Il principio di concorrenza anche nella pianificazione urbanistica*

* Si tratta della rivisitazione del testo a base della lezione inaugurale del XXVII ciclo di dottorato in Pianificazione territoriale ed urbanistica della «Sapienza», Università di Roma, tenuta l’ 11 gennaio 2012. L’occasione imponeva una lezione di taglio didascalico e nello stesso tempo ricostruttivo dalla «vicenda» urbanistica italiana (e non solo), indispensabile per introdurre il tema della concorrenza nella pianificazione urbanistica. Un tempo applicata in forma autoritativa, la pianificazione urbanistica ha dovuto nel tempo misurarsi con la dimensione concertativo – negoziale – consensuale, ed oggi – si rilevano più di semplici avvisaglie –, con quella dell’applicazione del principio di concorrenza nel processo di decisione.

1. Innanzitutto vorrei spiegare la scelta di trattare questo tema nella lezione inaugurale del XXVII ciclo di dottorato in Pianificazione territoriale ed urbanistica della «Sapienza», Università di Roma.
La prima spiegazione risiede nel fatto che inauguriamo un nuovo Ciclo di dottorato, il ventisettesimo. Fino a qualche tempo fa venticinque anni era considerato il tempo di durata di una generazione. Una riflessione sul trascorso periodo e sul possibile futuro della disciplina, è impossibile non farla in occasioni come questa.
Oggi si ritiene che la durata di una generazione sia molto più breve. Si dice anche che non ci siano più le generazioni, tanto velocemente cambiano i comportamenti individuali, le economie e le società tutte: motivo di più per sviluppare una riflessione sulla disciplina.
La vostra generazione – il riferimento è a quella degli studenti del nuovo ciclo di dottorato – sarà, fra l’altro, probabilmente quella nella quale si manifesterà con più evidenza lo scontro tra la concezione della «città, oggetto di mercato» e la «città, bene comune». Che è cosa che riguarda molto da vicino gli urbanisti, ovviamente.
Prima che si comprenderà che le due concezioni non sono antitetiche e che, pertanto, queste concezioni vanno concretamente rese compatibili, occorrerà un grande cambiamento culturale e una grande capacità di prevedere e statuire nuove regole e nuovi strumenti di pianificazione urbanistica.
Quella del rapporto tra principio di concorrenza e pianificazione urbanistica è probabilmente la chiave più utile per comprendere diversità e convergenze tra le due concezioni.
Tanto più che questa lezione cade in un periodo nel quale si assiste, con un’alternanza davvero impressionante per la sua velocità, alla morte ed alla rinascita della visione liberal-liberista dell’economia. Visione accusata di essere la fonte di tutti i guai dell’economia dal 15 settembre 2008 – data ritenuta quella dell’inizio (?) della crisi che ancora viviamo –, e nello stesso tempo generalmente considerata portatrice della ricetta migliore per uscire dalla crisi[1].
La seconda spiegazione è un po’ strumentale: riflettere su tale questione, che probabilmente può essere vissuta anche come provocazione da chi, pigramente, si adagia su acquisizioni consolidate senza accorgersi che oramai queste sono state profondamente «terremotate», è un buon modo per ragionare su come siamo arrivati a doverci porre questo problema. Quindi un buon modo per interrogarci sul passato della disciplina dell’urbanistica nei principi di fondo e specifici, e negli strumenti operativi. E su quello che ritengo il suo futuro.
La città è stata sempre un insieme di beni pubblici. Non tutti questi beni avevano qualcuno che avesse il potere di ripartirli e solo pochi di essi avevano un prezzo.
L’aria e l’acqua, ad esempio. L’aria è (teoricamente) oggetto di pianificazione dal 1965, data della prima legge ambientale italiana in tempi moderni, che prevedeva piani di risanamento della qualità dell’aria. Il profilo sanitario prevaleva su ogni altro.
Oggi – lo sappiamo bene –, nel determinare il prezzo di un immobile, la qualità dell’aria insieme ad altre qualità ambientali e paesaggistiche, oltre quelle urbanistiche (localizzazione, morfologia urbana, tipologia edilizia), costruttive, energetiche, di qualità igienico sanitaria dei materiali impiegati ed acustiche, incide notevolmente.
L’acqua, bene pubblico quasi per eccellenza, oggi è considerata un bene comune.
Nozione queste probabilmente ancora in cerca di una definizione precisa. Soprattutto di una «perimetrazione». In pratica tutto è diventato bene comune: ciò non può essere. L’informazione è bene comune, il clima è bene comune, l’etere è bene comune, la città è bene comune, il movimento per la parità maschio/femmina è bene comune; anche una azienda dell’informazione – la RAI, ad esempio –, sarebbe per alcuni un bene comune[2].
Ogni cosa è bene comune? Che ne conseguirebbe se davvero fosse che tutto è bene comune? Le contraddizioni nelle quali si entrerebbe per via di questa deriva sono tante e difficili da gestire. Il caso dell’acqua e la sua erogazione è solo un esempio del rischio di cadere facilmente in contraddizione[3].
Principale comunque nella questione della città oggetto di mercato e/o bene comune, è il fattore suolo e la sua proprietà. Anche il suolo per non pochi sarebbe un bene comune. Ma la sua proprietà ovviamente no. E ciò anche per i sostenitori più accesi dell’estensione della nozione di bene comune. Ovviamente, con riferimento alla proprietà non pubblico – collettiva.
Proprietà pubblica e privata. Nella logica della pianificazione urbanistica, si ricorda, privata è anche quella degli enti pubblici, compreso quello pianificante. Per il detentore del potere di piano non c’è differenza (o meglio, non ci dovrebbe essere differenza).
Di fronte a tutta la proprietà[4] il pianificatore deve tenere un comportamento ispirato ai principi della indipendenza, della integrità e della trasparenza. Concordemente, almeno negli statuti fondativi della UE, ritenuti quelli basilari dell’azione pubblica. Nella costruzione di politiche, leggi, norme e regolamentari e nella loro applicazione.
Ed ecco il punto: come abbiamo trattato finora la proprietà, alias l’assegnazione dei diritti di edificazione previa la definizione delle destinazioni d’uso del suolo?
Uso «disinvoltamente» la nozione di diritto edificatorio e non più quella di previsione edificatoria. Da tempo ritengo che questa mutazione sia avvenuta. Di certo a seguito del D.lgs. n. 70/2011[5].

