La lezione degli imprenditori suicidi
Le cronache della crisi economica raccontano anche dei suicidi degli imprenditori travolti dai debiti. L’elevato numero di casi e la drammaticità della scelta impongono il tema all’attenzione dell’opinione pubblica. Se ne discute sulla stampa quotidiana e periodica; nei telegiornali e nelle trasmissioni di approfondimento. Di tanto in tanto si organizzano anche manifestazioni di protesta.
L’ondata dei suicidi non può spiegarsi, però, semplicemente come una brutta novità portata dalla crisi; il suicidio dell’imprenditore insolvente rappresentainfatti un comportamento tutt’altro che atipico. Il fenomeno è da lungo tempo noto alla scienza giuridica ed è anche indirettamente considerato nella legge fallimentare, laddove disciplina il fallimento dell’imprenditore defunto.
I vecchi trattatisti che scrivevano a cavallo tra Ottocento e Novecento vedevano nel suicidio la rivelazione dell’insolvenza. Il commerciante che decideva di suicidarsi esprimeva infatti “la più completa sfiducia nelle proprie risorse e nel proprio credito”: come scrisse quasi un secolo fa Gustavo Bonelli, avvocato generale della Banca d’Italia e massimo esperto dell’epoca in diritto fallimentare.
“Quando ti giungerà questa lettera io sarò morto; poiché, nella posizione in cui mi trovavo, non ho voluto sopravvivere all’onta di un fallimento”, scrisse cent’anni prima il commerciante Grandet all’avaro fratello nel capolavoro di Balzac.
Prima ancora, nelle legislazioni medievali si considerava come supremo indizio di insolvenza la fuga del mercante dai propri creditori insoddisfatti. Fugitivus fu l’originaria denominazione del dissestato; a cui si affiancò, per poi prevalere, quella di ‘fallito’.
A volte (così nello statuto dei Mercanti senesi del 1616) alla fuga del mercante era equiparata la sua morte. Si percepiva – sebbene confusamente – un comune effetto sociale di questi due fatti, dato dalla scomparsa del soggetto dal contesto in cui aveva vissuto la sua vita prima di precipitare nell’insolvenza.
In realtà, la fuga determina la latitanza, così come la morte può essere dovuta al suicidio. Il vero nesso corre pertanto non tra fuga e morte, ma tra fuga e suicidio. Proprio nella fuga, del resto, riposa la dimensione metaforica del suicidio quale fuga dalla vita non più degna di essere vissuta.
Per la forte carica indiziaria della condotta, in diversi statuti lombardi con il termine ‘fuga’ si denotava la condizione, del tutto diversa, dell’insolvenza (che della prima costituiva il motivo).
Il termine ‘insolvenza’ definisce una condizione di impotenza: l’impotenza del debitore di soddisfare i propri creditori. Fuga e suicidio sono reazioni dettate dall’impotenza, strategie di ritirata in una guerra ormai definitivamente perduta. Il mercante non sopporta più il peso del mercato e si sottrae con atti estremi alla sua costrizione.
La drammaticità del gesto finale si impone alla pubblica attenzione: per effetto naturale, si discute sulla scomparsa del debitore insolvente dal contesto della città, e del mercato.
La novità dei tempi moderni, che perdura come caratteristica dei nostri giorni, è in un notevole cambio di prospettiva. La riflessione si sposta dal suicida (di cui presto non ci si interessa più) alla scena che costui ha abbandonato a seguito del suo gesto. Lo sguardo si distoglie pertanto dall’imprenditore ormai morto e si concentra sul mercato, quale arena in cui l’insolvente ha subito la sua sconfitta.
In questo spostamento dell’attenzione l’osservatore è a volte guidato dallo stesso suicida: per la forma del suo gesto e la forza simbolica che vi si trova racchiusa. Un caso eclatante è quello di Dimitris Christoulas, il pensionato suicidatosi il 4 aprile scorso ad Atene, in piazza Syntagma, davanti al palazzo del parlamento. In un biglietto alquanto delirante il vecchio farmacista accusa il governo di aver azzerato, con le assurde misure di austerità imposte in sede comunitaria, la sua stessa capacità di sopravvivere.
Con una mossa estrema, l’accusa è sollevata non soltanto nei confronti del governo greco ma anche contro l’Unione europea.
Di colpo – ed è questo l’effetto importante – la critica investe un’idea fino a ieri largamente condivisa di ‘mercato’. Accende di conseguenza la discussione sul progetto di integrazione sociale e culturale faticosamente coltivato in tutta Europa all’insegna di quell’idea. Contesta un metodo largamente condiviso: di disciplinare il mercato secondo un modello che è stato generosamente definito dello ‘sviluppo sostenibile’.
