Il Giustiniano del Professor Casavola*

*Si riporta integralmente, anche nel tono discorsivo, il testo predisposto in occasione dell’incontro organizzato il 23 febbraio per l’ottantesimo compleanno di Francesco Paolo Casavola, senza i tagli apportati all’ultimo momento per esigenze organizzative. Le doppie virgolette nella trattazione dell’inedito di Casavola indicano citazioni letterali dal ciclostilato.

Al dato anagrafico che costituisce l’occasione si richiama il cartoncino d’invito. Il professor Casavola pretende di essere un ottantenne. È credibile? Se non ne conoscessimo la tranquilla sem­plicità, verrebbe da sospettare una sorta di civetteria. Una straordinaria vivezza intellettuale, che non disdegna tratti di ironia divertita; vigoria; aspetto; il suo essere sempre se stesso (antitesi dell’invecchiare) quando gli ottanta sono come i suoi, è traguardo invidiabile e dunque da celebrare.
È un gran piacere essere qui, insieme con tanti altri, a festeggiare Franco Casavola: in questi, e per questi, magnifici ottant’anni; per quanto, lungo di essi, egli ha saputo darci. Poter poi rico­struire, pur in minima parte e per un profilo assai specifico, la sua importante vicenda intellettuale è un onore. Ne ringrazio gli organizzatori.
Nel programmare l’incontro, a ciascuno è stato dato un compito senza vincolarci con titoli specifici. Al mio intervento tuttavia una denominazione mi è piaciuto darla, per un particolare inte­resse al tema affidatomi.
Nei limiti concessi, propongo un viaggio nel tempo. No, non fino al sesto secolo dopo Cristo. Al centro di quanto dirò non è Giustiniano in sé, ma appunto un Giustiniano secondo Casavola. Vo­glio riportarvi indietro solo cinquant’anni o poco meno: un soffio nella storia, per chi maneggia se­coli; non pochi, se rapportati alle nostre vite. E parlare di un inedito.
Napoli, Facoltà di Giurisprudenza, anno accademico 1963-1964, Corso di Esegesi delle fonti giuridiche.
Per loro natura i corsi di lezioni nascono sotto il segno dell’effimero. Non perché non lascino un segno. Anzi, oltre che sugli uditori (ognuno ricorda lezioni indimenticabili, in qualsiasi ordine di studi), possono incidere sullo stesso docente influenzandone il percorso. Li dico effimeri in quanto per lo più non ne resta traccia materiale. Quando vengano riversati in un libro, saranno però altro. Di qui il fascino di certi corsi fine ottocento o primo novecento, “raccolti dallo studente y”, “rivisti dal prof x”; ci fanno ‘assistere’ a lezioni i cui partecipanti sono ormai polvere.
Del corso di cui voglio parlare la traccia materiale c’è: il fascicolo ciclostilato in cui lo ha rac­colto un uditore di allora. Che vi indica sia il titolo sia il docente (Le costituzioni ‘cle conceptione’ e `cle confìnnatione Digestorum’; prof. Francesco Paolo Casavola), ma del proprio nome non dà conto.
Lascio da parte l’identità del raccoglitore. Oggi, si diverte a descriversi come “studente, nudo e crudo, di diciannove anni” con “uso maldestro del ciclostile”.
Concentriamoci sulle lezioni, che il fascicolo mette in grado di conoscere.
A quanti incontri esse assommassero non è ricostruibile, né il testo rivela loro collocazione e ruolo nell’insegnamento di Esegesi. Potremmo ipotizzare che costituissero il ‘lavoro sul campo’, un exemplum, particolarmente significativo, per insegnare il modo di avvicinarsi alle fonti. Una con­ferma può darla il notevole spazio riservato ai testi. Con fine accorgimento vengono inseriti nella trama del discorso così da agevolarne la comprensione, ma sono rigorosamente in latino senza ac­compagnamento di traduzione (ormai obbligata: viene nostalgia di quei primi anni Sessanta…).
A fronte delle sedici pagine si resta sorpresi di quanti temi, e sfaccettature problematiche, ne scaturiscano. E lo stile, si badi, non è compresso. La scrittura si snoda pacata, chiara, arricchita di indicazioni bibliografiche, di richiami di altre posizioni. A sostenere le affermazioni del docente, le citazioni testuali di cui ho appena detto, frequenti e ampie: consentendo all’interlocutore (di oggi e di allora) il confronto di prima mano fra le parole antiche e il senso che ne ricava chi le analizza.
