La salute del Servizio Sanitario Nazionale: ApertaContrada intervista Claudio De Vincenti alla ricerca dei sintomi, della diagnosi e delle possibili terapie

Intervista al Prof. De Vincenti sul volume Astrid “La sanità in Italia Organizzazione, governo, regolazione e mercato”

Il valore primo del Quaderno di Astrid, “La Sanità in Italia”, oggetto della nostra intervista a Claudio De Vincenti, curatore e autore della pubblicazione (assieme a Renato Finocchi Ghersi e a Andrea Tardiola), è probabilmente quello di essere efficacemente riuscito nel chiaro intento di riunire in un unico contributo gli aspetti caratterizzanti e le problematiche centrali dello scenario sanitario italiano, assumendo, grazie alla sua esaustività, un ruolo di guida e di orientamento nel non facile dibattito odierno intorno alle numerose incognite riguardanti il futuro del nostro Servizio Sanitario Nazionale.
Non dimenticando di evidenziare i punti di forza di questo modello, gli autori identificano tutti i limiti di un’idea di tutela che, forte di un’impostazione iniziale complessivamente vincente, appare, oggi, esitante dinnanzi a oggettive esigenze di ammodernamento e minacciata nella sua stessa filosofia di fondo da una (voluta?) inerzia endemica.
Prendendo le mosse dalla innegabile constatazione dell’esistenza di importanti sfide che i sistemi di welfare dei paesi sviluppati, in generale, e quello italiano, in particolare, si trovano ad affrontare, occorre ragionare attentamente intorno a cosa abbandonare, cosa cambiare e cosa, invece, portare con sé in una necessaria operazione di riforma che, sia pur tra attriti, incertezze e contraddizioni, impegna da anni l’agenda politica dei governi di ambedue gli schieramenti, per evitare che il ritardo e l’emergenza giustifichino interventi incoerenti e che si possano nascondere, dietro alla necessità di soddisfare esigenze reali, scelte politiche difficilmente spiegabili alla luce dell’interesse economico-sociale del nostro paese e del benessere del cittadino contribuente. La posta in gioco è alta: la sanità non è soltanto un insieme di servizi, ma un potentissimo motore di sviluppo economico, un gigantesco bacino occupazionale, uno sbocco altamente profittevole per investimenti in alta tecnologia, un circuito di finanziamenti e risorse importanti per tutto quanto concerne la R&S e, soprattutto, è un settore a domanda inesauribile, ininterrotta e potenzialmente sempre crescente. Gli interessi coinvolti sono tanti, vitali per la società civile, per la finanza pubblica, per l’imprenditoria e il mondo del lavoro e spesso collidenti, ma forse ogni scelta deve essere compiuta salvaguardando e mai sacrificando l’obiettivo primo, che dovrebbe essere e dovrebbe rimanere la salute degli individui.
Ed è proprio nello sforzo di comporre tensioni divergenti, tutte in principio legittime, che il mondo politico è chiamato a realizzare un quadro di riferimento chiaro, un’infrastruttura giuridica solida, nella consapevolezza, però, che nella definizione di nuovi equilibri è sempre, inevitabilmente, espresso un giudizio di valore.
Tutto questo emerge con lucidità e onestà intellettuale nell’intera trattazione, a prescindere dalla tematica affrontata e dalla sua delicatezza politica. Data l’impossibilità di dedicare, in questa sede, un’attenzione adeguata a tutti gli elementi che, in vario modo, compongono il sistema-salute, abbiamo preferito selezionare tre macro-tematiche, ampiamente e dettagliatamente affrontate nel volume, che esprimono bene il senso e la portata di questa complessità e multidimensionalità: la farmaceutica, la sanità integrativa e la questione della qualità, in particolare nel rapporto con l’elemento concorrenziale.

La parte terza del Quaderno Astrid si apre con un importante capitolo di cui Lei è l’autore. Nel titolo, “Mercato e intervento pubblico nel crocevia della farmaceutica”, si vuole appunto mettere in primo piano la valenza molteplice che la farmaceutica e le sue prospettive di sviluppo rivestono per il cittadino, per lo Stato e per l’industria italiana del farmaco (la quale si colloca per produzione e ampiezza del mercato nelle prime posizioni europee e mondiali), al punto che la riforma del 2007 è da Lei valutata nella sua capacità di rispondere a esigenze contrapposte.