2.    Nella tradizione, in via autoritativa cioè secondo il principio di autorità. Nella nuova concezione del rapporto pubblico privato, che riconosce un ruolo molto più significativo al privato nel processo decisionale collettivo, questa impostazione culturale ed amministrativa è ancora valida?
Ne discuterò più avanti.
Nella sostanza, si definisce la ripartizione del suolo sulla base di un disegno di città ispirato a criteri di funzionalità e di forma urbana, di giustizia redistributiva, di contemperamento dei conflitti sociali ed economici ed, oggi, anche di sostenibilità ambientale[6].
Le funzioni di sempre dell’urbanistica; alcune accentuate dopo che Colbert fa divenire la città «piatto imponibile» e con essa l’urbanistica, da disciplina dei comportamenti sociali ed individuali (rappresentata nel Codice civile e prima ancora nei Regolamenti di igiene), a disciplina strumento dei sistemi di imposizione fiscale[7].
Non a caso per molto tempo si è discusso sulla possibilità di assegnare l’arma dell’imposizione fiscale all’urbanistica: tasse di localizzazione, tasse sulle attività produttive nel rapporto con lo spazio, «redevance» nel caso che una localizzazione è ammessa, ma non è considerata quella preferenziale dal piano urbanistico.
Mi sto riferendo a paesi dove il rapporto tra urbanistica e imposizione fiscale è meno sbilanciato che da noi. A favore cioè dell’idea che la città sia soprattutto «piatto imponibile» e che la fiscalità possa servire a ben pianificare la città e non solo per reperire le risorse necessarie anche alla città. Ovviamente la leva fiscale si può applicare come incitatrice. Quindi nel senso di ridurre il carico fiscale in parte o totalmente. Ma nuovi problemi, proprio di natura concorrenziale si aprirebbero[8].
Ricordo che nel nostro ordinamento tributario sono assoggettate all’ICI (in prospettiva all’IMU) anche le aree di futura urbanizzazione[9]. E che quelle agricole sono tassate in rapporto alla distanza da queste.
Con buona pace di chi ritiene non conformativo della proprietà il piano strutturale comunale!
Effetto di quel disegno è stato, appunto dopo Colbert, lo sviluppo dello strumento della zonizzazione.
Di recente, per fortuna, alcuni «fattori» sono divenuti «valori» e quindi dirimenti, assolute o relative, nella ripartizione del suolo. Mi riferisco ai valori della natura e del paesaggio. Non più meri fattori di localizzazione, ma, appunto, valori assolutamente da conservare e valorizzare se si è capaci di farlo.
Il risultato della zonizzazione, operata oltre il riconoscimento dei valori di cui sopra, sulla base di criteri complessi quali il rapporto tra localizzazione, giaciture del suolo, dotazioni territoriali di contesto e specifiche – questione che ricorda i famosi contributi di miglioria generici e specifici introdotti dai «governi Giolitti» agli inizi del secolo scorso – è l’«affettazione» (così definiscono questa pratica in Francia) del suolo.
Cioè le destinazioni d’uso del suolo, opportunamente ripartite.
Un tempo stabilite in via prescrittiva: l’uso che si può fare del suolo è solo quello previsto dal piano[10]. A volte previsto molto dettagliatamente ed unilateralmente quasi arbitrariamente; addirittura «capricciosamente» secondo qualche giudice amministrativo.
Oggi?
Oggi si cerca di disciplinare gli usi in una logica di «performance». Al minimo, la disciplina è operata nella logica di «consentire tutto ciò che non è vietato». Si definiscono solo gli usi che non possono essere esercitati. Per il resto, si opera nella logica della compatibilità con categorie ampie di destinazioni d’uso.
Ambientale in senso lato, dapprima; funzionale subito dopo.
È ovvio che un piano urbanistico costruito per consentire l’esercizio di questo approccio culturale e metodologico è ben diverso da quello autoritativo – prescrittivo – predittivo di un tempo.
Diversi sono anche gli strumenti di valutazione di un simile piano: ambientale, di fattibilità economica e di viabilità amministrativa. Nonché sociale.
Diversa è anche la comunicazione di un tale piano, nonché la partecipazione sociale alla sua costruzione. Al riguardo ricordo quanto di recente avvenuto in Francia: il Consiglio di Stato ha censurato la legge sul «débat public», che ispira quella sui «grands chantiers» – che tutti invidiano e tentano di mutuare! – in quanto sarebbe poco attenta a realizzare i principi della «democrazia deliberativa».
Per concludere sulla questione dello zoning/zonizzazione voglio ricordare la tendenza culturale – che inizia a concretizzarsi -, favorevole al superamento dello zoning a vantaggio del «contratto»[11]. Dallo zoning al contratto sugli usi del suolo: questo sembra essere il destino di questo particolarmente importante «attrezzo» dell’urbanistica.
Del resto anche nella definizione dei valori basici di un ambiente, solo un accordo sugli stessi, preceduto da una negoziazione esplicita, consente di superare questioni insuperabili: posizioni scientifiche, sistemi di interesse, sensibilità di singoli e collettive, etc.
Una volta «affettato» il suolo, si definiscono le intensità d’uso. Con i famosi parametri urbanistico-edilizi: densità territoriali, densità fondiarie ed edilizie, altezze degli edifici, distanze tra loro, le strade, i confini di proprietà, etc.
Ritorno sulla questione del partenariato pubblico privato. E’ un rapporto che conosciamo da molto tempo. La convenzione urbanistica è lo strumento con il quale si realizza[12]. Ma non è più questo il punto. La convenzione urbanistica che conosciamo, per usare un’espressione facilmente comunicabile, ma imprecisa, è posizionata «a valle» del piano, in fase di attuazione dello stesso.
Ciò è insoddisfacente per i principi comunitari e statali più recenti.