E rimprovera una debolezza: di applicare quel modello tradendo nei fatti l’impegno – etico e politico – per una economia sociale di mercato: che tuteli il mercato non in quanto tale, ma in funzione del benessere delle persone.
A ben vedere la disapprovazione degli imprenditori suicidi e la contestazione così mossa alle legislazioni dettate dall’emergenza economica non assumono mai la forma della confutazione; non consistono infatti in una serie di ragioni dirette a criticare una precisa mentalità sul governo dell’economia. Si manifestano invece come rifiuto inappellabile, consegnato non alla parola ma al gesto che – in quanto estremo – non può avere nessuna risposta.
La critica che non chiede risposta nemmeno propone soluzioni alternative al nostro modello di sviluppo; denuncia piuttosto la sconfitta della comunità che si riconosce e raccoglie nello spazio, non solo reale ma anche simbolico, del mercato.
Scomparendo dalla scena, gli imprenditori suicidi ci restituiscono alla nostra condizione di attori di quella stessa scena. Spingendoci a formulare nuovi interrogativi sull’economia di mercato, ci riconducono alla responsabilità di artefici politici del mercato stesso, la cui fisionomia dipende appunto dalla scelta politica che gli dà forma.
La dimensione che il fenomeno va assumendo sotto i nostri occhi attoniti e il moto di rivolta che segna il ripetersi del gesto disperato sembrano manifestarsi come tracce di un virus insidioso. Un virus che – attraverso la messa in discussione del vivere in comunità e attraverso la delegittimazione del patto sociale – rischia di intaccare la stessa convivenza civile.
Il diritto tradizionale adotta strategie di riappropriazione simbolica dell’imprenditore alla comunità. Il latitante e il morto possono essere egualmente dichiarati falliti. La sentenza di fallimento si preoccupa ancora dell’imprenditore morto per suicidio; gli attribuisce un preciso status (di fallito) e perciò riassegna allo scomparso un posto nella comunità.
Per questa esigenza, furono vane le dispute in voga negli ultimi anni dell’Ottocento sulla fallibilità del suicida: nonostante le critiche e le perplessità i giudici riaffermarono sempre questa possibilità, poi stabilmente sancita dalla legge.
A quei tempi, però, il gesto estremo era dettato soltanto dalla disperazione del debitore sovraindebitato, e non anche dalla ribellione di un imprenditore a un modello di sviluppo economico.
Allora il recupero dello scomparso attraverso l’attribuzione allo stesso del ruolo di fallito eliminava efficacemente quella che si mostrava essere una precaria singolarità (la sparizione dell’imprenditore). Oggi la dichiarazione di fallimento degli imprenditori suicidi non potrebbe esorcizzare la loro muta protesta, né preservare il contesto attraverso un semplice movimento di riconduzione – in esso – dell’imprenditore scomparso.
Nessuna strategia di questo tipo potrebbe infatti riassorbire e neutralizzare il sentimento di ribellione in cui la scomparsa è stata progettata e realizzata.
Il compito che ci spetta è di superare quel sentimento irrisolto, sostituendo alla muta protesta il pubblico confronto di idee sui problemi e sulle possibili soluzioni da adottare.
Governo e sindacati di lavoratori e imprenditori, partiti politici e realtà dell’associazionismo sono impegnati in queste settimane in dispute serrate, non prive di momenti di forte asperità.
Le vittime della crisi si contano (anche in termini di suicidi) ben oltre la pur vasta cerchia degli imprenditori.
Per definire specifiche forme di emarginazione si è reso addirittura necessario coniare neologismi. Come ‘esodati’, descrittivo della nuova categoria dei pensionati senza pensione.
La lezione degli imprenditori suicidi è nell’evidenza di quella che Adorno chiamava ‘la vita offesa’. La vita di innumerevoli persone indifese (anziani, malati, donne, lavoratori precari, migranti) già esposte alle conseguenze ultime di sistemi di mercato ampiamente costruiti sull’azzardo finanziario, crollati e implosi anche nelle economie della realtà (con chiusura delle fabbriche e perdita irrecuperabile di milioni di posti di lavoro).
Per il disagio esistenziale patito nella nostra società, vissuta come un vecchio ambiente familiare che di colpo diviene insidioso e inospitale, l’insegnamento è dato nelle forme della muta testimonianza.