Un «Sommario» in prima pagina scandisce quattro paragrafi: primo e ultimo dedicati rispetti­vamente a Deo auctore e a Tanta-Dédoken; due intermedi a Omnem. L’ambito di indagine è così delimitato: le due costituzioni relative al Digesto che danno il titolo — la seconda di esse, peraltro, è all’intera compilazione che fa riferimento — prese però in considerazione insieme con la costituzio­ne per la riforma degli studi giuridici, riforma che proprio l’aver portato a compimento il disegno compilatorio rende possibile.
Se dalla seconda metà degli anni Sessanta il Casavola studioso nel guardare ai giuristi romani comincia a proporre “una linea metodica diversa da quelle comunemente sperimentate” (come poi scriverà in una valutazione conclusiva), sullo scorcio della prima metà di quegli anni il Casavola docente tèsta con i suoi studenti un modo diverso anche di avvicinarsi alla “opera di compilazione svolta da Giustiniano”. Parlo di ‘testare’ per segnalare l’impegno di didatta. Accantonando più facili strade tralatizie, con rispetto e fiducia nelle capacità di quei giovani — ancora ignari di novità e rile­vanza della prospettiva li coinvolge in un discorso, scientifico, che gli preme.
La linea di indagine sul “pensiero giuridico romano” si arricchisce via via di ulteriori contri­buti (è ben noto), fino a sfociare nel 1980 nella raccolta di saggi risalenti e ultimi. L’altra linea, in­vece — intorno al pensiero compilatorio, vorrei dire — non trova altrettanto compiuta trattazione sul piano delle pubblicazioni: se non per qualche aspetto e in alcuni lavori.
Anche per questo l’inedito risulta di notevole interesse. Testimonia, certamente, del rilievo che Casavola attribuisce alla educazione giuridica. Ma testimonia altresì di una determinata direzio­ne di ricerca — originale, importante — che egli in queste lezioni delinea.
“Problema principale” da “considerare in relazione all’opera di compilazione”, scrive, è “per­ché sia sorta una tale iniziativa e da quale idea-forza sia stata alimentata”. A spiegazioni meramente psicologistiche (quasi in chiave di vanagloria imperiale), a rinunzie a capire se non con mere con­getture adducendo carenza di fonti, egli contrappone come testimonianza decisiva la Deo auctore: in cui questa idea-forza “facilmente si rintraccia”; in cui si possono “scoprire i motivi reali che ani­marono Giustiniano nel suo grandioso progetto”.

Con una prospettiva di questo genere mi trovo in speciale sintonia, ‘per fatto personale’. Essa è di conforto al modo in cui io stessa ho considerato l’insieme delle costituzioni che aprono la com­pilazione: come una sorta di manifesto programmatico. Anche se al conforto, confesso, è frammisto il sollievo che si tratti di un inedito; diversamente, il mio, di Giustiniano, forse (non esagero) non a­vrebbe visto la luce.
Ma la sintonia, mi scuso per l’autocitazione, non credo mi faccia forzare l’impostazione di Casavola. Non si tratta di una singola affermazione che estrapolata dal contesto viene caricata di un significato che potrebbe non avere. La collocazione in apertura di queste frasi, la loro stessa formu­lazione ne attestano un ruolo centrale in quanto si verrà poi sostenendo. È una dichiarazione preli­minare di intenti, una chiave di lettura offerta a chi voglia seguire il ragionamento. Contestualmen­te, comporta la necessità di sgombrare il campo da altre, e più condivise, prospettive di indagine. E viene esplicitamente menzionato il “criterio seguito da alcuni autori” interessati soprattutto al modo di procedere nei lavori ‘codificatori’. Non è quanto Casavola cerca nelle testimonianze compilato­rie, in specie nelle tre costituzioni messe al centro della analisi. Alla compilazione egli si avvicina appunto alla ricerca della idea che la sostiene.
Non solo. Pur nella succinta enunciazione, a me pare che della nuova prospettiva si diano an­che altri segnali. Applico ad essi parole usate dall’autore per i lavori sui giuristi e che ho appena ri­cordate: vi si può cogliere “una linea metodica diversa da quelle comunemente sperimentate”. Ne farò subito cenno. Ma voglio premettere che dietro il fascicolo — ne sono convinta — stanno uno studio ben più ampio, una meditazione approfondita, che non hanno trovato, né qui, né (mi sembra) al­trove, intera espressione.
La lettura del nostro ciclostilato ha risvegliato in me una sorta di eco: qualcosa che mi è oc­corso di ascoltare due o tre anni fa dallo stesso Casavola e che ora capisco meglio, anche nella im­plicazione del tanto lavoro che traspare.
In una presentazione che egli ha avuto la gentilezza di fare al secondo volume della mia ricer­ca su Giustiniano, la sua conoscenza di queste costituzioni mi era apparsa così puntuale, così ponde­rata che ne serbo speciale ricordo: una valutazione ‘dal di dentro’, tale da sorprendere pur cono­scendo la cultura di Casavola. Ben al di là di un corredo della memoria che tali testi rappresentano per i romanisti, era qualcosa di diverso anche dalla frequentazione ravvicinata per uno studio speci­fico.