Il nuovo e più significativo rapporto pubblico privato, in una concezione meno autoritativa del piano urbanistico, si gioca «a monte». Cioè nella fase di concezione del piano[13].
Come si fa a realizzarlo? Sono sufficienti i cosiddetti «apporti collaborativi» che molte leggi regionali suggeriscono/impongono di ricercare ai Comuni che si accingono a formare un nuovo strumento urbanistico generale?
Certamente no.
Nella nuova concezione il privato infatti concorre a formare la domanda pubblico-collettiva; la sua partecipazione costituisce una forma di validazione della stessa.
Occorre pertanto individuare un modo per realizzare la partecipazione del privato alla formazione del piano già nella fase iniziale, quando se ne definisce il cosiddetto «concept».
La modalità, indipendentemente dalla forma che questa partecipazione potrà avere, deve rispettare il principio di concorrenza oltre quello ben più primario dell’interesse generale ovviamente[14].
Il pubblico dovrà valutare le idee, gli apporti, le proposte/disponibilità (da qui l’istituto del «contratto di disponibilità») del privato.
Il pubblico potrà anche «premiare» le proposte migliori sotto il profilo sociale, ambientale, architettonico, etc., che vengono dal mercato.
Ma dovrà superare la condizione che per essere destinatari di diritti di costruire è «sufficiente» essere proprietari del suolo.

