse sarebbe opportuno abbandonare il criterio enumerativo ed abbracciare un criterio del tipo di quello vigente in Germania.

20.- La Corte costituzionale, dal canto suo, pur operando accortamente, non è riuscita a sbrogliare la matassa; e forse, dato l’impianto costituzionale, è impossibile riuscirci.
Esaminando la sua giurisprudenza, salta prepotentemente agli occhi che la Corte ha utilizzato alcune di queste materie (ad esempio: l’ordinamento civile, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale, la tutela della concorrenza) come grimaldelli per limitare la competenza legislativa, non soltanto concorrente ma anche residuale, delle Regioni; operando, in definitiva, una sostanziale ri-statalizzazione delle competenze, se così mi è consentito dire; seguendo un indirizzo opposto a quello che il legislatore costituzionale del 2001 aveva indicato.
La mia impressione è che la Corte costituzionale si sia impegnata nella razionalizzazione, per quanto possibile, del sistema delle fonti; che, almeno ai miei occhi, appare fortemente confuso e inutilmente complicato, anche per l’incalzare delle fonti europee.
Sempre sul piano normativo sono poi da denunciare come fattori di disordine e di incertezza del diritto, da un lato, l’infima qualità dei testi legislativi, sia per l’uso non sempre adeguato delle espressioni linguistiche sia per l’affastellamento di disposizioni disparate nello stesso contenitore; e, dall’altro, l“incostanza” del legislatore, che torna più volte, a distanza ravvicinata, a disciplinare, in modi diversi, lo stesso oggetto.
Un elemento di turbamento si annida anche nel principio di sussidiarietà, o, meglio, nella coesistenza di tale principio con quelli di differenziazione e di adeguatezza. Risulta assai difficile stabilire quali siano i confini reciproci di principi che, presi nel loro valore assoluto, sembrano contraddirsi.
Anche a questo proposito la Corte ha tentato di chiarire il dettato costituzionale, respingendo l’idea che, in linea di principio, tutte le competenze amministrative spettano ai Comuni, ed attribuendo valore preminente al principio della differenziazione e, soprattutto, a quello della adeguatezza. Se esaminiamo le sentenze, che si sono susseguite numerose dalla sentenza Mezzanotte del 2003 in poi, se ne ricava che quello che rileva soltanto marginalmente è proprio il principio di sussidiarietà (verticale).

21.- Sul piano organizzativo si nota in primo luogo che il panorama delle strutture pubbliche si è andato appesantendo e complicando nel tempo: la selva, ormai pressoché inestricabile, dei centri decisionali e dei centri operativi comporta necessariamente la frammentazione delle competenze, con doppie conseguenze negative: l’elefantiasi dell’amministrazione, con i relativi costi,e il disordine delle competenze, con le relative inefficienze.
Il legislatore assume un ruolo da vero illusionista quando lancia istituti quali l’autorizzazione unica o lo sportello unico.
Che cos’è l’autorizzazione unica? Si dovrebbe ritenere sia un provvedimento, che, unitariamente, ne sostituisce molti altri, tutti quelli necessari per conseguire un determinato obiettivo. Non è così! E’ soltanto l’esternazione congiunta di una serie di provvedimenti, ciascuno dei quali deve essere adottato, di norma da un centro decisionale diverso, a conclusione del suo procedimento. Di unitario c’è solo l’esternazione: un elemento di mera forma.
Che cos’è lo sportello unico? E’ un ufficio che da solo istruisce, valuta e decide? No! E’ semplicemente l’ufficio che raccoglie le valutazioni e le decisioni di tutti gli uffici tra i quali sono distribuite, o, meglio, disperse, frazioni di competenze.
Si tratta di istituti che, nella normalità dei casi, non servono a ridurre i tempi, e spesso finiscono per allungarli.
Recentemente, con l’art. 43 d.l. n. 78 del 2010, il legislatore si è “inventato” anche le “zone a burocrazia zero”. Non sappiamo ancora se tale istituto funzionerà. La Corte costituzionale ha affermato che lo Stato può istituire tali “zone” soltanto per le materie di sua competenza, non per quelle di competenza regionale. Già questa limitazione rende difficile che il nuovo istituto possa decollare.
Quali sono le strade alternative da percorrere?
A mio avviso occorre sfrondare, per quanto possibile, la selva dei centri decisionali, ridurre al minimo il frazionamento delle competenze tra centri operativi diversi, configurare procedimenti amministrativi unitari, o stretti collegamenti tra procedimenti, in modo che possa essere raggiunto il risultato utile, possa essere realizzata l’“operazione” amministrativa, nel modo più semplice e con il minor spreco di tempo e di risorse.
Il modello è già presente nell’ordinamento: è la conferenza di servizi. Ove, o quando, non si riesca ad accorpare le competenze e ad unificare i procedimenti, la strada migliore è quella della conferenza di servizi; la quale dovrebbe diventare il modo assolutamente generale dello svolgimento delle attività amministrative complesse.
D’altronde, la “crescita” della conferenza di servizi, e il continuo perfezionamento della sua disciplina (si pensi al superamento, prima, del dissenso parziale; poi, al superamento dell’inerzia di alcune delle amministrazioni partecipanti; ancora, alla inclusione dei privati tra i partecipanti), dimostrano che è l’unico istituto che contribuisce, e può ulteriormente contribuire, a risolvere il problema della efficienza dell’amministrazione; nel senso, appunto, che le diverse competenze vengono coordinate ed esercitate congiuntamente.