Vorremmo, appunto, chiederLe in che misura la nuova normativa si è dimostrata capace di realizzare una piattaforma di regole e di garanzie che fosse in grado di favorire una sana competizione tra le imprese, un dinamismo proficuo e la stabile crescita di un settore fortemente profittevole e fisiologicamente prossimo all’avanguardia scientifica (e, quindi, centrale per l’intera economia italiana), incanalando, però, lo sviluppo dell’industria farmaceutica nel quadro della valorizzazione dei prodotti innovativi di certificata efficacia (auspicati dal cittadino-paziente, ma mortificati dall’elevato volume di investimenti richiesti dall’attività di ricerca e dall’incertezza degli esiti), senza che tale sforzo si riversasse sulla già precaria situazione della nostra finanza pubblica. Al di là dell’impatto della legislazione nazionale vigente, qual è il ruolo che un’opzione per la regolazione dei prezzi e, in particolare per un differente pricing tra i prodotti nuovi e i farmaci off-patent, è in grado di giocare nel determinare una convergenza tra l’interesse degli assistiti del SSN a fruire di terapie e trattamenti sempre più efficaci, l’inevitabile tensione dell’industria farmaceutica ai facili profitti (lei stesso denuncia il numero molto limitato di farmaci innovativi presentati, oggi, dalle imprese per l’Autorizzazione all’Immissione in Commercio, AIC) e l’attenzione del governo all’equilibrio dei conti e, in quanto garante dell’interesse collettivo, al benessere psico-fisico dei propri cittadini?

Lei mi chiede quale è il ruolo che la regolazione dei prezzi può giocare nel promuovere l’innovazione, ovvero quei farmaci innovativi che diano un contributo di innovazione terapeutica, nell’incentivare l’impresa verso la ricerca e nel garantire il governo dei conti pubblici. Io direi che dobbiamo partire dalla constatazione che nel nostro paese abbiamo una struttura dei prezzi dei farmaci ancora squilibrata, ossia abbiamo, nel confronto con i nostri partner europei, prezzi dei farmaci innovativi comparativamente più bassi, prezzi dei farmaci maturi in patent (cioè ancora sotto brevetto) più alti e prezzi dei farmaci off patent (fuori brevetto) relativamente alti. Ciò che finora è mancata è un’operazione di riequilibrio nella struttura dei prezzi. Quella attuale è una struttura che non premia l’innovazione, ma premia il marketing. Lei parla di una tensione dell’industria farmaceutica ai facili profitti; tuttavia, esiste una normale tensione dell’industria, in generale, a fare profitti e questo lo trovo fisiologico. Naturalmente, l’investimento in ricerca è altamente rischioso nel settore farmaceutico. Sappiamo che sul complesso delle molecole che vengono sottoposte a processi di ricerca per nuove terapie solo una percentuale molto bassa arriva poi a diventare un farmaco: c’è un elevato rischio di insuccesso a fronte di costi di ricerca elevati. E’ chiaro che l’industria tende, dove non c’è un adeguato premio per il prodotto innovativo, a tentare di sviluppare attraverso il marketing la vendita di prodotti già sperimentati. Ecco che si rende necessario riequilibrare la struttura dei prezzi. La riforma del 2007 va in questa direzione, fondamentalmente, attraverso due strumenti: il primo consiste nel dare vita a un fondo specifico, all’interno del tetto della spesa farmaceutica, specificatamente dedicato ad attribuire prezzi remunerativi per i farmaci nuovi, o meglio, contenenti innovazione; l’altra operazione è quella di utilizzare almeno una parte dei risparmi di spesa derivanti dalle uscite di brevetto dei farmaci maturi per alimentare questo fondo. Si tratta di un meccanismo logico che ha già in parte funzionato. Tuttavia, di fatto, abbiamo constatato che i farmaci presentati in questi tre anni per l’AIC, aventi un grado di innovazione significativo, sono stati pochi. Quindi, il fondo risulta ancora sottoutilizzato. Quali sono le ragioni di questa sottoutilizzazione? Direi che Il fenomeno dipende da due questioni. La prima è, in realtà, indipendente dalla riforma e legata, piuttosto, a una tendenza di