3.    Un tempo, che per qualcuno ancora correttamente debbo segnalare non è passato, tutto ciò lo facevamo nella considerazione che quello che veniva definito nel gioco combinato destinazioni d’uso/ intensità d’uso erano delle previsioni edificatorie. Da qualche tempo a questa parte come ho già avuto occasione di ricordare, ciò non lo è più. Di fatto si tratta di veri e propri diritti edificatori. Da quando?
Implicitamente da quando anche la potenzialità edificatoria viene tassata, cioè da quando si è introdotta l’ICI (dal 1° gennaio 1993).
Più nettamente con il d.l. n. 112/ ed ora anche con il già ricordato D.l. 70/2011.
È a questo punto che la questione del principio di concorrenza e la pianificazione urbanistica rischiano la collisione
Ritorna la questione: è sufficiente essere proprietari del suolo perché si possa esercitare il diritto edificatorio? E che sia possibile aspettare senza conseguenze se non quelle di dover pagare delle tasse, che il suolo di cui si detiene la proprietà diventi funzionale alle esigenze collettive, perché si possa esercitare il diritto edificatorio?
Evidentemente no! E allora?
Già prima ho accennato alla questione della competizione tra proprietari per essere destinatari di diritti di edificazione.
Ricordo la precisazione che le proprietà che devono fra loro competere sono anche quelle pubbliche.
Anche ad esse saranno assegnati diritti edificatori per mezzo della competizione.
Del resto non è già quello che accade – o meglio dovrebbe accadere -, ad esempio nel caso delle concessioni di spiaggia? È solo un esempio. Anche divertente per gli urbanisti.
Al di qua del lungomare di una qualunque città costiera, di un qualunque «waterfront», i diritti d’uso sono di fatto nella disponibilità piena della proprietà fondiaria. Al di là, vanno (andranno) conquistati, vincendo una gara tra contendenti.
Che differenza c’è tra le attività ricettive, di tempo libero, ricreative, etc., che si svolgono al di qua e quelle che si svolgono al di là del lungomare? In pratica nessuna. Sono tutte e allo stesso modo attività turistico-commerciali, ricreative, ricettive, etc., differenziate tra loro solo per livelli qualitativi e tariffe d’uso/accesso.
Per inciso ricordo che dal 2015 le concessioni di spiaggia dovranno essere assegnate previa gara.
La UE ha solo consentito una deroga dell’applicazione di questo principio, così «sanando» la situazione in essere. Di tutt’altro segno.
Altri esempi tratti dalla pratica, potrebbero essere quello della pianificazione dei porti turistici, molto vicino a quello delle spiagge e quello dell’assegnazione dei diritti di costruire nel passaggio dal piano strutturale a quello operativo. Sono numerosi i comuni che hanno tentato la strada dei confronti concorrenziali, appunto, per operare questo in certo passaggio.
Vengo al cuore del mio ragionamento.
Se non è sufficiente essere proprietari perché si esercitano i diritti di edificazione, come si assegnano i diritti edificatori.
Come si pianifica tale processo? Cosa diviene, di conseguenza, il piano urbanistico?
Da sempre il piano urbanistico è la «banca dei diritti di costruire», ma senza che ne abbiamo coscientemente voluto prenderne atto. Ci piacevano e ci consolavano altre definizioni. Tra quelle che ho citato prima come «mission» dell’urbanistica, non ho menzionato quella più materiale e per questo meno gradita: l’urbanistica, la disciplina che «trasforma la terra in terreno». Cioè in qualcosa da vendere.
Colgo lo spunto per segnalare la curiosa assenza di riflessione italiana sull’economia immobiliare: quanti lavori di autori italiani esplicitamente riferibili a questa articolazione dell’economia conosciamo? Ben pochi!
Lo so, ragionando così, do per scontato che sia avvenuta nei fatti la separazione tra proprietà del suolo ed edificabilità. Che si sia realizzata realmente, ma appunto di fatto, questa tanta auspicata separazione. Cioè che ci si trovi ad operare nella logica generalizzata della concessione di sfruttamento del suolo anche quando questo è di proprietà privata.

