La salute del Servizio Sanitario Nazionale: ApertaContrada intervista Claudio De Vincenti alla ricerca dei sintomi, della diagnosi e delle possibili terapie
La questione della sanità integrativa è forse l’aspetto che più di ogni altro mette in evidenza la presenza nel “mercato” della salute di un conflitto di interessi, difficile da comporre, tra i diversi stakeholder. Nel Quaderno di Astrid viene data voce a punti di vista differenti, dai quali si ricava una visione di insieme dei possibili benefici e delle potenziali conseguenze negative associabili alla creazione di un secondo pilastro nel finanziamento dei trattamenti/interventi sanitari. La disciplina in materia appare, tuttavia, equivoca: anche tralasciando, al momento, le perplessità, riportate nell’ultimo capitolo del volume, riguardo alla concreta funzionalità dei c.d. fondi doc (e sulle quali vorrei tornare più avanti), non è chiaro come si possa conciliare l’assetto universalistico del modello italiano di sanità con l’introduzione della medicina non convenzionale da una parte e delle quote di compartecipazione al prezzo dei servizi ricompresi nei Livelli essenziali di assistenza (LEA) dall’altra, nell’elenco tassativo delle prestazioni considerabili servizi integrativi ai fini del riconoscimento dell’agevolazione fiscale ex art. 9 D.Lgs 30 dic 1992. Se è vero che le forme di spesa out of pocket, ossia i pagamenti diretti a carico dei singoli cittadini (tipologia di spesa che costituisce la gran parte della spesa sanitaria privata in Italia) costituiscono una forma di finanziamento profondamente discriminatoria (sia perché ricadono sui soli soggetti che si trovano ad affrontare esigenze sanitarie sia in quanto vengono meno a ogni buona norma redistributiva di gradazione dell’onere in funzione della disponibilità economica) e che il SSN non è al momento in grado di garantire la tutela per prestazioni rilevanti, come l’odontoiatria o come quelle rivolte a fronteggiare condizioni fortemente invalidanti quali quelle a vario modo connesse con il problema della non autosufficienza, è vero anche che l’estensione alla medicina complementare e ai ticket sanitari della disciplina relativa ai fondi doc sembra andare incontro alle ambizioni di crescita del mondo assicurativo privato piuttosto che alle esigenze dei cittadini contribuenti. In particolare, vorremmo chiederLe come l’inserimento nell’ambito residuale di competenza dei fondi doc della medicina non convenzionale possa conciliarsi con i criteri dell’evidence based e se la protezione del cittadino, di cui si fa carico lo Stato in un Servizio sanitario nazionale, da trattamenti di dubbia efficacia terapeutica possa o debba considerarsi circoscritta all’ambito del servizio pubblico. In secondo luogo, ci piacerebbe conoscere la sua posizione in merito all’opportunità di incanalare le quote di copayment, quando concepite nel perseguimento di una maggiore responsabilizzazione individuale al consumo, in un regime assicurativo, per sua natura esposto a quei comportamenti irresponsabili, noti in letteratura come azzardo morale (ovvero perché riportare in regime assicurativo servizi volutamente lasciati al di fuori?). Anche considerando i ticket (la cui valenza disincentivante è da più parti messa in discussione) come sintomatici di una mera incapacità del sistema di sostenere la spesa nella sua interezza, non sarebbe maggiormente auspicabile, nell’intento di ridimensionare l’effetto sperequativo delle forme di pagamento diretto, una declinazione dell’entità del copayment alla luce delle condizioni economiche e di salute dei cittadini? Infine, nel capitolo di Elena Granaglia si dà evidenza di come, sia per quanto riguarda le cure odontoiatriche sia per quanto attiene all’assistenza ai non autosufficienti (ovvero le prestazioni individuate dalla normativa vigente come necessarie per il riconoscimento degli sgravi fiscali), la probabilità che l’evento malattia si verifichi è molto alta e di come sia, quindi, difficile ricondurre la relativa tutela a un meccanismo di ripartizione del rischio, a meno che l’agevolazione fiscale (che altro non è che spesa pubblica) non sia considerevole. In considerazione del carattere di non obbligatorietà della forma assicurativa in questione e dei conseguenti rischi di iniquità, come considera il suggerimento dell’autrice di recuperare il progetto di fondo pubblico nazionale per la non autosufficienza, forse troppo velocemente accantonato?
Prima di rispondere a queste domande, che sono di grande rilievo, vorrei chiarire come vedo personalmente il ruolo della sanità integrativa. Sono dell’idea che la copertura universale pubblica della popolazione dai rischi sanitari attraverso l’assicurazione pubblica obbligatoria o il finanziamento fiscale non sia solo un elemento di equità, ma anche di efficienza economica, nel senso che l’ampia platea di assicurati, grazie a un servizio sanitario a finanziamento pubblico, consente una ripartizione dei rischi migliore di quanto, invece, sia ottenibile su una platea più ristretta. Aggiungo che dai confronti internazionali risulta che i sistemi sanitari ad ampia copertura universalistica della popolazione mostrano una incidenza della spesa sanitaria complessiva (cioè delle risorse, pubbliche e private, che un paese dedica alla sanità) sul PIL, più bassa rispetto a paesi come gli Stati Uniti che hanno, invece, un sistema largamente basato sulle assicurazioni private. Evidentemente, quindi, quella migliore ripartizione dei rischi implica poi costi complessivi anche macroeconomici più bassi. Ribadisco, quindi, che nel difendere il finanziamento pubblico della sanità non ci sono solo motivi di equità, ma anche e soprattutto di efficienza economica. Detto questo, però, penso che ci sono dei margini di finanziamento individuale per alcune tipologie di prestazioni, che è bene lasciare nella disponibilità dei privati cittadini. Se vogliamo, l’esempio più semplice è quello dei servizi alberghieri: se qualcuno desidera, anziché stare in corsia, stare in camera doppia o singola, non vedo perché si debba limitare o impedire questa possibilità, la quale può trasformarsi in una fonte di finanziamento degli ospedali assolutamente normale e può rispondere a una esigenza di flessibilità nelle scelte individuali, pur in presenza di una tutela pubblica generalizzata.