lungo periodo riguardante il processo di innovazione farmaceutica: assistiamo, infatti, da anni, a una flessione della produttività della ricerca; in altri termini, il numero dei farmaci innovativi presentati negli ultimi anni per l’AIC è andato in tutto il mondo via via riducendosi e, parallelamente, la spesa per ogni farmaco nuovo, la spesa sostenuta in R&S dalle imprese, è andata aumentando. Si assiste, quindi, rispetto alle ondate di innovazioni farmaceutiche dei decenni trascorsi, a una flessione della produttività della ricerca. Ciò dipende da molte cose che, chiaramente, vanno anche al di là della struttura di mercato. C’è, però, un altro elemento che occorre tenere in considerazione: la riforma varata nell’autunno del 2007 ricavava il fondo all’interno del tetto sulla spesa territoriale, cioè quella che passa per le farmacie e per la cosiddetta distribuzione diretta ospedaliera (in parte i farmaci di fascia A[1] sono, infatti, forniti direttamente dagli ospedali agli assistiti). L’innovazione va, però, ormai da qualche anno orientandosi soprattutto sui farmaci di tipo H, cioè per uso ospedaliero e non territoriale. Questo shift è uno dei motivi per cui la spesa farmaceutica ospedaliera è cresciuta di più in questi anni rispetto alla spesa farmaceutica territoriale. Occorre, quindi, pensare a un miglioramento della riforma del 2007 in modo da governare meglio la spesa farmaceutica ospedaliera destinata ai farmaci innovativi, creare qui uno spazio, contenere anche a livello ospedaliero la spesa per i farmaci maturi e per i farmaci off patent e dare maggiore spazio in quell’ambito alla spesa per i farmaci innovativi. Va aggiunto che il riequilibrio della struttura dei prezzi è ormai in corso: l’AIFA sta ricontrattando i prezzi dei farmaci maturi e ha di recente ridotto in misura consistente i prezzi dei farmaci off patent. Attualmente, possiamo vantare un livello dei prezzi dei farmaci off patent in linea con la media europea, se non al di sotto di questa: quindi, la situazione è cambiata rispetto a qualche anno fa. Per i farmaci maturi in patent bisogna cercare di realizzare, alla stregua di altri paesi, una sorta di ciclo del prezzo del prodotto dove i prezzi sono più elevati al momento dell’immissione in commercio, per poi progressivamente ridursi via via che il farmaco, pur rimanendo in patent, invecchia.
Il ricorso a farmaci generici fuori brevetto copia di off patent dipende non solo dalla metodologia di prezzo, ma anche dal comportamento dei medici di medicina generale che dovrebbero rendere i cittadini più consapevoli dell’equivalenza terapeutica tra il generico e il cosiddetto originator, cioè il farmaco che aveva per la prima volta introdotto quel principio attivo. Lo spostamento verso i generici dipende, poi, molto dall’assetto della distribuzione farmaceutica, tema al quale viene dedicato nel volume molta attenzione: la distribuzione farmaceutica, cioè l’assetto di mercato delle farmacie, è, infatti, parecchio arretrata. E’ vero che tale inadeguatezza non riguarda solo il nostro paese, ma è altrettanto vero che si tratta di un aspetto che pone molte criticità e che richiede un intervento regolativo urgente: non solo la struttura dei margini a favore delle farmacie non incentiva il farmacista a vendere il generico in sostituzione del farmaco a prezzo più alto, essendo in realtà i margini non sufficientemente regressivi rispetto al prezzo, ma non si può sottovalutare il dato di fatto della scarsa concorrenza di questo segmento della filiera (ci sono una serie di note barriere all’entrata che tutelano fortemente i farmacisti e consentono loro di tenere alti i margini). Però questo è un discorso che va un po’ al di là del pricing. Sul pricing il punto chiave è questo processo di riequilibrio dei prezzi, il quale è in corso e che è stato aiutato dalla riforma. E’ su questo punto che la riforma dovrà essere migliorata per consentire, soprattutto dal lato del governo della spesa ospedaliera, di avere a disposizione strumenti che permettano di dare adeguati premi di prezzo sull’innovazione.