La generalizzazione dell’applicazione della perequazione urbanistica insieme alla concessione d’uso di beni pubblici – il caso delle spiagge è solo uno di quelli che si possono segnalare –, variamente distribuiti nella città, non hanno cambiato il panorama della assegnazione dei diritti di edificazione?
Sono ammissibili due regimi? Quali le conseguenze? Sul fronte dei principi e nella pratica.
L’obiettivo della giustizia fondiaria sarebbe raggiunto? E con esso quello, ben più impegnativo, della «città giusta»?
Su come farlo, la risposta è forse più semplice.
Lo strumento al quale si guarda – quanto da me affermato intriga molto anche altri paesi che si trovano ad operare nella legislazione della UE -, è quello del «dialogo competitivo»[15].
L’amministrazione pianificante forma la domanda pubblica facendo competere le proprietà, sulla base di un quadro esigenziale.
Come sarà definito il quadro esigenziale? Quanto dettagliato? Questi alcuni dei problemi nuovi che dovremo affrontare.
In proposito si segnala il percorso critico nel caso delle previsioni in materia di dismissioni di beni demaniali, soprattutto allorché a competere per l’acquisizione fosse la stessa amministrazione locale oltre che i privati.
Il vantaggio informativo di per sé costituirebbe un grave vulnus al principio di concorrenza.
Ritornano le questioni della disciplina delle destinazioni d’uso, del superamento dello «zoning» a favore di contratti d’uso e/o di localizzazione, etc.
Le conseguenze sono il terremoto nella proprietà e, finalmente, la nascita (forse?) della figura del promotore/developer. Finora molto rara in Italia.
La concorrenza dovrebbe favorire il contenimento della rendita e quindi un abbassamento dei prezzi del suolo e quindi dei prodotti urbani.
Nello stesso tempo la diversificazione degli stessi.
Quanto da me sostenuto configura una novità assoluta?
La risposta è no.
E non tanto perché nella legislazione in materia di contratti pubblici – D.lgs. n. 163/2006 e Regolamento di cui al DM n. 207/2010 -, il dialogo competitivo è già disciplinato, seppure come forma residuale di assegnazione di contratti pubblici.
Quanto perché quei Comuni che hanno utilizzato lo strumento del «programma integrato» di cui alla legge n. 179/1992, art.16, per soddisfare esigenze di settori funzionali (ricettività, parcheggi, etc.) e non quelle di una porzione di città, lo hanno già sperimentato. Forse inconsapevolmente.
Altrettanto hanno fatto le città che hanno configurato i diritti di costruire tramite confronto concorrenziale nel passaggio del cosiddetto piano strutturale comunale e a quello operativo.
Con successo, anche se sono state molte le difficoltà. Soprattutto quelle che potremmo definire di mentalità.
Ciò che propongo è la generalizzazione all’intera città di questo approccio.
Più diviene difficile prevedere (gli usi, in concreto) –  perché le cose cambiano rapidamente – più la domanda di trasformazione si fa sofisticata; le risposte  a questo problema devono essere inevitabilmente altrettanto sofisticate. Se la crisi fiscale dello Stato centrale e locale permane, questo approccio si mostra essere sempre più quello giusto.
A meno che non si creda che sia possibile ritornare al passato: approccio alla decisione di tipo autoritativo, supportato da risorse economico-finanziarie quasi esclusivamente pubbliche.
E che anche in urbanistica possa affermarsi il «vintage»?
La società lo permetterebbe? Non si rischierebbe un’ulteriore divaricazione tra disciplina e società?
Quale sarebbe in questa eventualità la «mission» prevalente dell’urbanistica?
Molto probabilmente quella della «ostalghia», oggetto negli ultimi anni di tante mostre d’arte?