Era un vero e proprio dialogo con Giustiniano, quello a cui assistevamo. Casavola lo intesseva con qualche scarno appunto e senza bisogno di testi sottomano: trascorrendo in un filo unitario da una costituzione all’altra e circolarmente tornando soprattutto a Deo; citando parola per parola il di­re dell’imperatore; interpretandone gli intendimenti.
Oggi, potendo collegare le inedite lezioni partenopee di Esegesi e il ‘dialogo con Giustiniano’ cui ho avuto la ventura di assistere, vorrei esprimere con una metafora la sensazione che ne traggo: che nel fiume delle ricerche di Casavola questo pur importante affluente sia stato attentamente e­splorato, ma senza poi arrivare a una mappatura conclusiva. Fortuitamente? Volontariamente? Im­possibile per me avanzare anche solo una ipotesi.
Mi limito a trasmettere piuttosto i segnali di cui dicevo. In breve, a causa del tempo a disposi­zione, ma anche dell’essere per lo più indicazioni. L’ambito non consente all’autore di svilupparle, anche se le avvalora costantemente con testimonianze e considerazioni che non posso ora richiama­re.
Il filo conduttore che Casavola, alla ricerca della idea-forza della compilazione, sembra indi­viduare nei testi è l’auctoritas imperiale. Auctoritas che implica considerazione identica per lettera­tura giurisprudenziale e per testi legislativi, ambedue “egualmente soggetti” ad essa. Auctoritas che risulta unico metro di autenticità (“autentico per Giustiniano tutto e solo ciò che può essere riferito” ad essa): un criterio “incomprensibile, per noi”, la cui “giustificazione scientifica” si trova nella tra­sformazione propter utilitatem rerum. Auctoritas che in certo senso fonda perfino il riconoscimen­to da parte di Casavola di brani, o anche di testi, come “opera personale dello stesso Giustiniano”; nessun altro, osserva, “avrebbe osato scrivere” così, su generali ed eserciti, guerra e pace, status della res publica, perfino su Dio stesso e sul suo intervento. Auctoritas che appunto si collega alla “auctoritas divina”: da cui deriva, cui è subordinata.
A questa costante presenza della divinità Casavola dà grande rilievo. Dalla “funzione” del di­ritto, “realizzare, in terra, la dispositio divina” come “giusto ordine di tutti gli elementi”, egli trae la propria conclusione che “alla base dell’opera compilatoria c’è innanzi tutto un motivo di ordine teo­logico”. Nella formulazione ripetuta che solo “l’aiuto divino” può far realizzare l’impresa, coglie una vera convinzione; la lègge come “espressione sincera e passionale di un credente in Dio”. Inve­ce rimane fuori del suo orizzonte di ipotesi che a questa fede ritenuta autentica — gli interessi giusti­nianei per la teologia sono noti, cosi come la conoscenza del relativo “linguaggio” — possa quanto­meno intrecciarsi un accorgimento politico (una compilazione realizzata per volontà di Dio risulta sottratta alle critiche).
Peculiare è anche il punto di vista secondo cui Casavola guarda all’intervento sull’ordinamento didattico universitario da parte di Giustiniano (oltre Deo che con “una certa si­curezza” può dirsi “opera personale” dell’imperatore, anche Omnem, che ne condivide “identità sti­listiche” e “metafore simili”, gli “può essere attribuita”). Ne “emergono”, egli nota, “due prospetti­ve”: “l’una normativa”, come “costituzione […] di un corpo unitario, coerente, utile ai bisogni dell’applicazione del diritto”; “l’altra”, invece, “riguardante l’insegnamento del diritto”. Se la normazione imperiale in questo campo non può ritenersi una novità, ora non solo risulta “maggiore” l’attenzione ma è presente un profilo “ignoto nell’età classica”.

Al di là dell’intento riconosciuto di una “politica di istruzione popolare” come emerge in Tanta 12, nel segnalare inoltre che Giustinia­no “incoraggiando e favorendo la scienza giuridica” “tenta di reagire” a un precedente “indirizzo” che l’aveva “messa in disparte”, tuttavia Casavola nega un “interesse culturale” nelle direttive di Omnem. Accredita invece — è il tratto nuovo — uno “scopo strettamente collegato all’amministrazione dello Stato”. La necessità di “uomini ben preparati e idonei ad occupare i posti loro assegnati” viene a modificare anche il “reclutamento” per le cariche “più importanti”: che si sposta (è rilevante) dai retori ai “cultori e studiosi del diritto”. Proprio qui “interesse e scopo della riforma”, che Casavola riscontra “affermato esplicitamente” in Omnem 6. “A Giustiniano preme avere giuristi ben preparati, perché è di questi che si serve nell’amministrazione dello Stato”.