La questione della sanità integrativa è forse l’aspetto che più di ogni altro mette in evidenza la presenza nel “mercato” della salute di un conflitto di interessi, difficile da comporre, tra i diversi stakeholder. Nel Quaderno di Astrid viene data voce a punti di vista differenti, dai quali si ricava una visione di insieme dei possibili benefici e delle potenziali conseguenze negative associabili alla creazione di un secondo pilastro nel finanziamento dei trattamenti/interventi sanitari. La disciplina in materia appare, tuttavia, equivoca: anche tralasciando, al momento, le perplessità, riportate nell’ultimo capitolo del volume, riguardo alla concreta funzionalità dei c.d. fondi doc (e sulle quali vorrei tornare più avanti), non è chiaro come si possa conciliare l’assetto universalistico del modello italiano di sanità con l’introduzione della medicina non convenzionale da una parte e delle quote di compartecipazione al prezzo dei servizi ricompresi nei Livelli essenziali di assistenza (LEA) dall’altra, nell’elenco tassativo delle prestazioni considerabili servizi integrativi ai fini del riconoscimento dell’agevolazione fiscale ex art. 9 D.Lgs 30 dic 1992. Se è vero che le forme di spesa out of pocket, ossia i pagamenti diretti a carico dei singoli cittadini (tipologia di spesa che costituisce la gran parte della spesa sanitaria privata in Italia) costituiscono una forma di finanziamento profondamente discriminatoria (sia perché ricadono sui soli soggetti che si trovano ad affrontare esigenze sanitarie sia in quanto vengono meno a ogni buona norma redistributiva di gradazione dell’onere in funzione della disponibilità economica) e che il SSN non è al momento in grado di garantire la tutela per prestazioni rilevanti, come l’odontoiatria o come quelle rivolte a fronteggiare condizioni fortemente invalidanti quali quelle a vario modo connesse con il problema della non autosufficienza, è vero anche che l’estensione alla medicina complementare e ai ticket sanitari della disciplina relativa ai fondi doc sembra andare incontro alle ambizioni di crescita del mondo assicurativo privato piuttosto che alle esigenze dei cittadini contribuenti. In particolare, vorremmo chiederLe come l’inserimento nell’ambito residuale di competenza dei fondi doc della medicina non convenzionale possa conciliarsi con i criteri dell’evidence based e se la protezione del cittadino, di cui si fa carico lo Stato in un Servizio sanitario nazionale, da trattamenti di dubbia efficacia terapeutica possa o debba considerarsi circoscritta all’ambito del servizio pubblico. In secondo luogo, ci piacerebbe conoscere la sua posizione in merito all’opportunità di incanalare le quote di copayment, quando concepite nel perseguimento di una maggiore responsabilizzazione individuale al consumo, in un regime assicurativo, per sua natura esposto a quei comportamenti irresponsabili, noti in letteratura come azzardo morale (ovvero perché riportare in regime assicurativo servizi volutamente lasciati al di fuori?). Anche considerando i ticket (la cui valenza disincentivante è da più parti messa in discussione) come sintomatici di una mera incapacità del sistema di sostenere la spesa nella sua interezza, non sarebbe maggiormente auspicabile, nell’intento di ridimensionare l’effetto sperequativo delle forme di pagamento diretto, una declinazione dell’entità del copayment alla luce delle condizioni economiche e di salute dei cittadini? Infine, nel capitolo di Elena Granaglia si dà evidenza di come, sia per quanto riguarda le cure odontoiatriche sia per quanto attiene all’assistenza ai non autosufficienti (ovvero le prestazioni individuate dalla normativa vigente come necessarie per il riconoscimento degli sgravi fiscali), la probabilità che l’evento malattia si verifichi è molto alta e di come sia, quindi, difficile ricondurre la relativa tutela a un meccanismo di ripartizione del rischio, a meno che l’agevolazione fiscale (che altro non è che spesa pubblica) non sia considerevole. In considerazione del carattere di non obbligatorietà della forma assicurativa in questione e dei conseguenti rischi di iniquità, come considera il suggerimento dell’autrice di recuperare il progetto di fondo pubblico nazionale per la non autosufficienza, forse troppo velocemente accantonato?