Note

1.  Giacomo Vaciago con Andrea Monticini hanno scritto di recente «Un pò Keynes, un pò liberisti: niente dogmi contro la crisi» (il Sole 24 ore, mercoledì 07 dicembre 2010), dove appunto si sostiene la necessità di un approccio «laico» e «pragmatico». Naturalmente altri autori sono di parere contrario: Cfr., ad esempio, David Harvey, Le capitalisme contre le droit à la ville. Néolibéralisme, urbanisation, résistences, Éditions Amsterdam.

2.  Cfr., G.J. Martin, “«Les biens environmentaux», biens communs on biens marchands?”, «Les nouveaux marchés de l’environment» Les dossier de la RIDE, n. 3/2011; F.G. Trébulle, “Les titres environnementaux”, in Les concepts émergent en droit des affaires, LGDJ, coll. Droit et economie, Parigi 2010; Isabelle Doussan, “Nature à vendre”, «études foncières», n. 154/2011.

3.  Questa è una parziale raccolta di titoli giornalistici e di dichiarazioni di esponenti della cultura e della politica a dimostrazione appunto della «deriva» cui la dilatazione della nozione di bene comune ci sta portando. Con il rischio di «riscoprire» gli usi civici!

4.  Più che alla nozione giuridica voglio riferirmi a quella culturale ben più ampia; Cfr., Robert Castel, Claudine Haroche, Propriété privée, propriété sociale, propriété de soi, Fayard, Parigi 2011.

5.  D.L. 13 maggio 2011, n. 70 convertito con modificazioni dalla l. 12 luglio 2011, n. 106.

6.  L’aspirazione è quella ovviamente di realizzare la «città giusta»; cfr., Susan S. Fainstein, The Just City, Cornell University Press, Ithaca and London, 2010.