22.- In prospettiva, gli obiettivi sono: la progressiva semplificazione delle strutture organizzative pubbliche (che si sono andate complicando con il passaggio dei decenni), una disciplina più rigorosa del lavoro pubblico, una più intensa attenzione al risultato nella configurazione dei modi di agire dell’amministrazione.
L’attenzione al risultato comporta, come sua premessa logica, che non si consideri più l’attività dell’amministrazione in modo atomistico, ossia provvedimento per provvedimento, procedimento per procedimento, ma si arrivi a una considerazione unitaria di tutta l’attività amministrativa che serve perché sia realizzato l’interesse pubblico.
Mi sembra utile rammentare, a questo proposito, che gli interessi pubblici, all’inizio, erano oggetto di valutazioni separate e indipendenti, anche se concernevano un medesimo obiettivo da raggiungere. Successivamente dalla valutazione, per così dire, atomistica, si è passati alla loro valutazione congiunta: la spinta più forte in questa direzione l’ha impressa Giannini, con la sua teoria dell’interesse primario e degli interessi secondari, e con la elaborazione della nozione di interesse pubblico concreto, inteso come la risultante di tutti gli interessi pubblici coinvolti.
Il passo ulteriore comporta che l’interesse pubblico concreto, la cui soddisfazione costituisce lo scopo dell’azione amministrativa, non è la risultante algebrica dei soli interessi pubblici; è la risultante della valutazione degli interessi pubblici e, insieme, degli interessi privati. Come già si trova affermato da Gian Domenico Romagnosi nella prima metà del secolo diciannovesimo.
Un’ultima considerazione. Finora ci siamo occupati di (future e sperate) modificazioni delle regole e di riforme dell’apparato organizzativo. Questa è soltanto la prima tappa, ed è anche la più facile; la tappa successiva è molto più dura: si tratta di aumentare le risorse, quanto meno, di razionalizzare la loro distribuzione e il loro utilizzo.
Soprattutto si tratta di cambiare la mentalità dei funzionari, che devono trasformarsi da occhiuti dispensatori di ostacoli in solerti aiutanti di chi necessita dell’intervento dell’amministrazione: devono acquisire spirito di servizio e atteggiamento collaborativo.
Altrimenti il diritto ad una buona amministrazione, solennemente affermato anche in sede europea, non può che restare sulla carta; e le imprese estere, come è stato più volte avvertito, preoccupate dello stato e dell’atteggiamento dell’amministrazione (oltre che dei tempi della giustizia) continueranno a non investire in Italia.