 Prima di rispondere a queste domande, che sono di grande rilievo, vorrei chiarire come vedo personalmente il ruolo della sanità integrativa. Sono dell’idea che la copertura universale pubblica della popolazione dai rischi sanitari attraverso l’assicurazione pubblica obbligatoria o il finanziamento fiscale non sia solo un elemento di equità, ma anche di efficienza economica, nel senso che l’ampia platea di assicurati, grazie a un servizio sanitario a finanziamento pubblico, consente una ripartizione dei rischi migliore di quanto, invece, sia ottenibile su una platea più ristretta. Aggiungo che dai confronti internazionali risulta che i sistemi sanitari ad ampia copertura universalistica della popolazione mostrano una incidenza della spesa sanitaria complessiva (cioè delle risorse, pubbliche e private, che un paese dedica alla sanità) sul PIL, più bassa rispetto a paesi come gli Stati Uniti che hanno, invece, un sistema largamente basato sulle assicurazioni private. Evidentemente, quindi, quella migliore ripartizione dei rischi implica poi costi complessivi anche macroeconomici più bassi. Ribadisco, quindi, che nel difendere il finanziamento pubblico della sanità non ci sono solo motivi di equità, ma anche e soprattutto di efficienza economica. Detto questo, però, penso che ci sono dei margini di finanziamento individuale per alcune tipologie di prestazioni, che è bene lasciare nella disponibilità dei privati cittadini. Se vogliamo, l’esempio più semplice è quello dei servizi alberghieri: se qualcuno desidera, anziché stare in corsia, stare in camera doppia o singola, non vedo perché si debba limitare o impedire questa possibilità, la quale può trasformarsi in una fonte di finanziamento degli ospedali assolutamente normale e può rispondere a una esigenza di flessibilità nelle scelte individuali, pur in presenza di una tutela pubblica generalizzata.

Ci sono una serie di prestazioni in relazione alle quali è possibile immaginare uno spazio, anche non irrilevante, lasciato alla componente privata della spesa. Riguardo all’Italia, stiamo parlando di qualcosa come 27 o 28 miliardi di euro: circa 1/5 della spesa sanitaria complessiva è sostenuto direttamente dai cittadini. Il punto è come organizzare al meglio questo spazio, come rafforzare la capacità di scelta e il potere di mercato dei pazienti rispetto agli erogatori dei servizi. Da questo punto di vista, un sistema di fondi sanitari integrativi, con una componente assicurativa mutualistica (dal momento che non parliamo solo di fondi con un impianto essenzialmente di tipo assicurativo, quali le casse professionali, ma anche dei fondi mutualistici, come le mutue territoriali) può svolgere un ruolo fondamentale nell’organizzare il lato della domanda e, quindi, nel rafforzare la capacità di scelta e di contrattazione dal lato dei pazienti, che al momento, in presenza di una spesa privata di tipo out of pocket, si ritrovano completamente disarmati dinnanzi al potere di mercato degli erogatori (medici e così via). E’ mio parere che su questo terreno un ruolo dei fondi sanitari integrativi ci sia e, quindi, condivido sia la scelta della riforma Bindi di aprire uno spazio in tal senso sia l’ulteriore intervento del ministro Turco con il quale si è cercato di dare una svolta a una situazione di impasse. I fondi sanitari integrativi, così come erano stati definiti dalla riforma Bindi, i cd fondi doc di cui lei parla, non riuscivano, infatti, a decollare. Chiarire le ragioni dell’insuccesso dei fondi doc ci porta all’altro problema da lei evidenziato, alla luce del quale si spiega l’intervento del ministro Turco. I fondi doc non decollavano perché nelle forme doc prevalgono i trattamenti difficilmente assicurabili, che lei mette in luce alla fine della sua domanda, e cioè l’odontoiatria e quei trattamenti su cui, in generale, è più difficile diversificare