7.  Questa sintetica definizione la si trova nei lavori del Consiglio di Stato francese allorché, a richiesta del governo, formula proposte per la riforma del diritto urbanistico; cfr., Conseil d’Etat, L’urbanisme: pour un droit plus efficace, Les études du Conseil d’Etat, La Documentation Française, Parigi 1992.
Di particolare interesse in questo contesto è la raccolta di saggi curata da Philippe Genestier, Vers une nouvel urbanisme. Faire la ville, comment, pour qui?, La Documentation Française, Parigi 1996; ed anche il contributo di Tierry Viemin, “Nouveau regard sur l’amenagement”, «études foncières», n. 153/2001, è molto utile al riguardo.

8.  Aa. Vv., “Les aides fonciéres sont-elles compatibles avec le Marché commun?”, «études fonciéres», n. 146/2010.
Si ricorda al riguardo l’avvio della procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea nei confronti dell’Olanda.
Il fatto che sia molto elevata la quota di patrimonio pubblico residenziale è ritenuto un possibile «vulnus» al principio di concorrenza. La dotazione di patrimonio pubblico residenziale potrebbe infatti rappresentare una forma impropria di aiuto di stato . Quindi una alterazione del mercato!
Più in generale la fiscalità è considerata nell’aspetto relativo al prelievo, in specie alla misura del prelievo, oramai molto elevato un po’ ovunque in Europa; cfr., Rémy Petiot, “Devorante fiscalité”, «études foncières», n. 153/2011.

9.  E ciò dalla sola adozione dello strumento urbanistico locale, comunque definiscano questo strumento le leggi urbanistiche regionali.

10.  Della enorme letteratura sullo «zoning», segnalo esclusivamente il lavoro di Jean Ruegg, Zonage et propriété foncière, ADEF, Parigi 2000.

11.  G. Perrin – Gaillard, Philippe Durand, Une strategie pour l’avenir, Rapport al Primo Ministro, La Documentation Française, Parigi 2002.

12.  L’istituto è ben noto e studiato (cfr., il recente lavoro di Marzia De Donno, “Il principio di consensualità nel governo del territorio: le convenzioni urbanistiche”, «Rivista Giuridica dell’Edilizia», anno LIII, Fasc. 5/2010). Può essere interessante, anche per il non giurista, guardare questo istituto in rapporto a quanto avvenuto un Francia a seguito delle censure alla «convention d’aménagement», a base delle «societé d’économie mixte local» (alle quali si sono ispirate le nostre società di trasformazione urbana), da parte della Corte di Giustizia Europea. Tra i contributi più recenti, cfr., “«Les concessions d’aménagement». A’ la récherche d’un cadre juridique”, Dossier coordinato da Patrick Hoecreitère, «études foncières», n. 147/2010.

13.  Cfr., il Dossier: “Quelle place pour les acteurs dans l’aménagement urbain?, «études foncières», n. 144/2010. In particolare, Jean – Louis Subileau, “Aménagement urbain, du decret au contrat. Une nouvelle manière de faire la ville?; Pierre Bousquet, “L’aménagement public/privé. Chimère, opportunité ou vision à long terme?”.

14.  Philippe de Lara, “L’intérêt général entre justice et communauté”, Vers une nouvelle urbaniste, op.cit.

15.  Si tratta d’uno strumento previsto dalla Direttiva della UE su appalti forniture e servizi, disciplinata con il Codice dei contratti pubblici (n. 163/2006) e dal Regolamento Attuativo dello stesso (n. 207/2010), all’art. 58. Ma in forma residuale e limitatamente agli appalti lavori. Anche se nelle prime applicazioni (o tentativi di applicazione) il «contenuto» urbanistico è molto significativo. In altri paesi la sua utilizzazione è molto diffusa. In specie nelle «grandi opere». Di recente la realizzazione dell’idrovia Parigi Nord è stata aggiudicata tramite questa procedura. Ma anche la pianificazione urbanistica è molto interessata ad esso (cfr., nota 14). Il D.l. n. 1/2012 detto «Cresci Italia», all’art. 47, prevede una rivisitazione dell’art. 58 del Codice dei contratti.