Stefano Fenoaltea, The Reinterpretation of Italian Economic History: From Unification to the Great War (New York: Cambridge University Press, 2011)
Il volume segue L’economia italiana dall’Unità alla Grande Guerra (Roma-Bari: Laterza, 2006); ne è al contempo la prima versione in inglese, e una seconda edizione parzialmente riveduta.
Il volume conserva l’impostazione metodologica e la struttura del precedente, di cui ripropone le tesi. L’impostazione è segnata dall’enfasi sulla mobilità internazionale delle risorse, che lega lo sviluppo dell’economia italiana alla sua capacità di attirare capitale e tecnologie, di trattenere il già abbondante lavoro. Il primo capitolo racconta l’evoluzione delle ricostruzioni quantitative della produzione, e delle interpretazioni solo in parte a queste legate, per concludere che l’andamento della produzione dall’Unità alla Grande Guerra è segnato in primis da un ciclo degli investimenti, con fasi ascendenti negli anni di Depretis e di Giolitti. Il secondo esamina quel ciclo, e conclude che l’Italia ha in sostanza partecipato passivamente a un grande ciclo della finanza internazionale. Il ciclo italiano sembrerebbe infatti legato a un ciclo dell’offerta dei capitali esteri, in sostanza inglesi, che ha interessato tutta la periferia finanziaria: l’Italia rimane equiparata al resto di questa, e non si evidenziano mutamenti legati alle politiche seguite dai nostri governanti. Il terzo capitolo esamina la “crisi agraria” degli anni Ottanta, che vede come una crisi della sola cerealicoltura e dei soli proprietari terrieri, accompagnata da notevole prosperità degli altri settori produttivi (agricoltura specializzata, industria), e delle classi lavoratrici. Il quarto capitolo considera il protezionismo e l’emigrazione: conferma l’efficacia del protezionismo cotoniero, malgrado le esportazioni nette; ribadisce il danno del protezionismo siderurgico, che avrebbe impedito le esportazioni metalmeccaniche; condanna sopratutto il dazio sul grano, che dirottando all’estero impianti e posti di lavoro sarebbe stato la causa princeps della diaspora italiana. Il quinto capitolo riconsidera criticamente la “questione ferroviaria” sollevata nel dibattito tra Gerschenkron e Romeo; nega contro l’uno che lo scarso sviluppo della rete ferroviaria nel periodo giolittiano abbia frenato la crescita industriale di quegli anni, e contro l’altro che le ferrovie costruite nei primi anni dopo l’Unità abbiano fornito servizi “essenziali” che non potevano fornire i trasporti tradizionali. Il sesto capitolo, sul divario regionale, documenta che la parte del Paese con poca industria all’Unità era la fascia adriatico-ionica, e che l’industria si concentrò nel triangolo nord-occidentale con la successiva diffusione della fabbrica.
Rispetto alla prima edizione le novità sono duplici. Da un lato, alla maggior parte dei singoli capitoli è stato aggiunto un paragrafo che valuta lo stato del dibattito alla luce delle reazioni al volume laterziano. Dall’altro lato, già nella prefazione l’autore allarga la prospettiva metodologica, spiega meglio la sua visione della storia economica come scienza sociale, sociale prima ancora che scienza, e condizionata dunque dal desiderio di approdare a risultati che si sposino con la visione che abbiamo, o vorremmo avere, di noi stessi. E’ per questo, afferma l’autore, che la storia economica deve essere nel contempo storia del pensiero, il resoconto di una conversazione tra addetti ai lavori: “Capiremmo meglio quello che c’è da vedere,” scrive, “se quelli che ci hanno preceduto ci avessero detto non solo cosa vedevano, ma chi erano, da dove osservavano, e come ci erano arrivati.”
Un libro straordinario, un contributo che si distingue per il rigore analitico, la ricchezza del materiale statistico-storico, l’originalità delle tesi.