il rischio. L’intervento del ministro Turco è stato quello di consentire ai fondi non doc, che coprono un insieme più ampio di prestazioni e quindi diversificano meglio il rischio, di accedere allo stesso trattamento di vantaggio fiscale previsto per i fondi doc, a condizione, però, che tra le loro prestazioni, almeno una certa percentuale, per ora in modo sperimentale fissata al 20%, sia dedicata a odontoiatria e non autosufficienza, cioè a quella parte che il Servizio sanitario nazionale ha difficoltà a garantire a tutti attraverso i LEA. Sostanzialmente la ratio è stata quella di spingere a diventare sempre più integrativi i fondi che ancora non lo erano. Però stiamo attenti perché per poterli spingere in quella direzione è stato comunque necessario consentire loro una diversificazione del rischio anche su altre attività. Dove potrà arrivare quella percentuale relativa all’aspetto integrativo? Io penso che può andare oltre il 20%. Il 20% è stato fissato per cominciare a capire se il sistema poteva funzionare. Si tratta di vedere adesso come funzionerà. Fin dove può arrivare non sono in grado di dirlo ma penso che possa andare abbastanza oltre quella soglia. Il che significa che a quel punto avremo almeno una parte di sanità integrativa che comincia a funzionare e a organizzare il lato della domanda, per esempio per prestazioni odontoiatriche, in modo più robusto di oggi. Tutto quello che ho detto ha un senso, però, se concepito all’interno di un sistema sanitario nazionale con ampia copertura pubblica universalistica, dove i fondi sanitari coprono una fascia di rischi particolare e, comunque, non si devono sobbarcare l’intero ventaglio di rischi sanitari. Relativamente alla critica che fa Elena Granaglia sulla questione della difficile assicurabilità di odontoiatria e non autosufficienza a causa dell’insufficiente diversificazione del rischio, la mia risposta è che non è un caso che per ora la quota minima di tali servizi è limitata al 20%. Potremo spingerci, come dicevo prima, più avanti ma non credo che potremo dire che i fondi possano ricomprendere solo queste prestazioni perché in tal caso non ci sarebbe sufficiente diversificazione del rischio. Poi verrò all’ultima domanda che è molto importante sul fondo per la non autosufficienza. Mi preme, però, dapprima soffermarmi sulla questione dei ticket che lei solleva qui. Io non sono favorevole a mettere i ticket dentro le spese rimborsabili dei fondi sanitari integrativi proprio per quello che lei dice, ovvero perché i ticket hanno una funzione di contenimento dell’azzardo morale. In altre parole, io concepisco essenzialmente i ticket non come forma di finanziamento del sistema ma come forma di contenimento dei comportamenti irresponsabili in parte dei pazienti ma in parte anche dei medici. Noi non ci pensiamo, ma quando mettiamo il ticket sui farmaci, il medico di base che ha di fronte il paziente che gli dice “quanto mi fa spendere?” ci pensa un po’ di più prima di eccedere in prescrizioni. Il ticket è un moderatore dei consumi che agisce nel rapporto medico di base – paziente. Io credo che questa funzione dei ticket sia positiva, e che, in particolare per quanto riguarda le prestazioni farmaceutiche, si rivelino necessari, laddove concepiti in una logica di contenimento del fenomeno di azzardo morale; proprio per questo non ammetterei il rimborso attraverso i fondi sanitari integrativi, rimborso che snaturerebbe la loro funzione. Quindi, secondo me, questo è un punto che andrebbe corretto: io personalmente sono per togliere i ticket dalle spese rimborsabili dei fondi sanitari integrativi. Per quanto riguarda, infine, la questione della non autosufficienza, io credo che lei e Elena Granaglia abbiate in parte ragione, nel senso che non possiamo pensare che la non autosufficienza possa essere risolta solo dai fondi sanitari integrativi.