Ancora, il nostro autore non si limita a disinteressarsi — rimanda infatti ad altri studiosi — di procedimenti di lavoro e di tempi occorsi, stilerai consueti in ricerche sul Corpus iuris.
Appare lontano anche da una altra visione tradizionale: che pure sembrerebbe la più consona a chi, come lui, nei propri studi ha fatto perno sulla giurisprudenza (l’importanza di altri filoni di ri­cerca non contraddice la centralità data ai giuristi). Casavola non guarda al Digesto come scrigno giurisprudenziale. Davanti alla “stanza del tesoro” (per ricorrere alla immagine savigniana) a susci­targli interesse non è solo quanto contiene. Da indagare, sono i motivi che hanno indotto a costruir­la, il suo “perché”: seguendo un’altra strada. Egli viene così non solo a indicarla, ma comincia pure a tracciarla.
E però (l’ho già detto) egli non percorre sino in fondo — tramite tutte le costituzioni del grup­po; per l’intera compilazione — questa nuova strada di “perché”, di “idee-forza”, di “motivi”, di “scopi”. E non mi risulta sia stata ancora percorsa da altri addentro i tria volumina compilato­rii ad enuclearne strutture, funzioni (come per il nostro codice civile si è fatto di recente: penso a Severino Caprioli).
Nell’avviarmi alla conclusione, esco dall’ambito affidatomi. Faccio riferimento alla nuova collana, Incunabula menlis.
Alla digressione mi spingono due motivi.
La necessità di un grazie, intanto. In una iniziativa napoletana — accanto a Casavola, ideatori e fondatori sono Franco Amarelli e Lucio De Giovanni — si è voluto far entrare, con amabilità e garbo tre ‘estranei’, come siamo i miei colleghi amici carissimi Fusco e Lanza ed io stessa. Anche a loro nome il ringraziamento, vorrei dire ufficiale, per questo coinvolgimento: spontaneo, generoso, pari­tario. Per tutti, ringrazio Amarelli. Anche perché è proprio lui — si può adesso rivelarlo — lo studente “nudo e crudo” che ha raccolto e ciclostilato le lezioni di Casavola, che le ha conservate, che ce le ha trasmesse permettendoci di conoscerle.
Poi, e su questo chiudo, il desiderio di segnalare un legame: fra i primi due volumi, Riccobono e Casavola, che si rieditano.
Mi limito a un profilo specifico nei Lineamenti di Storia delle fonti. Sono stata educata da Orestano a tenere in grande considerazione questo libro del suo Maestro, importante per tanti versi: non libro da capezzale (secondo la formula francese), ma vero e proprio “libro da scrittoio” da avere a portata di mano. Pure, nel curarne la ripubblicazione, mi ha colpito per la prima volta qualche fra­se che proprio non ricordavo.
Mi è apparso così più emblematico il collegamento con Giuristi adrianei, implicito nel far u­scire contestualmente i volumi nelle due linee di Incunabula.
Nota Riccobono (e tornerà a ripeterlo) che “lo stile e la lingua dei giuristi romani sono stati poco studiati”. Poi subito aggiunge: “Ed anche la personalità dei singoli giuristi non è stata finora convenientemente illustrata”. Ambedue i rilievi sono di grande interesse; in particolare il secondo richiederebbe di esser commentato anche in rapporto al superamento dell’interpolazionismo nel suo pensiero. Ma è sulla conclusione che se ne trae che voglio qui porre l’accento. Riccobono si apre al futuro e dichiara: “Sono, questi, compiti che le nuove generazioni sono chiamate ad assolvere”.
Fra i primi ad assolverli — e da par suo — ci sarà appunto Casavola: che inizierà a dedicarvisi tre lustri dopo. Quando un Riccobono ottantacinquenne licenzia la seconda edizione con la chiama­ta a operare, Casavola è diciottenne.
Non dico che intendesse così rispondere all’invito riccoboniano. Sperso nella miriade di in­formazioni che il libro offre, potrebbe non avergli dato alcun rilievo.
Colgo un simbolico ‘passaggio di fiaccola’: fra singoli studiosi come fra generazioni.
Alla stregua — voglio ricordarlo — di quello che lo stesso Casavola adombra nella Prefazione a Giuristi Adrianei: da un lato, ricordando all’inizio che i saggi raccolti hanno “influenzato altrui nuove e proficue ricerche”; dall’altro, chiudendo con la dedica “a tutti i maestri della romanistica italiana, che nel volgere di pochi anni, consegnandoci il ricordo del loro insegnamento, hanno reso più acuta la responsabilità del nostro”.