Tra l’altro, i fondi sanitari integrativi possono darci una mano a coprire quelle spese sanitarie di non autosufficienza che per altro, in larga misura, sono già coperte dal Servizio sanitario nazionale. Ma il grosso del problema della non autosufficienza non è tanto nelle spese sanitarie che in qualche modo il Servizio Sanitario Nazionale copre, anche se in maniera imperfetta (sotto questo aspetto un ruolo dei fondi sanitari è possibile e auspicabile), ma nelle spese di assistenza domiciliare, nelle spese di cura della persona, di cura della casa e così via, che sono spese molto ingenti. Io credo che lì serve un intervento diverso, che esula dal campo di azione dei fondi sanitari integrativi e che dovrebbe richiamarsi a un approccio simile a quello adottato in Germania, dove è stato istituito un contributo sulle retribuzioni che finanzia prestazioni di assistenza ai non autosufficienti: in poche parole, un approccio assicurativo pubblico obbligatorio. E’ a qualcosa del genere che, al di là della specifica forma di finanziamento, dobbiamo pensare. Dobbiamo anche pensare di differenziare le prestazioni in base al grado di non autosufficienza e, parallelamente, la spesa in base alle condizioni economiche dell’anziano. Qui si apre tutto un capitolo che va al di là dei fondi sanitari integrativi. I fondi sanitari integrativi possono dare un contributo nel completare alcuni processi di carattere sanitario: pensiamo, ad esempio, alla situazione dell’ospedale pubblico che dimette, dopo un certo periodo, l’anziano, il quale però ha il problema di completare il percorso assistenziale; in questi casi un po’ di aiuto da parte dei fondi sanitari possiamo immaginarlo,anche se il grosso, secondo me, continuerà a ricadere, per un verso sul sistema pubblico sanitario, per altro verso sulla tutela che andrà costruita attraverso un fondo nazionale pubblico per la non autosufficienza. Qui condivido a pieno l’indicazione di Elena Granaglia circa il fatto che è ormai essenziale e urgente avviare la costruzione di questo fondo.

Un altro argomento che vorremmo affrontare con Lei è quello della qualità, non solo perché ci consente, all’interno del nostro approccio alla sanità quale sistema composito, di compiere, sempre nell’ambito del SSN, il passaggio dal piano del finanziamento a quello dell’ erogazione, ma anche perché esso consiste in uno degli aspetti, oggigiorno, maggiormente enfatizzati tanto nelle strategie dell’attuale governo italiano, quanto nella policy sanitaria di altri paesi. Si tratta di un aspetto di fondamentale importanza che fa da congiunzione tra le riflessioni che, nel dibattito interno e internazionale, ruotano attorno ai temi della competizione tra providers, dell’informazione e educazione in materia sanitaria e dell’empowerment del cittadino. Ed è proprio sulla validità di questa congiunzione che un Suo parere sarebbe prezioso. A partire dall’ambito comunitario, dove recentemente è stato riconosciuto il carattere economico dei servizi sanitari quali servizi di interesse generale, nella prospettiva di ricondurre alle logiche concorrenziali le fattispecie sanitarie e limitare l’intervento pubblico alla risoluzione delle situazioni di market failure, fino al tentativo lombardo di realizzazione di un modello prossimo a quello di libero mercato, dove la Asl si spoglia del suo ruolo di committenza per ricoprire la funzione di terzo pagatore, è stata privilegiata una lettura della valorizzazione delle performance sanitarie e della selezione dell’offerta sul piano della qualità che pone al centro del meccanismo il cittadino-utente. In questa prospettiva, accanto all’abbassamento delle barriere all’entrata e alla parificazione tra gli erogatori (pubblici, privati, del terzo settore), chiamati a competere sulla base di regole certe, il consumatore-paziente è stato investito della libertà e della responsabilità di scelta, assimilando, in questo modo, le prestazioni sanitarie ai normali beni di consumo anche su quel terreno che maggiormente ha giustificato, fino ad ora, l’intervento pubblico e la deroga alle regole concorrenziali nel settore e risultando fortemente ridimensionata la valenza attribuita al problema di asimmetria informativa. Come si pone Lei nei confronti di queste tendenze emergenti? Non crede che, coerentemente ai principi alla base di un servizio sanitario nazionale, una maggiore concorrenzialità tra providers sulla base della qualità delle cure possa essere meglio perseguita all’interno dello schema attuale, in particolare separando committenza e produzione, potenziando lo strumento dell’accreditamento e facendo ricorso ai sistemi di valutazione comparativa che, dall’esperienza toscana (del laboratorio MES-Sant’Anna) a quella laziale (Pre.Val.E.), entrambe ricordate nel volume, sembrano poter costituire un valido supporto di composizione dell’offerta? Oppure, è da considerare altamente improbabile che all’interno del SSN si superino situazioni di conflitto di interesse e che, in fondo, come viene riportato nel Quaderno Astrid (richiamando il pensiero di Christian Gronroos), “la qualità in sanità è proprio ciò che i clienti recepiscono”? Infine, quale è secondo Lei l’accezione dell’abusato concetto di empowerment in grado di sposarsi meglio con quello di tutela?

 Io credo che, sempre nel quadro di un finanziamento su base pubblica universale, ci sia un ampio spazio per procedere al miglioramento e, in generale, a un cambiamento delle forme con cui vengono erogate le prestazioni sanitarie. E su questo la mia simpatia va verso i modelli di concorrenza amministrata, conosciuti in letteratura come quasi mercati, a indicare situazioni in cui i soggetti pubblici di governo del sistema si collocano nella posizione di committenti nei confronti di erogatori che possono essere indifferentemente pubblici o privati, ma che devono soddisfare la domanda del soggetto pubblico committente. Qui si apre tutto il tema dell’accreditamento e delle tariffe per prestazione con cui vengono remunerati gli erogatori.

Per la committenza e la regolazione possiamo pensare a due ruoli diversi: da una parte la Asl che potrebbe svolgere le funzioni di committenza; dall’altra, la Regione, che potrebbe rivestire il ruolo di regolatore del mercato, o meglio, del quasi mercato. Usiamo il termine quasi mercato per marcare delle distinzioni, delle differenze. Non si può parlare di vero mercato neanche in Lombardia. E’, infatti, un mercato fortemente governato, dove c’è un ruolo molto forte di regolazione e committenza da parte dei soggetti pubblici di governo del sistema. Si tratta, da questo punto di vista, di sfruttare le virtù della concorrenza tra erogatori pubblici e privati per migliorare la qualità dei servizi e contenerne i costi. Credo che di spazi ce ne siano molti e vadano sperimentate bene queste forme di concorrenza amministrata. Sono interessanti, lo diciamo nel libro, soprattutto le esperienze di alcune Regioni, per esempio quella della Lombardia e quella della Emilia Romagna, diverse tra loro ma con importanti tratti in comune. Le due esperienze, infatti, hanno nel tempo mostrato una sorta di processo di convergenza nella composizione delle funzioni di regolazione e di committenza tra i soggetti pubblici di governo del sistema sanitario. Qui si apre, però, una questione ulteriore: per poter avere una competizione sulla qualità, abbiamo bisogno di un soggetto nazionale di valutazione delle performance delle strutture sanitarie. Sul punto ci sono delle proposte anche in Parlamento. Sostanzialmente, abbiamo bisogno di una sorta di NICE italiano (l’ente britannico che svolge una funzione di valutazione complessiva del NHS) perché si possa effettivamente orientare quella concorrenza amministrata verso obiettivi di qualità che siano oggettivamente certificati e che, quindi, facciano da stella polare per i soggetti pubblici (Regione quale soggetto di regolazione e Asl quale soggetto di committenza) nei confronti delle strutture di erogazione dei servizi. Qui molto interessanti sono le esperienze locali che lei cita, in particolare del Laboratorio Mes- Sant’Anna di Pisa. Ci sono dei primi passi in questa direzione. Si tratta di dargli uno sbocco normativo, istituzionale a livello nazionale. Credo che questo passo sia fondamentale perché la stessa concorrenza possa dare frutti sul versante della qualità.

Note

1.  I medicinali di fascia A sono quelli a carico del SSN; alcuni di essi lo sono solo in ambito ospedaliero (fascia A, H)